|
L’interesse internazionale per l’Afghanistan negli ultimi 20 anni si è ridestato a scatti, mosso prima dall’occupazione sovietica, poi dall’insediamento del Governo talebano, quindi dall’indignazione causata dalla distruzione delle grandi statue del Buddha e, infine, dalle vicende seguite all’11 settembre 2001. A partire dal crollo delle Twin Towers anche le librerie italiane sono state invase da libri di analisi socio-politica su quella regione. Tuttavia per comprendere un popolo, il suo spirito e la sua terra questo genere di pubblicazioni non è affatto sufficiente. Per entrare nelle «vene» di un Paese è infatti necessario innanzitutto ascoltarne le storie e le narrazioni. Best-sellers come, ad esempio, il contestato Il libraio di Kabul della norvegese Asne Seierstad o testimonianze narrative come le splendide Storie da Kabul di Alberto Cairo[1] restano espressione di uno sguardo che viene dall’esterno. Occorre dunque ascoltare la voce di scrittori afghani[2].
C’è da precisare subito, comunque, che col termine «afghano» non si fa riferimento alla cultura omogenea di un popolo che abbia alle spalle una storia unitaria: l’Afghanistan è uno Stato di recente fondazione, che ospita in sé etnie, lingue e costumi di quattro aree geografico-culturali: il Medio Oriente, l’Asia centrale, l’Asia del sud e l’Estremo Oriente. La tradizione letteraria secolare che si è sviluppata in quelle terre è molto ricca e si è espressa in due lingue, divenute entrambe ufficiali dal 1940: il pashto, appartenente al ramo orientale delle lingue iraniche, e il dari, una variante del persiano, lingua che ha avuto uno sviluppo letterario straordinario tra il V e il XV secolo[3]. Gli esiti recenti di queste tradizioni in territorio afghano non hanno destato particolare interesse nel mondo, e il Governo filosovietico prima e quello talebano dopo non hanno certo contribuito allo sviluppo libero e florido dell’espressione letteraria.
A partire dal crollo della monarchia di Zahir Shah nel 1973, i rivolgimenti politici spinsero giovani studenti, intellettuali e scrittori a chiedere asilo in Pakistan, in Iran e poi anche in Occidente. Nelle terre della loro emigrazione in questi ultimi anni essi hanno scritto e pubblicato le loro opere di esordio. Questo, ad esempio, è stato il destino di scrittori oggi più o meno quarantenni quali Khaled Hosseini, che ha scritto in inglese, Mohammad Asaf Soltanzade e Atiq Rahimi[4], che hanno scritto in lingua dari. Il primo è emigrato negli Stati Uniti, il secondo in Iran e poi in Danimarca, il terzo in Francia[5]. Nelle pagine seguenti presenteremo le loro opere soffermandoci più attentamente su Rahimi, che appare, grazie alle numerose traduzioni dei suoi romanzi, il più apprezzato internazionalmente[6]. Siamo coscienti tuttavia — e per averne conferma basterebbe fare una rapida analisi dei siti letterari afghani presenti in internet, sia nelle lingue del Paese sia in inglese — del fatto che la letteratura afghana contemporanea è un mare profondo e inesplorato e che questi autori più conosciuti rappresentano soltanto un’esigua minoranza che si è trovata nelle condizioni favorevoli per trovare un ampio ascolto e un adeguato riconoscimento.
