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«Colui che esisteva prima che Abramo fosse nato, che volle diventare vicino nel cammino con noi, il Buon Samaritano che ci sceglie sconfitti dalla vita e dalla nostra labile libertà, che morì e fu sepolto, e il suo sepolcro sigillato, è risorto e vive per sempre». È questo l’annuncio di Pasqua che l’allora arcivescovo di Buenos Aires, il cardinal Bergoglio, fece risuonare il 22 aprile del 2000 nella sua cattedrale la notte di Pasqua.
Il messaggio di Papa Francesco è un messaggio radicalmente pasquale: si confronta con gli avvenimenti della storia e della cronaca, e con il loro portato di sofferenza, di morte, di dolore, e ne offre una lettura alla luce della risurrezione di Cristo. Non teme di accostarsi alle tante «tombe» della storia e dell’animo umano per far risuonare al loro interno l’annuncio che la morte è stata vinta. Come il Pontefice ha detto più volte, l’omelia — ogni omelia — deve sempre iniziare, in un modo o nell’altro, con l’annuncio cristiano, l’annuncio del kerygma. Tutto il resto viene dopo.
Nel tempo pasquale che abbiamo dinanzi può essere utile meditare sulle parole che Papa Francesco ha condiviso con il suo popolo le notti di Pasqua tra il 2000 e il 2012 per farci guidare nel cammino da colui che adesso è pastore della Chiesa universale (cfr Papa Francesco, Omelie Pasquali, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2014, da cui sono tratte le citazioni del testo; cfr anche Id., È l’amore che apre gli occhi, Milano, Rizzoli, 2013, 277-303).
Il pensiero di Papa Francesco è frutto di una «intelligenza storica», cioè di un modo di pensare che è legato agli eventi, ma anche alla «carne» e ai sentimenti che accompagnano le situazioni della vita. Questi sentimenti sono per lui — secondo la sua formazione spirituale di gesuita — non soltanto una espressione della nostra psiche, ma anche il luogo in cui il Signore «muove e attira» ciascuno di noi, e anche il luogo in cui l’uomo sente sia la sua vocazione sia la sua tentazione. Bergoglio, dunque, si interroga sui sentimenti. Quali sono i sentimenti che accompagnano gli eventi della Pasqua? Qual è la dinamica spirituale profonda che essi sprigionano? Che cosa dicono alla vita quotidiana di ciascuno di noi oggi?
Per comprenderlo, bisogna capire che cosa è accaduto la notte di Pasqua. Conosciamo gli eventi così come ce li raccontano i Vangeli. Il Papa, nel passare degli anni, li ricorda con semplicità, commentando le letture della liturgia. Ma non tralascia di fissare la propria attenzione su alcuni elementi che qui vogliamo mettere in evidenza.
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La pietra e la tomba. Il primo degli elementi centrali nella scena dei racconti della morte e della risurrezione di Cristo è la pietra che copre e chiude la tomba di Cristo morto. «Era una pietra molto grande», ricorda il Papa. «Pensavo, mentre ascoltavo il Vangelo, che il corso dei secoli della storia che oggi abbiamo rivissuto qui, con letture sulla storia della salvezza, del popolo ebraico, del popolo di Dio… tutti quei secoli di storia si schiantano e falliscono contro un masso che sembra nessuno possa muovere. Tutte le promesse dei profeti, le illusioni, le speranze finiscono qui, si schiantano su un masso» (p. 39). La pietra sembra la tomba dei secoli: non solo della storia, ma anche della mia storia personale. Perché ognuno di noi ha la sua storia «con i suoi pro e contro, il suo bene e il suo male» (p. 40). Chi di noi, del resto, non ha avvertito, almeno in un momento della sua vita, il peso di un macigno addosso?
La pietra crea un ambiente sigillato, che priva di ossigeno i desideri di salvezza che la vita e la predicazione di Gesù avevano suscitato e aperto, dischiudendo i cuori. Quel sepolcro chiuso è sigillato e sorvegliato dall’«inquietudine di una cattiva coscienza» e proclama la sconfitta, anzi un «fallimento clamoroso» (p. 47). E allora, si chiede Bergoglio: quante volte nella nostra vita cristiana ci troviamo a un tratto a chiederci chi potrà rotolarci via questo masso, che «non ci lascia volare! Non ci lascia essere noi stessi!» (p. 40).
