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Sfogliando il Quarto Vangelo, quando giungiamo a Gv 20, proviamo, a una prima lettura, un certo senso di disagio. Quello che era, a un primo livello di redazione, un testo solennemente conclusivo di tutto il libro[1], sembra letterariamente disarticolato, composto com’è di personaggi di primo piano — Maria di Magdala, Pietro e il «discepolo amato», tutti i discepoli insieme senza Tommaso, Tommaso unico protagonista conclusivo — svincolati da un rapporto diretto tra loro.
Una rilettura aderente di tutto il capitolo permette però di superare questo limite. Emerge infatti gradatamente un tema di fondo unitario, trattato con un seducente sviluppo letterario progressivo, che coinvolge uno dopo l’altro tutti i personaggi indicati: è il rapporto tra la fede in Gesù risorto e il contatto post–pasquale, diretto e personale, che il cristiano ha con lui.
Esamineremo questo sviluppo tra fede e contatto con Gesù risorto nel suo divenire seguendo i personaggi indicati. Noteremo il livello man mano più alto che gradatamente viene raggiunto e, a conclusione, potremo constatare in un quadro riassuntivo la meraviglia della reciprocità con Gesù risorto alla quale la fede del dopo Pasqua conduce il cristiano.
Il buio e la fede iniziale di Maria Maddalena
L’autore del Quarto Vangelo, come è noto, non fornisce particolari solo di tipo descrittivo: ama e predilige il cosiddetto «doppio livello» — realistico e simbolico —, che usa con una frequenza apprezzabile. Lo troviamo nella presentazione di Maria Maddalena, che esce per andare al sepolcro di Gesù «quando era ancora buio» (Gv 20,1). Buio fuori, ma anche e soprattutto buio dentro — lo possiamo dedurre da tutto l’insieme — per quanto riguarda la fede in Gesù. Egli era stato per lei il maestro, ma ora non rimane che un corpo che lei affannosamente vuole trovare. E quando scopre che la pietra sepolcrale è stata rimossa, e constata che il sepolcro di Gesù è vuoto, non esita un istante e corre a informare i discepoli. Pietro e il «discepolo amato» escono di corsa verso il sepolcro.
Maria Maddalena non li segue, e la ritroviamo accanto al sepolcro dopo che i due discepoli, compiuta la loro visita, sono ritornati al Cenacolo. Il buio di fede di Maria Maddalena persiste e, addirittura, potremmo dire, si accentua. Rimasta, tutta piangente, presso il sepolcro, guarda all’interno chinando il capo, e nota un fatto che la dovrebbe scuotere: «Vide due angeli biancovestiti, seduti: uno in corrispondenza del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù» (Gv 20,12). Il fatto eccezionale di una presenza trascendente avrebbe dovuto impressionarla. Ma la Maddalena, alla domanda dei due angeli sul perché stia piangendo — domanda che poteva, insieme alla presenza e alla posizione degli angeli, orientarla verso la risurrezione — dà una risposta che mostra quanto ne sia lontana, ancora tutta radicata nella sua persuasione: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’abbiano posto» (Gv 20,13). Gesù per lei è ormai solo un corpo, e l’unico problema è ritrovarlo.
La Maddalena è fissata in questa sua ricerca, al punto che anche quando, voltatasi, si trova davanti Gesù risorto, non soltanto non lo riconosce, ma anche a lui, che le chiede perché stia piangendo, rivolge l’unica richiesta che le sta a cuore: «Signore, se lo hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo» (Gv 20,15). È davvero il colmo. Il buio di fede della Maddalena riguardo alla risurrezione è proprio un buio fitto.
L’amore da parte di Gesù le viene incontro. Appena egli, con tono affettuoso, le rivolge di nuovo la parola e la chiama per nome: «Maria!», la Maddalena recupera all’istante la fede di prima e, voltatasi fisicamente e moralmente, la esprime nella sua risposta: «Rabbunì, mio maestro!». Gesù però adesso non è soltanto il maestro; dice tassativamente a Maria Maddalena: «Non mi toccare, non sono infatti ancora salito al Padre. Ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”» (Gv 20,17).
L’espressione di Gesù «Non mi toccare» ha suscitato problemi, di carattere filologico e interpretativo. Anche se le discussioni in entrambi i campi non si possono considerare esaurite[2], alcuni elementi inerenti al testo permettono un’interpretazione coerente.
Notiamo anzitutto il rilievo del termine usato, «toccare». Molto raro in Giovanni, questo termine presenta un’ampia gamma di utilizzo in Luca, notoriamente vicino a Giovanni anche sotto l’aspetto linguistico. Il riferimento abbondante e variato a Gesù che vi troviamo permette un approfondimento interessante. Stando a Luca, Gesù «tocca», e viene a sua volta «toccato», con una frequenza significativa, e quando tocca o viene toccato, opera sempre una guarigione. Di conseguenza, dichiara Luca, «tutta la folla cercava di toccarlo perché da lui usciva una forza che guariva tutti» (Lc 6,19). Gesù stesso, pressato dalla folla, afferma, riferendosi alla donna affetta da emorragie: «Qualcuno mi ha toccato. Ho sentito infatti che una forza è uscita da me» (Lc 8,46).