Il silenzio e l’immagine
Atiq Rahimi, nato a Kabul nel 1962, ha lasciato il suo Paese nel 1983 con una marcia di nove giorni attraverso le montagne verso il Pakistan, dove ha ottenuto asilo politico nell’ambasciata francese. Dal 1985 vive in Francia, dove si è laureato in Comunicazione audiovisiva alla Sorbona. Ha esordito con il romanzo breve Terra e cenere, tradotto in 20 lingue; esso ha destato l’interesse di molta critica ed è stato seguito da Le mille case del sogno e del terrore. Rahimi ha scritto inoltre due sceneggiature e girato cinque documentari. Terra e cenere racconta una storia che raccoglie un piccolo episodio vissuto dall’autore. Era il 1981, tempo nel quale l’Afghanistan era sotto controllo sovietico. A Kabul non c’era sufficiente energia elettrica per il riscaldamento. Il regime perciò aveva inviato alcuni giovani in una provincia del Nord a riattivare una vecchia miniera di carbone. Lo scrittore, figlio di una famiglia borghese, aveva studiato al liceo francese di Kabul e intendeva diventare giornalista. Si era recato al Nord per scrivere un reportage sulla vita dei giovani in quella miniera. Proprio lì, in prossimità di un ponte, egli vide un vecchio e un bambino. Avrebbe voluto fotografarli, ma si trovò senza pellicola fotografica. Egli rimase con quelle immagini in mente e cominciò a dar vita a quelle visioni, inventando una storia, che poi l’avrebbe accompagnato per molto tempo, fino a che a Parigi, da esule, vent’anni dopo decise di scrivere ciò che aveva immaginato. Le pagine di Rahimi nascono dunque da un’immagine che ha seguito un percorso profondo nella coscienza e nella memoria: se quel vecchio e quel bambino fossero stati fotografati, probabilmente non avremmo questo piccolo capolavoro.
La storia si svolge nei dintorni della città di Polkhomrì. Per avere descrizioni di quelle terre e dei viaggiatori che le hanno attraversate bisognerebbe riaprire il Milione di Marco Polo. Le due narrazioni, quella del Milione e quella di Terra e cenere, sono talmente distanti e in contrasto da ferire il lettore. È da notare subito che lo scrittore, insolitamente, usa nella narrazione la seconda persona singolare: dà del tu al personaggio, affinché il lettore abbia l’impressione che sia lo stesso protagonista a darsi del tu. Rahimi intende rendere evidente in tal modo una sorta di condanna del personaggio a parlare soltanto con se stesso. L’impatto sulla coscienza di chi legge è molto forte.
Il vecchio Dastghír e il nipotino Yassín attendono vicino a un ponte sorvegliato da un guardiano che osserva da un rudere disabitato. Poco distante troviamo un negoziante che ha ben poco da vendere, ma molto da insegnare per la sua saggezza. Egli si muove con lentezza e sa dire parole capaci di toccare e rivelare il senso delle cose. Che cosa fanno lì Dastghír e Yassín? Attendono un camion che li porti alla miniera. Alle spalle una tragedia: il loro villaggio è stato distrutto dalle bombe sovietiche e nelle esplosioni sono morti tutti: la moglie di Dastghír, un suo figlio e la madre di Yassín, cioè la moglie di suo figlio Moràd, scampato alla strage perché al lavoro in miniera. Il doloroso viaggio che Dastghír è costretto a fare ha come scopo quello di rendere partecipe Moràd dell’orrore. La notizia pesa sul cuore come un macigno ed esplode in tanti pezzi che generano incubi, visioni, lacrime. Quello di Terra e cenere è il diario di un dolore che dev’essere raccontato prima ancora di essere stato assimilato, elaborato, forse vissuto veramente. Non c’è neanche la possibilità di chiedersi il perché, il senso dell’accaduto. Il vecchio vorrebbe risparmiare la notizia al figlio, teme per la sua disperazione e per una reazione che potrebbe travolgerlo senza speranza.
Lo scenario in cui è ambientato il dramma appare secco, asciutto, polveroso, accecante e rovente. La prima immagine che si forma nel lettore è quella di Yassín che, «con le mani piccole e sporche, prende la mela e la porta alla bocca. Il vuoto lasciato dai suoi incisivi da latte non è stato ancora riempito. Cerca di morderla con i canini. Le guance magre e scavate si mettono in movimento. Gli occhi piccoli e stretti si stringono sempre di più. La mela è aspra. Yassín arriccia il naso e tira su». Dev’essere questa l’immagine iniziale, quella rimasta impressa nella mente dello scrittore: l’immagine di un bambino che non riesce a mordere una mela e stringe bocca, occhi e naso nello sforzo, che resta inutile. L’immagine è potente e rivelativa.