La pietra del sepolcro, nella riflessione del Papa, assume tutte le connotazioni negative di ciò che grava sulle nostre vite come un macigno, impedendoci di vivere, di aprirci all’esistenza; ma è anche il simbolo dei fallimenti della storia, del cammino dell’umanità nel tempo. La pietra è il fallimento, un verdetto che sembra finale e senza appello, impossibile da sovvertire. È il primo elemento sul quale meditare.
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Il terremoto e il grido. La scena tremenda della morte di Cristo in croce è accompagnata da un terremoto: «una grande scossa della terra e del cielo finisce la vita di Gesù» (p. 23). Questo terremoto è, per Bergoglio, il secondo grande elemento della scena del mistero pasquale. Esso incarna il grido dell’umanità, un «grido di morte, l’urlo dell’Inferno trionfante in uno spasmo vittorioso di profitto» (23 s). Possiamo immaginare l’Urlo del pittore norvegese Edvard Munch, ma anche l’urlo che giunge da tante «periferie» dell’umanità che sembrano confermare che Dio è morto, che non c’è null’altro da fare. E tuttavia proprio quello spasmo universale «nascondeva la timida confessione di fede dei soldati, il dolore di chi amava Gesù ed una tiepida speranza…, una sorta di brace nascosta nel profondo dell’anima» (p. 24). Persino dentro questo grido infernale si nasconde, timidamente e sotto la cenere, la brace di qualcos’altro, di una possibilità. Si tratta di una intuizione fondamentale: il Signore agisce dentro ogni situazione esistenziale. Anche dentro quella più desolante e chiusa alla speranza. Agisce anche inavvertitamente, ma può agire e «covare» brace rossa e calda sotto la cenere grigia.
Ed ecco, trascorso il sabato, arrivare un’altra scossa di terremoto, quella che accompagna la manifestazione della risurrezione: un angelo del Signore rotola la pietra e si posa su di essa, lasciando tramortite le guardie (cfr Mt 28,1-4).
Commenta il Papa: «Due terremoti, due scosse della terra, del cielo e del cuore» (p. 23). Con l’invito «“non abbiate paura” Gesù distrugge il tranello del primo terremoto. Questo era un grido nato dal trionfalismo della superbia: Il “non temete” di Gesù, invece, è l’annuncio mite del vero trionfo, quello che verrà trasmesso di voce in voce, di fede in fede, attraverso i secoli» (p. 24).
La voce del Signore dunque risuona dentro tutti i terremoti «personali, culturali, sociali; in mezzo a questi terremoti prodotti dall’intrigo dell’autosufficienza e dell’arroganza, dell’orgoglio e della superbia; nel mezzo dei terremoti del peccato di ciascuno di noi, nel mezzo di tutto questo ci incoraggiamo ad ascoltare la voce del Signore Gesù, che era morto ed ora è vivo» (p. 25).
Il terremoto diventa il simbolo di uno scuotimento profondo: prima libera un grido umano di angoscia, poi permette alla voce del Signore di far risuonare la sua presenza ovunque.
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Il movimento e il cammino. Un terzo elemento che l’allora cardinal Bergoglio poneva in risalto nella scena del mistero pasquale è il movimento. Il contrasto fortissimo tra la staticità irremovibile della pietra e il terremoto che la fa rotolare via genera una grande energia che si estende a tutta la scena, a tutti i personaggi: «Nessuno si è fermato…, tutti sono in movimento, in cammino» (p. 36), commenta il Papa. Le donne, «con il cuore in movimento», corrono a dare la notizia e si incontrano con Cristo. È questo movimento delle donne verso Cristo e di Cristo verso le donne che genera l’incontro. È come se il Papa dicesse che se non c’è movimento non è possibile un vero incontro. Non ci si incontra seduti, insomma.
Il Papa ha ben presente la complessità del vissuto, e di questa non ha una visione statica, ma dinamica: la complessità si dispiega nel movimento. Il messaggio evangelico è esso stesso in movimento: «non è relegato ad una storia lontana che è accaduta duemila anni fa…, è una realtà che continua a darsi ogni volta che ci mettiamo in cammino verso Dio e ci lasciamo da Lui incontrare» (p. 36). E l’incontro «ci porta a metterci in cammino affinché, di incontro in incontro, giungiamo all’incontro definitivo» (p. 37).
Dunque, la scena della risurrezione non implica la contemplazione statica di un mistero accaduto una volta, tempo addietro, ma è un impulso che rimette in moto la storia che si era bloccata a causa della pietra tombale. Il terremoto, l’urlo, la pietra che rotola, i soldati tramortiti, le donne che corrono, Pietro che corre, l’angelo che arriva… tracciano movimenti tesi che impediscono di vedere la gloria di Dio come statica. L’incontro con Dio è sempre un mistero storico, entra nella dinamica degli avvenimenti e imprime energia, a tratti anche accelerazione, a corpi che riscoprono una forza interiore e una capacità di reazione vivace.