Non si tratta, in Luca, di guarigioni di tipo medico, come se Gesù disponesse di medicamenti prodigiosi. Le guarigioni che egli opera dipendono solo da un contatto globale che si realizza con lui stesso e hanno un campo di azione più ampio rispetto a quello proprio dei malanni fisici. Il contatto con Gesù rimette anche i peccati. C’è, in altre parole, una reciprocità funzionale tra Gesù e l’uomo: reciprocità che poi si sviluppa fino ad arrivare — e con questo passiamo da Luca a Giovanni — al contatto altissimo e sorprendente di «mangiare» la sua carne e «bere» il suo sangue, come Gesù afferma ripetutamente nel discorso eucaristico di Cafarnao[3]. Il contatto intenso con lui produce effetti che sono propri di lui. Se il contatto con Gesù nella sua vita terrena metteva in moto tanta energia risanante a tutti i livelli, ci aspettiamo, a ragione, che il contatto con il Risorto comporti effetti ancora più grandi. Perché, allora, Gesù nega un contatto con lui a Maria Maddalena?
Prestando un’attenzione aderente al contesto del comando rivolto alla Maddalena, vediamo che Gesù stesso ne indica anche, in un certo senso, la ragione. Rileggendo la continuazione del testo: «Non mi toccare! Non ancora infatti sono salito al Padre» (Gv 20,17a), vediamo subito che il divieto di «toccare» non ha un carattere assoluto, ma è relativo all’ascesa di Gesù al Padre. Tutto quello che Gesù ha acquistato mediante la sua passione e risurrezione sarà presentato e come offerto al Padre, prima di venire donato agli uomini. La sua azione di dono come Risorto comincerà dopo l’incontro con il Padre, quasi che egli voglia offrire prima al Padre, come aspettando il suo beneplacito, tutto ciò che ha realizzato e ha preparato per gli uomini e che poi donerà loro.
Questo è un punto fondamentale. Lo ritroviamo già, esplicito e sottolineato, prima dell’inizio della passione, nella «preghiera dell’ora» (cfr Gv 17,1-26). La preghiera inizia con una invocazione accorata di Gesù al Padre. Sentendo giunta l’ora della passione e della risurrezione, che per lui costituiscono la massima realizzazione di se stesso, della sua «gloria», Gesù si rivolge al Padre, chiedendone a lui una realizzazione ottimale: «Levati gli occhi al cielo, disse: “Padre, è giunta l’ora: glorifica il Figlio tuo affinché il Figlio glorifichi te”» (Gv 17,1).
La realizzazione piena di Gesù, la sua glorificazione, è anche la realizzazione piena e la glorificazione del Padre, che l’ha ideata e progettata nella sua trascendenza, «prima che il mondo fosse» (Gv 17,5). L’aspirazione fondamentale di Gesù in questa stupenda preghiera è che il Padre gli conceda, quando lui si presenterà al Padre («Ora io vengo a te», Gv 17,13), di avere davvero compiuto, con la passione e la risurrezione, tutto il progetto di gloria che il Padre aveva formulato. La preghiera di Gesù viene sempre esaudita dal Padre. E quando Gesù parla alla Maddalena, è proprio sul punto di ascendere al Padre.
Notiamo in proposito come un certo «di più» tra Gesù e i discepoli, nel senso di una maggiore vicinanza reciproca, si stia già realizzando. Gesù aveva detto loro: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa ciò che fa il padrone. Vi ho chiamati amici, perché tutto quello che ho udito dal Padre mio ve l’ho fatto conoscere» (Gv 15,15). Ma ora i discepoli sono qualificati da Gesù come «miei fratelli», e ciò proprio rispetto a un loro nuovo rapporto con il Padre, rapporto diventato particolarmente vicino a quello proprio di Gesù. Dice Gesù alla Maddalena: «Va’ dai miei fratelli e di’ loro: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”» (Gv 20,17b).
Alla luce di tutto questo, è comprensibile il diniego di Gesù. Egli sarà lietissimo — e lo vedremo — di donarsi; aveva già realizzato addirittura un nuovo, altissimo modo di farlo mediante l’istituzione dell’Eucaristia, ma prima vorrà il beneplacito entusiasta del Padre, il quale gli comunicherà la sua approvazione, con la totalità dell’energia richiesta per poterlo davvero attuare.
Il diniego da parte di Gesù alla Maddalena si colloca spontaneamente in questo quadro. È soltanto una questione di attesa: non è né un rifiuto radicale, né una disistima da parte di Gesù, il quale, al contrario, mostra alla Maddalena tutta la sua fiducia, affidandole un annuncio fondamentale da portare ai discepoli.
E proprio questo annuncio offre alla fede rinascente, ma ancora incompleta, di Maria Maddalena una spinta preziosa di crescita. Non le basta credere nella risurrezione che ha come toccato con mano: per poter avere un contatto pieno con Gesù, per poterlo «toccare» nella nuova condizione in cui lo porrà l’ascesa al Padre, occorrerà un salto qualitativo nella fede.
Maria Maddalena lo intuisce e lo farà. Lo suggerisce un indizio minuto, ma significativo: mentre lei, al primo risveglio di fede, ha chiamato Gesù «mio maestro», come faceva abitualmente prima della risurrezione, adesso, portando ai discepoli nel Cenacolo il messaggio affidatole da Gesù risorto, afferma di aver visto «il Signore» (Gv 20,17). Il titolo «Signore» verrà dato di preferenza a Gesù risorto, ponendolo così al livello stesso di Dio. Per Maria Maddalena il buio di prima è scomparso, e la sua fede rinata si sta davvero muovendo.