Il vecchio copre il frutto per evitare che si impolveri e Yassín protesta perché così non può mangiarlo. Ma il bambino non può udire le giustificazioni del nonno perché le bombe gli hanno rubato i suoni. Il mondo di Yassín – il bambino è come figura del popolo afghano – è un mondo senza rumore, ed egli era rimasto turbato da questo mutamento che sentiva essere avvenuto non in lui ma attorno a lui. Le bombe avevano portato via i suoni. Le cose non fanno più rumore. Gli altri hanno perso il suono: «Il suono ha abbandonato l’uomo, il suono ha abbandonato il sasso. Il suono ha abbandonato il mondo. Allora perché gli uomini aprono e chiudono la bocca inutilmente?». I carri armati hanno tolto la voce a tutti gli uomini e poi se ne sono andati.
L’attesa del camion diventa il lasso di tempo per elaborare l’incontro del vecchio col figlio. «Capisci baba — afferma il negoziante — il dolore o si trasforma in lacrime e scende giù dagli occhi o diviene spada e ti arriva sulla lingua. Oppure talvolta si trasforma in una bomba all’interno del tuo cuore, una bomba che un bel giorno ti fa esplodere».
Il viaggio verso un incontro
Arriva un camion. Il vecchio decide di partire da solo, affidando per qualche ora il nipote a un negoziante. Lo sguardo sul camion si perde nelle curve sinuose della valle. Alla domanda di Shahmàrd, il camionista, su dove egli sia diretto, Dastghír risponde: «Vado a piantare una lama nel cuore di mio figlio!». Sul camion le immagini della tragedia passata e della prefigurazione dell’incontro imminente col giovane si fondono nella polvere. Dalla polvere nera vede Zeynàb, la moglie di Moràd, correre nuda di fronte al camion, così come l’aveva vista dopo l’esplosione della bomba prima della sua sparizione nel fuoco, «i capelli bagnati e sciolti spazzano la polvere. Sembra voglia dividere la polvere dall’aria». Zeynàb non è più nuda perché il suo corpo viene coperto da un velo di polvere nera. L’urlo silente di Dastghír resta imprigionato nell’abitacolo e rimbomba senza rumore nella cabina di guida. Che cosa penserà, che cosa dirà Moràd? Egli è una «montagna di coraggio», una «terra di fierezza»: vorrà vendicarsi, impazzirà, sarà disposto a perdere la vita ma non l’orgoglio.
Dastghír raggiunge la miniera, sente già nell’aria il profumo del figlio: «Per la prima volta ti accorgi di quanto siano piccoli i tuoi polmoni, e di quanto sia grande il tuo cuore, grande quanto il tuo dolore…». Bussa alla porta e il cigolio secco della porta gli scava una voragine nel cuore. Chiede del figlio. Il caporeparto si irrigidisce come una pietra. Scende il silenzio. Moràd non c’è perché è al suo turno di lavoro. Ma sa tutto. Sa di aver perso i familiari, anzi sa di aver perso anche il padre e il figlio. Ma allora — si chiede il padre — perché non è tornato al paese? Ha forse dimenticato tutto? Il caporeparto afferma di essere stato lui a non volere, ad averglielo impedito. Ma Dastghír resta sordo a queste parole: «Io vado. Dite a Moràd che è passato suo padre, che è vivo, che anche suo figlio Yassín è vivo. Con il vostro permesso, tolgo il disturbo…». Lascia però a un compagno di Moràd la sua scatola di naswar, una mistura narcotizzante che era stata un regalo del figlio. Sa che quella scatola è un segno di riconoscimento sicuro. Dastghír prosegue e lascia scorrere le sue lacrime dentro il cuore. Ha voglia di naswar, ma ormai la scatoletta non è più nelle sue mani. Così si china, prende un po’ di terra grigia, la mette sotto la lingua e riprende il cammino.
Come si chiude questa storia? Con la disperazione e il gusto salato della terra in bocca? No, con la speranza che Moràd, vedendo la scatoletta di naswar del padre, torni al villaggio, riesca a infrangere il velo dei chilometri e compia la speranza flebile, ma tenace, di risurrezione. Il romanzo sembra chiudersi nell’attesa e nella speranza.