Per questo motivo occorre sempre risvegliare la memoria. Bergoglio nella Notte Santa chiede agli angeli di risvegliare la memoria del popolo fedele di Dio (cfr p. 11), di aiutarci a tornare alla memoria dell’incontro con Dio, «alla memoria del primo amore» (p. 13), imparando quotidianamente «a fare memoria di quello che Dio ha fatto nella nostra vita» (p. 76).
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Un «cumulo di sentimenti mescolati». Il Papa, che è stato guida spirituale e maestro dei novizi, è molto attento a queste dinamiche interiori. Sa che il movimento esteriore è attivato dalla vita interiore. Il discernimento spirituale è, appunto, discernimento di mozioni interiori, di quei movimenti che Ignazio di Loyola chiama «consolazione» e «desolazione»: la prima accompagna il legame con Dio; la seconda invece la distanza da Lui. L’obiettivo di una vita cristiana è quello di prendere decisioni seguendo la consolazione, la pace interiore che è da Dio e che non passa. Ma il Papa sa anche che spesso noi prendiamo decisioni mossi invece dall’incertezza, dall’insicurezza, dalla paura. E questo è il contenuto di gran parte dei suoi discorsi pasquali, il nodo centrale, che egli ripete in molte circostanze, perché gli sta veramente a cuore.
È interessante notare il modo in cui Bergoglio, nelle sue omelie pasquali, si immerge nei sentimenti dei personaggi rilevando «un cumulo di sentimenti mescolati» (p. 43). In essi compie un fine discernimento. In particolare, nota nei testimoni del Risorto una reazione di paura.
Davanti al fatto che la tomba è vuota, ecco che cosa accade nella descrizione di Bergoglio: «Smarrimento, paura e apparenza di delirio: sentimenti che sono un sepolcro e lì si ferma per secoli il progresso di un popolo. Lo smarrimento disorienta, la paura paralizza, l’apparenza di delirio suggerisce fantasie. Le donne “impaurite, temevano il volto chinato a terra” (v. 5). Confusione e paura che chiudono lo sguardo al cielo; smarrimento e paura senza orizzonte, che torce la speranza» (p. 19). Come interpretare questo tumulto interiore descritto da Papa Francesco? La risurrezione non dovrebbe portare solo gioia ed entusiasmo? Perché «paura»?
Ecco le domande che ponevamo all’inizio, notando come Bergoglio si interroghi molto sui sentimenti. Quali sono i veri sentimenti che accompagnano gli eventi della Pasqua? Qual è la dinamica spirituale profonda che essi sprigionano? Che cosa dicono alla vita quotidiana di ciascuno di noi oggi?
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La paura della libertà. C’è bisogno della presenza dell’angelo che dice: «Non temete», perché sia messa in fuga la paura delle donne. «Si tratta di quella paura istintiva ad ogni speranza di felicità e di vita, la paura che non sia vero quello che sto vivendo o quello che mi dicono, la paura della gioia che ci è donata da una effusione di gratitudine» (p. 5 s).
Nella sua omelia durante la Messa a Santa Marta del 12 giugno scorso il Papa, parlando della legge dello Spirito come compimento della legge, ha detto: «In questa strada verso la maturità della legge, che viene proprio con la predicazione di Gesù, c’è sempre timore, timore della libertà che ci dà lo Spirito. La legge dello Spirito ci fa liberi! Questa libertà ci dà un po’ di paura». In queste parole troviamo dunque la spiegazione del timore delle donne: la legge della libertà dalle nostre tombe, la legge dello Spirito può farci paura. Come accade al popolo di Israele che, confuso, non vede l’ora di tornare sui passi della schiavitù, arrivando persino a «rimproverare il Signore che ci ha messo sulla strada della libertà» (p. 20 s). In queste espressioni troviamo la chiave interpretativa della lettura che Bergoglio sta dando dei sentimenti complessi che agitano i personaggi della scena pasquale.