Il primo guizzo di fede nella risurrezione del «discepolo amato»
Dopo l’annuncio dato da Maria Maddalena della scomparsa del corpo di Gesù dal sepolcro, si erano mossi due discepoli che, nel Vangelo di Giovanni, troviamo particolarmente uniti nelle vicende più salienti di Gesù, aiutandosi e completandosi a vicenda: sono Pietro e il «discepolo amato». Anche qui vedremo come si completano, offrendosi un aiuto reciproco.
Il «discepolo amato», più giovane di Pietro, corre velocemente e giunge per primo al sepolcro. Non entra dentro, ma, guardando solamente dal di fuori, nota un particolare che lo interessa. Avendo assistito, con tutta probabilità, alla sepoltura di Gesù, dopo essere stato presente sul Calvario alla sua morte (cfr Gv 20,26), il «discepolo amato» ha ancora in mente gli aspetti concreti della sepoltura. Guardando nel sepolcro dal di fuori, «vide giacenti le bende e tuttavia non entrò» (Gv 20,5). Le bende che avevano avvolto il corpo di Gesù, formando così un rilievo che il «discepolo amato» doveva ricordare nei dettagli, si trovano adesso cheimena, «schiacciate», «giacenti», «afflosciate», senza più contenere al loro interno il corpo di Gesù. Colpito da questo particolare inaspettato, il «discepolo amato» attende perplesso, senza entrare ancora all’interno del sepolcro.
Giunge intanto Pietro, entra nel sepolcro, nota con attenzione[4] le bende afflosciate, ma dedica un interesse particolare a un altro dettaglio sorprendente: il sudario, che era stato steso sul volto di Gesù ricoprendolo, non si era mantenuto al livello delle bende afflosciandosi semplicemente insieme ad esse, ma giaceva in disparte, distaccato e arrotolato. Pietro può aver fatto notare tutto questo anche al «discepolo amato», che si trovava ancora sulla soglia del sepolcro, inducendolo a riflettere intensamente su questi due particolari. La condizione e la collocazione delle bende e del sudario fornivano un’indicazione chiara, ma sconcertante: c’era stato uno spostamento del corpo di Gesù, fuoriuscito dalle bende dalla parte della testa dove era steso il sudario, che, al passaggio del corpo, si era avvolto su se stesso e distaccato.
A questo punto scatta nel «discepolo» una intuizione folgorante: Gesù è vivo e, come egli stesso aveva affermato ripetutamente, è risorto! Si è sottratto al sepolcro, sfilandosi, per così dire, dalle bende che lo circondavano e passando dalla parte della testa, dove si trovava il sudario. Il «discepolo amato» esprime tutto questo in termini concisi: «Allora [dopo l’entrata nel sepolcro da parte di Pietro] entrò anche l’altro discepolo che era arrivato per primo al sepolcro, e vide [di nuovo?] e credette» (Gv 20,8). Il «discepolo amato» è stato guidato dall’amore.
Il livello della fede nel Risorto è ancora iniziale e corrisponde al primo passo della Maddalena, con la differenza notevole che il «discepolo» crede senza vedere, mentre la Maddalena ha davanti a sé Gesù stesso e gli parla. Rappresenta, in ogni caso, un passo decisivo verso la fede nel Risorto, che piano piano si fa strada, assumendo gradatamente la sua forma. A questo punto i due discepoli rientrano nel Cenacolo, e avranno comunicato agli altri la scoperta esaltante. Possiamo immaginare la sorpresa e la gioia di tutti i presenti.
Giungerà poco dopo Maria Maddalena, portando ai discepoli il messaggio affidatole da Gesù. Quando Gesù parla di «Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro», si direbbe che, nella sua ascesa al Padre, porta anche i discepoli con sé, tanto li ama e li stima. I discepoli presenti avvertono che la risurrezione di Gesù li coinvolge e si estende, in un certo senso, anche a loro. Essi avranno parlato di tutto questo fino a sera, e la loro fede in Gesù risorto si sarà sempre più confermata ed estesa.
La fede piena dei discepoli e il loro contatto con Gesù risorto
Giunge intanto la sera. Giovanni ne sottolinea subito l’importanza, precisando in dettaglio i dati temporali e la situazione particolare riguardo ai discepoli: «Quando dunque giunse la sera in quel giorno, il primo nella settimana, e le porte dove si trovavano i discepoli erano chiuse per timore dei Giudei…» (Gv 20,19).
Questa introduzione minuta prepara un evento inaspettato e di massimo interesse: «Venne Gesù, stette in piedi[5] in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”». Il saluto abituale contenuto in queste parole viene accentuato anzitutto dal fatto che è il primo discorso che Gesù rivolge ai discepoli dopo che è asceso al Padre[6]. Come tale, contiene tutta la pienezza e la carica che derivano in Gesù da questo fatto. Ed è significativo che la prima espressione del discorso sia proprio «Pace a voi», con il doppio livello — realistico e simbolico — a cui abbiamo accennato, frequente nello stile di Giovanni. L’espressione di Gesù «Pace a voi», infatti, comporta probabilmente, nel suo secondo livello, il valore di «Me stesso a voi», come vedremo tra breve.