Un labirinto di sogno e terrore
«– Papà?». Siamo alla prima pagina del secondo breve romanzo di Rahimi, Le mille case del sogno e del terrore. Il resto della pagina è bianco. «– Maledetto sia tuo padre!». Siamo alla pagina successiva. Il resto è bianco. Soltanto alla terza pagina l’inchiostro riempie la pagina. Ma il lettore è già spiazzato. Chi sta parlando? Chi ha risposto così violentemente? Le voci si susseguono nel buio in un gioco di specchi che provoca un ansioso spaesamento: «Chi sei? La mia domanda si sbriciola nel petto. Un dolore mi trafigge le tempie». Rahimi non descrive un incubo: lo fa vivere al lettore con efficacia rappresentativa. Non sappiamo chi sia il protagonista, ma lo inquadriamo come sacrificato all’assurdità. Non sappiamo dove egli sia. Non sappiamo se sia sveglio o stia sognando. A spiazzare basterebbe l’epigrafe, una citazione dei Maqalat di Shams di Tabriz: «Se non vuoi che i tuoi sogni diventino realtà, non dormire!».
L’espressione «mille case» contenuta nel titolo è il modo in cui la lingua dari comunica il concetto di «labirinto». Il lettore, leggendo il romanzo, entra in un labirinto. E lo fa con facilità, grazie agli ampi spazi vuoti che Rahimi apre tra le sue pagine. Il lettore viene come risucchiato nel racconto, e le pagine bianche diventano le pareti di un incubo. Anche il protagonista, il giovane Farhàd, sembra rimanere prigioniero dei suoi incubi. Pian piano le figure assumono una definizione. Le voci diventano immagini. Gli occhi si schiudono a fatica. La luce filtra. I ricordi diluiscono l’assurdo: «Mi hanno colpito nel ventre con il calcio del kalashnikov. Ho visto tutto nero. Attraverso la gola mi è risalito in bocca un fiotto di bile. Da lì è finito sulle spalle dell’ufficiale […]. Mi hanno insultato: — Maledetto sia tuo padre!». Farhàd è sorpreso di notte, dopo aver bevuto troppo, da una pattuglia di polizia durante il coprifuoco. Gli chiedono la parola d’ordine. Non se la ricorda. Viene picchiato e atterrato dalla spinta della canna del kalashnikov con «tutta la pressione e l’oscurità della notte». «Qualcosa mi bolle dentro come acqua o mercurio. Raggiunge la gola ed esce di nuovo nel fango». Una donna, Mahnàz, lo soccorre e lo conduce a casa propria, nella quale vive col fratello, ridotto a larva umana dalle torture del regime filosovietico, e col figlio. La donna è sola perché suo marito è stato eliminato. A gridare «Papà?» era il figlio di quella donna, ancora in attesa del padre, che per inconsapevole disperazione proietta su quel giovane l’immagine del genitore.
Adesso Farhàd ricorda. Era col suo amico Enayàt e aveva bevuto perché quello era il loro saluto: Enayàt sarebbe fuggito il giorno dopo. Al ritorno a casa la ronda notturna lo avvista: «Corro. Attraverso la notte correndo. Leggero come una foglia. La traiettoria è indicata dagli alberi bruciacchiati e pieni di frutta rossa rinsecchita. La strada non ha fine. Corro». La corsa si arresta. Giunto nella casa di Mahnàz le sensazioni si susseguono come i netti frammenti di un puzzle, come diapositive istantanee: «Sento dei lamenti. Apro gli occhi. Non vedo niente e nessuno. Passo una mano per terra. Non ci sono più né fango né polvere. Sento la superficie ruvida di un tappeto. I lamenti aumentano».
Farhàd vorrebbe tornare a casa dalla madre, che immagina in ansia per lui. È come se la vedesse: «Le sue mani stanche si alzano nella notte in cerca di Dio e recitano la preghiera della salvezza. Devo andare». Tuttavia egli non va: viene trattenuto sì dall’esigenza di rimanere nascosto, ma anche da un legame inspiegabile e dolce che sembra tenerlo tra quelle mura con Mahnàz, suo fratello e il bambino che lo chiama papà e gli chiede inconsapevolmente di non distruggere il suo sogno di figlio. La casa di Mahnàz è «mille case», un mistero insolubile che si manifesta tra pareti, finestre e tappeti: è uno specchio che riflette l’immagine dell’Afghanistan, da cui bisogna fuggire, pur sapendo sempre più chiaramente che così si fugge da ciò che si ama. È questo filo, che lega simbolicamente la casa di Mahnàz alla patria, a dare un gusto insieme intimo e politico al romanzo.