Insomma: abbiamo paura della libertà, «paura della gioia», dice efficacemente il Papa. Nella sua omelia del Natale 2004 aveva addirittura parlato della «paura della dolcezza di Dio». È su questo sentimento che scende la parola: «Non abbiate paura!». Solo così «la difficoltà diventa porta d’entrata» (p. 27). Ecco, la notte di Pasqua è quella nella quale il Signore torna a dire al suo popolo fedele di non aver paura: «Lo dice nel silenzio di ogni cuore dolente, afflitto, disorientato; lo dice nelle congiunture storiche della confusione quando il potere del male prende il sopravvento sui popoli e costruisce strutture di peccato. Lo dice nelle sabbie di tutti i Colossei della Storia. Lo dice in ogni ferita umana… Lo dice in ogni morte personale e storica» (p. 25). Pasqua è percepire che la pietra tombale diventa porta, il muro via di accesso. Questo può far paura, può addirittura stordire e inquietare. Ma abbiamo bisogno di essere scossi per intraprendere un nuovo cammino.
Percepire il brivido della vera libertà dello Spirito rischia di condurre i timorosi a rintanarsi nella tomba, ad avere nostalgia delle bende della morte, che poi sono per noi gli idoli, le «vanità mondane» (p. 33) che ci irretiscono ma ci danno un senso di comfort, ci danno sicurezza. A volte, dice il Papa, a noi accade come alle donne che fuggirono via dal sepolcro piene di spavento e impaurite (cfr Mc 16,8), e che «si accoccolarono nella sicurezza di un sicuro fallimento, invece di cedere alla speranza» (p. 52). E così a volte «preferiamo rifugiarci nei nostri limiti, meschinità e peccati, nei dubbi e nelle negazioni che, giusto o sbagliato, ci impegniamo a gestire» (p. 53).
Preferiamo vivere incapsulati nella delusione. Preferiamo la sicurezza del sepolcro chiuso all’insicurezza della speranza: «Corriamo verso la vita con la promessa di trovarla in quella Galilea dell’incontro o preferiamo la bustarella esistenziale che ci assicura qualsiasi pietra che chiude ed annulla il nostro cuore?» (p. 49). Spesso purtroppo crediamo alla forza del sepolcro chiuso e «la adottiamo come forma di vita» (ivi), alimentando il cuore con la tristezza. Viviamo una paura, per cui «è meglio andare sul sicuro». E questo anche all’interno della Chiesa; e questo è il motivo, ad esempio, per cui a volte si trovano «preti tristi, e trasformati in una sorta di collezionisti di antichità» (p. 64 s). Come si legge nella Esortazione apostolica Evangelii gaudium di Papa Francesco, in cui, a questo proposito, egli cita Bernanos: «Si sviluppa la psicologia della tomba, che poco a poco trasforma i cristiani in mummie da museo. Delusi dalla realtà, dalla Chiesa o da se stessi, vivono la costante tentazione di attaccarsi a una tristezza dolciastra, senza speranza, che si impadronisce del cuore come “il più prezioso degli elisir del demonio”» (n. 83).
A tutto questo fa da netto contrasto l’evangelii gaudium (cfr p. 49), diceva Bergoglio nel 2011: la gioia della libertà del Vangelo, la libertà dello Spirito. Il Papa, dando questo titolo alla sua prima Esortazione apostolica, ha voluto dunque far comprendere che il Vangelo non può mai essere presentato come se fosse un macigno, un peso. Così pure che le nostre scelte non devono essere mosse dal desiderio di sicurezza, che ci impedisce, alla fine, di conferire al movimento del tempo il suo vero rapporto al disegno di Dio, e di leggere il Vangelo alla luce delle sfide dell’oggi.
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Il rischio a questo punto è ciò che Papa Francesco ha prospettato nella sua omelia da Santa Marta il 10 settembre 2013: «Ci sono tanti cristiani senza risurrezione, cristiani senza il Cristo Risorto: accompagnano Gesù fino alla tomba, piangono, gli vogliono tanto bene, ma fino a lì». Senza l’evangelii gaudium il cristianesimo implode.
L’annuncio «non abbiate paura» per Bergoglio andrebbe dunque letteralmente «urlato» (cfr p. 32 s). Ecco allora: «Oggi abbiamo bisogno che la forza di Dio ci tocchi, che ci sia un grande terremoto, che un Angelo faccia rotolare la pietra dal nostro cuore, quella pietra che ci impedisce il cammino, che ci sia un bagliore e molta luce. Oggi abbiamo bisogno, che ci scuotano l’anima, che ci venga detto che l’idolatria del quietismo culturale e possessivo non dà vita. Oggi abbiamo bisogno che, dopo essere stati scossi da tante frustrazioni, torniamo ad incontrare Lui e che ci dica “Non temete”, mettetevi di nuovo in marcia, tornate alla Galilea del primo amore» (p. 37 s).
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