Il testo continua: «E, detto questo, mostrò le mani e il costato» (Gv 20,20). Questo gesto di Gesù risorto ha un’importanza fondamentale[7] e merita un approfondimento. Le mani hanno l’impronta dei chiodi[8], indicando, con questo, la passione con la sua drammatica sofferenza. Mostrandole e richiamando così l’attenzione su di esse, Gesù che parla si rivela portatore, oltre che della risurrezione che si constata guardandolo, anche della passione, sofferta in passato sul Calvario. La passione, che Gesù sta mostrando nelle mani trafitte, è presente in lui, come lo è la risurrezione.
Lo conferma il fatto sorprendente del costato trafitto, che Gesù risorto mostra, insieme alle mani, riferendosi con questo a un altro fatto, anch’esso proprio del quadro della passione. Dice in proposito Giovanni: «[I soldati] venuti da Gesù, siccome lo videro già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con la lancia gli aprì[9] il costato e ne uscì subito sangue e acqua» (Gv 19,33-34). La redenzione, che proprio grazie a Gesù e alle sue sofferenze può dirsi a questo punto effettuata, appare come depositata nel costato, potremmo dire nel cuore. Si tratterà di applicarla. È quanto ci viene indicato con l’apertura del costato di Gesù: apertura che spinge la salvezza, come annidata e in permanenza nel cuore, a uscirne subito per raggiungere quanto prima gli uomini ai quali è destinata.
Questa salvezza, concentrata nel costato, nel cuore di Gesù, presenta due aspetti, indicati simbolicamente dal sangue e dall’acqua. Il sangue, che nella cultura ebraica rappresenta la vitalità, indica qui la vita, donata da Gesù agli uomini mediante il sacrificio della propria vita. L’acqua, invece, nel simbolismo costante di Giovanni, indica il dono dello Spirito Santo, al quale l’evangelista si riferisce proprio nel momento della morte di Gesù, quando questi, «piegato il capo, diede lo Spirito»[10]. E lo Spirito, mediante una sua azione molteplice, raggiunge l’uomo che lo accoglie, portando e impiantando in lui Gesù con la sua vitalità.
Tutto questo viene indicato quando Gesù risorto mostra il costato aperto ai discepoli, i quali, convinti ed emozionati, con una fede maturata durante tutta la giornata, reagiscono con un’accoglienza di gioia: «[Gesù] mostrò loro le mani e il costato. Esultarono i discepoli, vedendo il Signore» (Gv 20,20).
Subito dopo Gesù riprende la parola: «Poi disse di nuovo: “Pace a voi!”» (Gv 20,21). Notavamo che la pace augurata, pur facendo parte di una formula generale di saluto, contiene anche, a un suo secondo livello, un riferimento chiaro a Gesù. Lo indica il fatto che una ripetizione in Giovanni non è mai un duplicato tautologico, ma comporta un approfondimento, con qualche elemento nuovo. Qui la ripetizione sottolineata — «disse di nuovo» — si riferisce a Ef 2,14, dove, riguardo a Gesù, viene affermato: «Egli infatti è la nostra pace».
«Pace a voi», ridetto da Gesù ai discepoli, ha il senso generale di «Me stesso a voi». C’è un passaggio, un travaso da Gesù ai discepoli; quello che è proprio di lui tende a diventare loro: «Come il Padre ha mandato me, così io mando voi» (Gv 20,21). E Gesù aggiunge subito dopo un’affermazione fondamentale, che conferma e spiega quanto abbiamo visto a proposito dell’apertura del costato: «Detto ciò, alitò su di loro e disse loro: “Ricevete adesso[11] lo Spirito Santo”» (Gv 20,22).
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Lo Spirito Santo donato trasforma i discepoli sulla linea di Gesù, in vista della missione del Padre passata da Gesù a loro. Ora egli è presente e attivo in loro, ed essi potranno addirittura donarlo. Questo accadrà in modo particolare quando si troveranno a contatto con gli uomini peccatori e bisognosi di perdono, come accadeva a Gesù. Essi non dovranno esitare. Applicando ai peccati degli uomini il Gesù che portano, otterranno lo stesso effetto che otteneva Gesù di persona: i peccati saranno rimessi. E solo in tal modo saranno rimessi.
Così si conclude la presenza di Gesù tra i discepoli la sera di Pasqua. Gesù per i discepoli è stato tutto un dono di amore: si è mostrato, ha parlato, ha alitato su di loro lo Spirito, li ha lanciati sulla linea voluta dal Padre, che egli stesso aveva seguito. Non poteva fare di più. La fede piena, già maturata prima del suo arrivo, ha permesso ai discepoli un’accoglienza senza limiti del Risorto e di tutti i suoi doni. Si è sviluppata una reciprocità di amore. E dove ci sono fede e amore, c’è gioia. Non sorprende che l’unica risposta esplicita alla presenza e al discorso di Gesù da parte dei discepoli sia stata costantemente quella emersa fin dall’inizio: «Esultarono i discepoli vedendo il Signore» (Gv 20,20).
La fede tormentata di Tommaso e il suo contatto profondo con Gesù
Il nome di Tommaso ricorre undici volte nel Nuovo Testamento[12]. Menzionato insieme agli altri discepoli da Matteo, da Marco e da Luca, si ritrova una volta anche negli Atti degli Apostoli, ma è in Giovanni che, in ben otto occasioni, emerge con aspetti interessanti della sua personalità[13], particolari anche rispetto agli altri discepoli.