Farhàd dovrà fuggire in Pakistan, dopo aver salutato velocemente la madre. Parte avvolto in un tappeto, la dote che suo nonno aveva lasciato alla figlia, sulle spalle di un contrabbandiere. È come se le figure del tappeto si incollassero alla sua pelle: «La dote di mia madre è un grave peso sull’anima». Farhàd elabora la propria storia come quella di Giuseppe esule in Egitto, ascoltata in una moschea: «Giuseppe è in carcere. Giacobbe è diventato cieco dal dolore. E la madre di Giuseppe dov’è? Il suo dolore sarà più forte del dolore di Giacobbe!». Il romanzo si chiude come un cerchio, in una notte simile a quella nella quale era iniziato. Ma prima una decisione: «Io devo ritornare. Dov’è la stella polare? Mi alzo. I piedi si muovono. Devo correre. Sull’acqua. Sulla terra».
Ogni frase di Rahimi, in Terra e cenere, come in Le mille case del sogno e del terrore, è secca, precisa, incisiva, capace di generare visione. Lo scrittore, intervistato da The Independent, ha affermato di aver utilizzato insieme il registro orale e quello scritto della sua lingua madre, tenendo in sottofondo la poesia persiana del XIII secolo[7]. D’altra parte le letture di Rahimi sono ampie. Egli cita soprattutto Victor Hugo, ma anche John Steinbeck e Virginia Woolf. Il ritmo di questa prosa ricca di molti echi è lentissimo, come se il rallentamento della visione avesse la capacità di restituire l’esattezza dell’immagine e del movimento; come se ne svelasse il senso e il sentimento profondo. Richiede una lettura lenta e meditativa. Le emozioni sono interiorizzate, non esplicitate in tante parole, e grazie a questo «non detto» le immagini che si sprigionano dal testo prendono colore e spessore. Forse il limite di questa prosa poetica è quello di dire troppo in poco spazio, l’estrema concentrazione che fissa le storie in icone narrative.
Le pagine di Rahimi sono frutto della fusione dei due poli di una dialettica radicale: la tensione verso il dato concreto, le cose e la loro dura realtà, da una parte, e la trasfigurazione poetica, dall’altra. Riferendosi alla condizione dello spirito del suo popolo, Rahimi ha affermato nell’intervista citata: «Abbiamo bisogno di scuole e ospedali per la mente e il corpo, ma per recuperare la nostra anima c’è bisogno di più poesia».
Ci perdiamo quando fuggiamo via?
I tratti stilistici della scrittura di Rahimi sono molto vicini a quelli che caratterizzano le pagine di Mohammad Asaf Soltanzade, nato a Kabul nel 1964. Egli, come Rahimi, ha studiato al liceo francese Esteqlal. Ha lasciato il suo Paese nel 1985 per il Pakistan prima e l’Iran dopo. Qui viene scoperto da Hushang Golshiri, una delle figure maggiori della letteratura persiana contemporanea e, grazie a lui, nel 2000 pubblica a Teheran la sua prima raccolta di racconti, poi tradotta in francese e in italiano nel 2002 col titolo di Perduti nella fuga. Nella sua vita ha fatto di tutto: diplomato in farmacologia a Kabul, ha lavorato come muratore, operaio, panettiere e sarto. Nel suo esilio iraniano ha scritto anche quattro opere teatrali, che sono state rappresentate soltanto in teatri di provincia. Si è anche dedicato alla scrittura di sceneggiature per il cinema. La sua, insomma, è una passione a tutto campo per la scrittura. Attualmente vive in Danimarca.