Di carattere deciso e interessato a comprendere fino in fondo quanto Gesù dice ai discepoli, Tommaso non esita a porgli domande apparentemente provocatorie, ottenendo risposte esaurienti[14]. Soprattutto, quando si trova con Gesù e con gli altri discepoli fuori di Gerusalemme e Gesù decide di ritornare a Betania mettendo così a repentaglio la propria vita, è proprio Tommaso a dire agli altri discepoli: «Andiamo anche noi e moriamo con lui!» (Gv 11,16), mostrando così il suo coraggio e il suo attaccamento a Gesù.
Tommaso era assente dal gruppo dei discepoli la domenica di Pasqua, quando era avvenuto l’incontro con Gesù risorto. Appena i discepoli lo trovano, si affrettano a dargli la grande notizia: «Abbiamo visto il Signore!» (Gv 20,25). Ma la reazione di Tommaso non poteva essere più fredda: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi, e non pongo la mia mano nel suo costato, non crederò assolutamente[15]» (Gv 20,25).
Si tratta di credere nella risurrezione di Gesù, ma Tommaso, per farlo, elenca con forza una serie di condizioni per lui imprescindibili. Si tratta, in sintesi, di trovare nel Gesù della risurrezione tutto quanto era stato realizzato dal Gesù della passione, che, per Tommaso, ha due punti di riferimento essenziali: la crocifissione con i chiodi nelle mani che porta Gesù alla morte; il sangue e l’acqua, simboli della vita donata e dello Spirito che, dopo la morte di Gesù, fuoriescono dal suo costato, per raggiungere l’uomo. Sia la crocifissione, sia «il sangue e l’acqua», per risultare efficaci, devono venire pienamente in contatto con l’uomo.
Da qui l’impulso, irresistibile per Tommaso, a toccare subito in Gesù risorto, sia i fori dei chiodi sia il costato aperto. Come primo impegno, egli pensa subito a tutto questo, e dopo, anche in virtù dell’effetto positivo che si aspetta dal duplice contatto, potrà pensare a far decollare la sua fede in Gesù risorto. Mentre nei Vangeli sinottici troviamo espressa e ribadita da Gesù la priorità della fede in lui rispetto a qualunque suo intervento[16], specialmente di guarigione, Tommaso, invertendo l’ordine seguito da Gesù, vorrebbe prima l’effetto operato da Gesù e poi la fede.
Otto giorni dopo la prima manifestazione, Gesù viene di nuovo nel Cenacolo. Sta in piedi, come Risorto, in mezzo ai discepoli; dà loro il suo saluto tipico «Pace a voi» e si rivolge subito a Tommaso[17]. Tutta questa seconda visita è dedicata a lui. Prendendo lo spunto dalle condizioni espresse da Tommaso, Gesù gli rivolge cinque imperativi precisi: «Porta (fere) il tuo dito qua e vedi (ide) le mie mani e porta (fere) la tua mano e mettila (bale) nel mio costato e non diventare (me ginou) incredulo, ma credente» (Gv 20,27).
Cominciamo con il quinto imperativo, che si riferisce globalmente alla situazione di Tommaso: «Non diventare incredulo, ma credente»[18] (Gv 20,27). Un problema di traduzione porta a un approfondimento interessante. Il verbo usato, ginomai, implica un movimento, un certo sviluppo[19], e non è un semplice sinonimo di eimi, «essere». La traduzione esatta è «divenire». A Tommaso viene indicato da Gesù anzitutto un rischio da evitare: qualora si ostinasse nella chiusura alla testimonianza degli altri discepoli e si incaponisse sulle sue condizioni, scivolerebbe nell’incredulità.
Tommaso però non è un incredulo. Entusiasta di Gesù, come abbiamo visto, e aderente a lui, non riesce a fare il salto di fede nella risurrezione, e forse ne è tormentato, visto il tono aspro che usa con gli altri discepoli[20]. Quello che gli manca ancora è l’accettazione di Gesù risorto con tutta la passione presente in lui. La visione immediata di Gesù risorto favorirà il decollo della sua fede, ma la scelta dovrà essere sua. In altri termini, l’imperativo assoluto da parte di Gesù risorto: «Non diventare incredulo, ma diventa credente», ha una sua forza operativa, ma a condizione che Tommaso lo accetti. E questa condizione si verifica.
Diamo uno sguardo anche agli altri quattro imperativi rivolti a Tommaso, riguardanti tutti il rapporto diretto con Gesù risorto: «Porta il tuo dito qua e vedi le mie mani […], porta la tua mano e mettila nel mio costato» (Gv 20,27). Tommaso vede Gesù risorto e, come Gesù stesso sottolineerà, è proprio questa visione globale che lo spinge allo scatto di fede. Gesù gli dirà: «Poiché mi hai veduto (heorakas me), hai creduto» (Gv 20,29). L’imperativo diretto di Gesù risorto riguardava le mani e il costato, che Tommaso, seguendo quanto detto da Gesù risorto, vede e tocca. Egli allora constata che tutto il Gesù del Golgota, dei chiodi e del costato aperto, si trova davvero nel Gesù che gli parla. Scopre in lui con emozione il suo Crocifisso Risorto. E la fede di Tommaso si sblocca. Dopo avere accettato ed eseguito i cinque imperativi rivoltigli, Tommaso esprime commosso a Gesù risorto la sua reazione conclusiva: «Rispose Tommaso e gli disse: “Signore mio e Dio mio!”» (Gv 20,28).