Perduti nella fuga raccoglie otto racconti accomunati da un clima di fuga e spaesamento surreale, che è il frutto del caos provocato dall’invasione sovietica. Il volume si apre col racconto di ispirazione autobiografica che dà il titolo alla raccolta. Racconta di un profugo afghano a Teheran che intuisce di stare per ricevere una brutta notizia, forse quella della morte del padre o del fratello, rimasti a Kabul. Ma egli rifiuta categoricamente di ricevere altre notizie luttuose dai suoi parenti rimasti in patria, dopo aver appreso quella della morte della madre. Allora si perde in una fuga dai tratti surreali, che lo allontanerà perfino da se stesso: «Il mio pensiero vagava altrove, e ne ero lieto: così almeno rimuovevo anche me stesso dai miei pensieri e m’allontanavo da ciò che stavo vivendo». In «Il 2 di quadri» la vita umana del protagonista viene fatta dipendere dall’esito di una partita a carte. La partita è persa, ma il protagonista continua a giocare fuggendo dal proprio destino. In «Generi di lusso» l’esito è la morte: un padre ridotto in miseria non trova chi possa comprargli al mercato il suo più grande bene, i figli, e così decide di fuggire in modo radicale, avvelenando tutta la famiglia in una «festa regale» a base di carne fritta con le cipolle. Dalla morte fugge con l’immaginazione il giovane mujahed crivellato di colpi, protagonista de «Il mare… il mare». Nell’ultimo atto della sua vita, egli immagina di trasformarsi in pesce: «Mi dimeno e sento il calore del sangue delle ferite. Vado sott’acqua, il fresco mi lava gli occhi: che bello sarebbe poter respirare sott’acqua. Respiro, l’acqua mi entra nei polmoni, come fanno i pesci. Che bello se potessi trasformarmi in un pesce […]. Esco e abbandono il corpo polveroso e malandato che avevo assunto per vivere sulla terra: adesso la metamorfosi è completa […]. So che, man mano che avanzo, l’acqua si versa nella corrente più grande, poi nel fiume, fino ad arrivare al mare, quel luogo che mi sta aspettando con impazienza. Il mare puro e lucente mi vuole con sé». La fuga surreale acquista toni ludici e magici in «Baba il prestigiatore»: un vecchio giocoliere di Kabul, non potendo fronteggiare i carri armati sovietici con le armi, li fa scomparire con la fantasia di un gioco di prestigio. In «Ci siamo tutti persi» una donna si prostituisce per sopravvivere e si inventa un universo parallelo per fuggire meglio dalla realtà.
Non è improprio parlare, a proposito di Perduti nella fuga, di «realismo magico»: nessuno tra i protagonisti di questo libro può scappare all’inevitabilità di un destino cieco. Il plotone di esecuzione del fato sembra pronto a sparare il suo colpo di grazia. Ma quando il proiettile è già uscito dalla canna, accade qualcosa di surreale che fa sgusciare via la vittima, che così oppone una resistenza invincibile mediante il sogno, la follia, il gioco di prestigio, l’immaginazione. Ma verso dove? Si badi bene: qui non c’è nulla della «magia» della vita. Perduti nella fuga non è un allegro inno alla fantasia. Tutt’altro. Qui il ricorso all’immaginazione è sì un soffio insperato di vita, ma è anche l’espressione massima e tragicamente ironica della disperazione: non c’è altra via di fuga che quella. Per questo non si tratta qui di «fuggire in direzione di» qualcosa, ma di un vero e proprio «perdersi nella fuga», un andare alla deriva[8]. Una domanda antica serpeggia tra questi sentieri di spaesamento: i sentimenti e le illusioni possono aiutare almeno ad attraversare l’esistenza come se niente fosse, in uno stato di ingenuità permanente? Proprio la letteratura, cioè il luogo in cui è possibile che l’immaginazione dia un corpo alla realtà, permette a Soltanzade di rispondere affermativamente a questa domanda: la letteratura è la sua forma di resistenza al caos della barbarie.
Nel 2001 è stato attribuito all’autore il Golshiri Award per la migliore raccolta di racconti di esordio, con la motivazione che essi dimostrano la capacità di «rendere temi impressionanti e macabri attraverso un linguaggio apparentemente semplice e disadorno, denso di parole ed espressioni tipiche della terra nativa dell’autore». In effetti la scrittura di Soltanzade, così come traspare dalla traduzione, è refertuale, asciutta, paratattica. Eppure il lettore attraverso questa scrittura si trova trasportato inconsapevolmente in un mondo surreale all’interno di un viaggio senza soluzione di continuità. Il lettore che appena volesse opporre una minima resistenza a questo flusso tra reale e surreale più volte avvertirebbe sorgere in se stesso la domanda: «Ma dove siamo? Che cosa sta accadendo?». Sta proprio qui la forza ipnotica della scrittura di Soltanzade, che, per penetrare il dolore, tralascia ogni genere di pathos accorato e sceglie la consolazione di affermare che esiste un altro modo di vivere.