In questa risposta Tommaso raggiunge un vertice. Con i due attributi che ormai vede inseparabili, esprime a Gesù, che è insieme Signore e Dio, la pienezza di fede raggiunta. Ma, oltre a questo, nella risposta di Tommaso a Gesù c’è una coinvolgente dimensione di reciprocità emotiva. Tommaso si è accorto, dalla premura straordinaria e personale di Gesù nei suoi riguardi, di quanto è grande l’amore che Gesù nutre per lui. Lo vuole ricambiare a ogni costo, come aveva fatto quando ha esortato gli altri discepoli a seguire Gesù per morire con lui (cfr Gv 11,16). E ora, ripetendo l’aggettivo possessivo «mio», gli manifesta la duplice reciprocità del suo amore: «Signore mio e Dio mio!». Questo è Tommaso. E anche il lettore non può non commuoversi.
L’incontro fra Gesù e Tommaso si conclude con un avvertimento particolarmente solenne che parte da Gesù, raggiunge Tommaso e poi si applica ai cristiani credenti in generale: «Poiché mi hai veduto (heorakas)[21], hai creduto (pepisteukas)[22]. Beati coloro che non videro e credettero (me idontes kai pisteusantes)!».
In una prima parte, il solenne avvertimento di Gesù, tutto riferito a Tommaso, conferma la piena positività della sua scelta: Tommaso ha creduto in Gesù risorto perché lo ha veduto, prendendo atto della piena presenza in lui della passione. E Gesù apprezza il cammino di fede di Tommaso. Ma c’è un di più che Gesù sottolinea[23], dichiarando addirittura «beati» coloro che hanno creduto senza avere visto. Viene da pensare, nel contesto immediato, al «discepolo amato», che ha iniziato il suo cammino di fede nel Risorto senza ancora vederlo, come pure ai discepoli riuniti nel Cenacolo la sera di Pasqua, i quali accolgono le parole di Gesù, presentate loro dalla Maddalena, senza vedere Gesù.
La solennità letteraria del macarismo «Beati coloro che non videro e credettero» tende a farne un’affermazione di principio che riguarda non soltanto il «discepolo amato» e gli altri discepoli, ma anche tutti coloro che, pur «non avendo visto», «crederanno mediante la loro parola» (Gv 17,20). Ciò che non era riuscito a fare Tommaso.
Conclusione
Uno sguardo di insieme a quanto abbiamo visto conferma ciò che è stato detto all’inizio: il capitolo 20 di Giovanni presenta un quadro affascinante della fede vissuta, come la vede e la interpreta il Quarto Vangelo.
Guardandolo globalmente, questo quadro suggestivo stupisce anzitutto per la ricchezza e la varietà del contenuto che propone. La fede in Gesù crocifisso e risorto ha come un trattamento bipolare: viene vista sia con il fascino irresistibile che comporta, sia in contatto con situazioni nelle quali credere appare, parzialmente o totalmente, in distonia con la concretezza della vita. Seguendo lo sviluppo letterario del testo, incontriamo quattro problematiche di fede.
C’è una fede che sembra bloccarsi, nascondersi e addirittura sparire: è il buio iniziale di fede nel Crocifisso Risorto di Maria Maddalena. Soltanto il contatto diretto con Gesù risorto, la premura e l’amore del Risorto, la stima che egli dimostra verso di lei affidandole un messaggio di massima importanza per i discepoli riescono a riportare la Maddalena sulla strada della fede che prima seguiva e a farle accogliere gli ulteriori sviluppi suggestivi che comporta.
C’è una fede che esige un salto qualitativo coraggioso. Ne è protagonista il «discepolo amato», il quale, insieme con Pietro, accerta nel sepolcro la posizione particolare delle bende che avvolgevano Gesù e del sudario, ricavandone la conclusione inquietante di un autospostamento del corpo di Gesù, per poi decollare — ricordando le affermazioni ripetute di Gesù in proposito — verso la fede nella risurrezione, credendo, senza vedere, che Gesù era vivo. Anche se non appaiono i particolari in dettaglio, è di grande importanza questo gesto del discepolo amato. L’affermazione conclusiva che Gesù dice a Tommaso: «Beati coloro che non hanno visto e hanno creduto» (Gv 20,29), si riferisce anzitutto a lui, per poi applicarsi anche a tutti coloro che crederanno attraverso la parola dei discepoli. Tutti noi apparteniamo oggi a questa categoria.
E c’è una fede che sembra svilupparsi serenamente, crescendo in continuazione senza salti e senza scosse, ma accogliendo e personalizzando tutto quello che viene offerto dalle persone incontrate o suggerito dal contesto in cui si vive. È la situazione del gruppo dei discepoli. Essi sono i primi, la mattina del giorno di Pasqua, ad avere da Maria Maddalena la notizia della scomparsa del corpo di Gesù. Due di loro corrono verso il sepolcro, ma gli altri, la maggioranza, rimangono nel Cenacolo e attendono. Quando giungono sia i due di loro che erano partiti sia Maria Maddalena con il messaggio esaltante da parte di Gesù, i discepoli ascoltano con la massima attenzione, assorbono, riflettono, accettano, probabilmente discutono animatamente tra loro fino a sera. E la loro fede si snoda. Quando la sera Gesù stesso si presenta, li trova preparati e, senza dover insistere sulla fede che c’è già, può iniziare subito a presentarsi e a donare. La loro gioia è la risposta propria dei discepoli.
C’è infine la fede tormentata di Tommaso. Lungi dall’essere un non credente, egli sente costantemente come un bisogno di approfondire e di un «di più», anche nella sua fede, che egli avverte sempre in divenire. Tutto questo gli costa, ma non vi rinuncia. E il Signore lo incoraggia. Come prima Gesù ha accolto e soddisfatto le sue richieste di chiarimento anche sul suo insegnamento, così ora il Risorto gli segnala con tutta chiarezza, forse con un velo di rimprovero, il serio rischio che egli potrebbe correre proprio riguardo alla fede, se si lasciasse trasportare solo dalla sua logica, chiudendosi nei suoi ragionamenti. Gesù si mostra esigente, possiamo dire anche severo, con Tommaso. Ma Tommaso lo comprende: si accorge sempre della premura di cui è oggetto, dell’amore inflessibile che Gesù ha per lui, anche quando lo rimprovera. E reagisce con una delle professioni di amore e di fede più belle che troviamo nel Quarto Vangelo: «Signore mio e Dio mio!».
Tommaso non è il solo che trova e avverte la presenza e la pressione di Gesù nell’ambito della sua fede. Troviamo questa vicinanza da parte di Gesù nel contatto con Maria Maddalena, che la porta a superare in pieno l’amore fortissimo, ma cieco, che aveva per lui. Quando Gesù incontra i discepoli la sera di Pasqua, la fede in lui, maturata nello svolgersi del giorno, ha già condotto i discepoli a un contatto pieno e aderente con lui: contatto che appare in primo piano quando Gesù, quasi attingendo dall’intimo di se stesso, alitando, comunica loro il suo Spirito.
Quando poi Gesù ha affrontato e risolto il problema di fede di Tommaso, la sua vicinanza esigente si è fatta sentire con una tale aderenza di amore da indurre Tommaso a rispondere con la più bella espressione di fede e di amore.
Anche nello scatto di fede in Gesù risorto da parte del «discepolo amato» dobbiamo supporre una presenza aderente, un contatto di amore particolare da parte di Gesù, anche se il testo non lo dice esplicitamente. Non mancano indizi significativi in questa linea. Quando Gesù risorto si congeda da Tommaso, approva con gioia la fede piena in lui che Tommaso, vedendolo, ha raggiunto. Quando poi Gesù aggiunge, con la forte sottolineatura data dal macarismo letterario, riferendosi al passato: «Beati coloro che non avendo visto hanno creduto», l’unica persona concreta a cui può alludere è proprio il «discepolo amato». Gesù — anche questo era un segno dell’amore speciale che nutriva per lui — lo aveva sensibilizzato anche sulla sua risurrezione futura, prendendolo con sé, insieme a Pietro e Giacomo, in circostanze particolari nelle quali ha parlato della sua risurrezione, come, ad esempio, nella Trasfigurazione[24].
Gesù dunque appare nel capitolo 20 di Giovanni come il centro focale della fede e di quanto la riguarda. È lui l’oggetto della fede, il Crocifisso Risorto in cui occorre credere; è lui che chiede ed esige questa fede, ma, nello stesso tempo, concede a tutti la possibilità di raggiungerla, mettendosi egli stesso in contatto con ciascuno e trovando per ciascuno il suo modo particolare di raggiungerlo.
La fede che Gesù dona non è separabile da lui, dal suo amore per la persona a cui egli la dona. E anche per colui che la riceve non ci può essere fede senza amore. In tutti i personaggi incontrati l’amore è stato sempre presente e determinante: la Maddalena, che riesce a superare l’amore cieco delle prime ore quando si sente teneramente chiamata con il suo nome da Gesù; il «discepolo amato», che, sapendo di essere davvero tale, mostra il suo amore nella tenacia della sua ricerca; i discepoli della sera di Pasqua, che si sentono come invasi dai doni di amore di Gesù e rispondono con la gioia. È soprattutto Tommaso che, in tutta la sua complessa vicenda, prende atto progressivamente dell’amore infinito di Gesù e avverte il bisogno di contraccambiarlo. E la sua espressione che, con commozione, abbiamo ascoltato più volte, diventa in conclusione anche la nostra: «Signore mio e Dio mio!»[25] (Gv 20,28).
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[1]. La finale del capitolo 20,30-31 indica di per sé una conclusione generale: «Gesù in presenza dei discepoli fece ancora molti altri segni, che non sono scritti in questo libro. Questi sono stati scritti affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e, credendo, abbiate la vita nel suo nome». Tutto il capitolo 21 che segue appare composto in un secondo tempo.
[2]. Cfr, per un’ampia documentazione in proposito, R. Fabris, «La risurrezione di Gesù (Gv 20,1-31)», in Id., Giovanni, Roma, Borla, 1992, 1004-1102.
[3]. Cfr Gv 6,48-59.
[4]. Stando letteralmente al testo greco, dobbiamo tradurre con «vede» (blepei) l’azione del «discepolo amato» appena giunto, e con «guarda» (theorei) l’azione di Pietro, più concentrata e riflessiva. Pietro scopre anche la presenza caratteristica del sudario.
[5]. È una traduzione letterale: lo «stare in piedi» da parte di Gesù indica la sua condizione di Risorto.