Il segno dell’aquilone
Khaled Hosseini, attualmente medico internista in California, è nato a Kabul nel 1965. Suo padre, un diplomatico, fu inviato prima a Teheran, nel 1970, e poi, sei anni dopo, a Parigi; nel 1980, dopo l’invasione delle truppe sovietiche, decise di non rientrare in Afghanistan e di chiedere asilo politico agli Stati Uniti. Khaled ha seguito sempre il padre e dunque si è trovato in Occidente sin dal 1976, cioè da giovanissimo.
The Kite Runner («Il pilota di aquiloni») è stato scritto, a differenza delle opere presentate fino a questo momento, direttamente in una lingua occidentale, l’inglese, e pubblicato negli Stati Uniti. L’opera racconta un’amicizia, le cui vicende sono strettamente intrecciate a tremendi affreschi della vita in Afghanistan sia sotto il Governo filosovietico sia sotto quello talebano. Amir è un ragazzo sensibile e isolato, figlio di una famiglia benestante di Kabul. Egli soffre della perdita della madre e cerca in tutti i modi di attrarre l’attenzione del padre Baba. Amir ha un solo amico, Hassan, figlio di un domestico di famiglia. I due ragazzi diventano inseparabili e spesso si trovano sotto un albero di melograno: Hassan ha un atteggiamento protettivo nei confronti del timido amico e gioca con lui; Amir gli legge i racconti eroici della tradizione popolare. Tuttavia il loro è un rapporto complesso fatto di amicizia sincera, ma anche di prove di lealtà, di timori, di invidia, di gelosia da parte di Amir nei confronti del padre, che tratta Hassan con grande affetto, e si concluderà con un’ombra lunga: durante una gara di aquiloni, Hassan viene attaccato da un gruppo di ragazzi di famiglie benestanti. Amir non lo difende. La vergogna per la sua codardia lo porterà ad allontanare definitivamente e crudamente Hassan dalla sua vita, arrivando ad accusarlo ingiustamente e a farlo cacciar via di casa. La sua inettitudine e il suo astio segneranno definitivamente la vita di Amir.
Intanto gli eventi politici costringono la famiglia di Amir a fuggire negli Stati Uniti, dopo aver perso tutto ciò che essa possedeva in patria: «Baba amava l’idea di America». Amir, crescendo, realizza il suo sogno di divenire scrittore, consolidando la posizione economica fino a recuperare il benessere delle origini e si sposa. Tuttavia l’antica ferita non si era rimarginata. Amir apprende che Hassan e sua moglie sono stati uccisi dai talebani. Resta il dubbio sulla sorte di suo figlio Sohrab. Amir vuol porre tardivamente rimedio alla ferita del passato, che ancora lo turba. A rischio della vita, torna nel suo Paese, dove scopre che Sohrab è stato fatto servo di un potente ufficiale talebano. Il romanzo si conclude con l’immagine di Amir e Sohrab che fanno volare un aquilone: «Io correvo. Un uomo adulto correva con uno sciame di bambini urlanti. Ma non me ne importava. Io correvo col vento che mi soffiava sul viso, ed un sorriso ampio come la Valle del Panjsher sulle labbra. Io correvo». Il senso ultimo del romanzo è tutto qui, in questa corsa liberante. Alla domanda se sia possibile una forma di redenzione, la risposta è dunque simbolicamente affermativa. Del resto There is a way to be good again, «c’è un modo per essere nuovamente buoni», scrive Hosseini sin dalla prima pagina del romanzo. Non siamo di fronte a una storia eminentemente centrata sul conflitto politico o sulle differenze sociali, ma a un romanzo di formazione in cui il nodo critico è costituito dal bisogno di superare una ferita.