[6]. Non si hanno indicazioni concrete né di tempo né di modalità sull’ascesa di Gesù al Padre. Essendo sparite, in questa apparizione di Gesù, le riserve indicate alla Maddalena, si deduce che l’ascesa al Padre si è già realizzata, naturalmente «dal cielo in su», nella trascendenza divina, che non ammette descrizioni a livello puramente umano. Un cenno si può intravedere nelle parole che Gesù indirizza ai discepoli nella sua ultima apparizione secondo Matteo: «Allora Gesù disse loro: “Ogni potere mi è stato dato in cielo e in terra”» (Mt 28,18).
[7]. Gesù non mira, come nell’apparizione analoga di Luca (cfr Lc 24,36-52), a farsi riconoscere dai discepoli mostrando le mani e i piedi con le trafitture dei chiodi. Il problema non esiste, dopo la giornata trascorsa.
[8]. Non è detto esplicitamente qui, ma il riferimento ai chiodi, sottinteso, è indispensabile perché tutto il racconto abbia senso. E quando Tommaso, a suo tempo, ne parlerà, userà un’espressione completa: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi…» (Gv 20,25).
[9]. L’espressione greca enuxen, tradotta in latino dalla Volgata con aperuit, indica un colpo leggero, per cui si può tradurre: «con un colpo di lancia aprì il costato», anziché: «con un colpo di lancia trafisse il costato».
[10]. Nell’espressione «Piegato il capo, diede lo Spirito» (Gv 19,30) è ravvisabile il doppio piano, proprio dello stile di Giovanni. Si tratta dell’ultimo respiro di Gesù, della sua morte. Nello stesso tempo la forma particolare usata, «diede lo Spirito», è caratteristica e sembra addirittura coniata da Giovanni, con una forte accentuazione linguistica rispetto alla tradizione sinottica (cfr Mt 27,50; Mc 15,37; Lc 23,47): suggerisce che già si attua, nel momento dell’ultimo respiro, il dono dello Spirito, quello che Gesù realizzerà ed espliciterà da Risorto la sera di Pasqua.
[11]. L’imperativo aoristo labete richiede un’accentuazione del presente.
[12]. Mt 10,3; Mc 3,18; Lc 6,15; Gv 11,16; 14.5; 20,5.24.26.27.28; 21,2: At 1,13.
[13]. Il fatto che solo Giovanni riferisca per tre volte un soprannome di Tommaso, «didimo», «gemello» (Gv 11,10; 20,4; 21,2), senza che emerga un motivo particolare, tranne forse una certa confidenziale familiarità, induce a supporre un rapporto stretto di amicizia tra i due.
[14]. Un esempio chiaro lo troviamo in Gv 14,4-6: «“E dove io vado voi conoscete la via”. Gli dice Tommaso: “Signore, non sappiamo dove vai, come possiamo conoscerne la via?”. Gli dice Gesù: “Io sono la via e la verità e la vita. Nessuno va al Padre se non attraverso di me”».
[15]. Il testo greco ou me esprime una negazione rafforzata.
[16]. Cfr «La tua fede ti ha salvato» (Mc 10,12; Lc 17,19; 18,42).
[17]. Cfr, per i dettagli e gli approfondimenti grammaticali, U. Vanni, «Il Crocifisso Risorto di Tommaso (Gv 20,24-29). Un’ipotesi di lavoro», in Studia Patavina 50 (2003) 753-775.
[18]. Si potrebbe tradurre — e così avremmo un significato particolarmente aderente — con l’imperativo presente: «Smetti di diventare non credente, ma diventa credente».
[19]. «Radical sense, to come into being […] followed by a predicate, to come into a certain state, to become» (Liddell-Scott, s.v.).
[20]. Una certa emozione è rilevabile — secondo lo sviluppo narrativo del testo — nella duplice negazione: «Non crederò assolutamente» (Gv 20,26), e nell’enumerazione puntigliosa delle condizioni poste: «Se non vedo […], se non metto […] e metto…» (Gv 20,26).
[21]. In questo versetto c’è da notare un particolare interessante riguardante i verbi: mentre heorakas e pepisteukas, al perfetto, esprimono entrambi un’azione iniziata nel passato e che perdura nel presente, idontes e pisteusantes, all’aoristo, indicano un’azione puntuale verificatasi nel passato.
[22]. Sembra fuori luogo mettere qui un punto interrogativo, come fanno diverse edizioni critiche. Tommaso ha creduto davvero, come abbiamo visto, e quindi è da escludere il senso ironico che l’espressione acquisterebbe con l’interrogativo.
[23]. Troviamo qui una delle due proclamazioni solenni, dette «macarismi» per la particolare forma letteraria, che sono presenti, ad esempio, nelle Beatitudini (cfr Mt 5,3-12). La forma letteraria «macarismo» ricorre due volte in Giovanni: qui e in 13,17.
[24]. Cfr l’episodio della Trasfigurazione nel Vangelo di Marco: «Sei giorni dopo Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovannie li condusse in disparte, essi soli, su un alto monte, dove si trasfigurò davanti a loro» (Mc 9,2); «Quando poi discesero dal monte, Gesù comandò loro di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto, fino a quando il Figlio dell’uomo non fosse risuscitato dai morti» (Mc 9,9).
[25]. L’espressione greca può essere tradotta letteralmente anche nel modo seguente: «Tu sei il mio Signore e il mio Dio!». In questo caso si avrebbe una esplicitazione dell’esperienza di Gesù fatta da Tommaso. A conclusione di tale esperienza, Tommaso scopre chi è davvero Gesù per lui.