È vero, come ha affermato la scrittrice Isabel Allende, promotrice del libro, che il tessuto di The Kite Runner è costituito da tutti i grandi temi della letteratura e della vita e cioè da amore, onore, colpa, paura, redenzione. Questa è la forza del volume. La sua debolezza consiste nel fatto che questo romanzo è americano almeno tanto quanto è afgano[9]. Non è un caso che Hosseini non scriva, al contrario di Rahimi e di Soltanzade, nella sua lingua materna. Ricordiamo che Hosseini ha lasciato l’Afghanistan a 11 anni e ha scritto il suo romanzo da medico californiano a 38. In un breve articolo apparso sul San Francisco Chronicle Magazine egli ha raccontato l’emozione del suo primo ritorno a Kabul su un aereo di linea, avvenuto dopo la stesura del romanzo[10]. Proprio in questa bella pagina di diario Hosseini esprime tutto il proprio spaesamento nel sentirsi turista in patria, ma nello stesso tempo nel vedere luoghi che egli aveva già visto «con gli occhi della mia mente, con gli occhi di Amir»: immagini del suo passato di bambino che ritornano alla mente da lontano. Hosseini ha incarnato in Amir questo sguardo lontano e adesso è lui a seguire il suo personaggio. Creando Amir, dunque, l’Hosseini americano tenta di mettere a fuoco l’immagine confusa di se stesso da ragazzino afghano. Ecco perché egli, raccontando le vicende del suo protagonista, almeno fino all’esilio negli Stati Uniti, utilizza sostanzialmente un modello abbastanza comune di romanzo di formazione: forse non possiede ancora le parole e le frasi per comunicare compiutamente la propria esperienza. È infatti proprio nella seconda parte, quella più legata all’esperienza americana dell’autore, che la trama cresce in tensione e originalità, anche se l’happy end appare anch’esso troppo «necessario». Ma probabilmente questo romanzo è stato scritto proprio in funzione della redenzione e della riconciliazione finale.
Conclusione
Atiq Rahimi, Mohammad Asaf Soltanzade e Khaled Hosseini sono scrittori dell’esilio afghano. I primi due hanno scritto in lingua dari, esprimendo un immaginario che affonda le sue radici nella terra di origine. Benché attraverso traduzioni, non è difficile per il lettore italiano gustare un ritmo sintattico, una cadenza di immagini, un gusto espressivo molto diversi da quelli delle letterature occidentali, anche se non è da dimenticare che la formazione di base di questi scrittori è avvenuta in una scuola francese. Anche se Rahimi e Soltanzade sono emigrati, riteniamo che i loro libri non possano essere intesi come parte di una «letteratura di emigrazione» propriamente detta. Essi, infatti, non recano traccia di una piena ed esplicita coscienza dell’emigrazione né di una definizione etnica nell’incontro della loro cultura di origine con quella del Paese ospite. I loro romanzi restano decisamente «afghani» nella lingua, cioè il dari, nelle immagini, nella forma espressiva, nell’integralità dell’ispirazione insomma. C’è soltanto da ricordare ciò che si è detto all’inizio: l’Afghanistan è un crogiolo di lingue, etnie e culture e quindi, parlando di «identità afghana», si intende qui far riferimento a un concetto complesso, a volte contraddittorio e comunque non univoco.
Rahimi e Soltanzade scelgono la forma del racconto o del romanzo breve per rendere nella pagina l’universo frammentario e caotico che si portano dentro. Il punto di frattura, l’inizio del caos, è per loro rappresentato dall’occupazione sovietica, così che alla presa del potere dei talebani essi erano già in Occidente. In tal senso è forse da intendere l’assenza di opinioni religiose legate alla storia del loro Paese. Molto accentuata è invece nella loro scrittura la dimensione iconica, che è in grado di trasportare il lettore su un livello di realtà che tocca il labirinto dell’immaginazione, del sogno e del terrore. Hosseini, a differenza di Rahimi e Soltanzade, col suo romanzo esprime il desiderio di riappropriarsi di un immaginario ormai lontano e a cui vuole avvicinarsi attraverso un lento lavoro di mediazione. Nel protagonista Amir, Hosseini trasferisce i ricordi e lo sguardo della sua infanzia e, grazie ad essi, tenta di recuperare un’identità e una radice. In questa operazione esprime il frutto della sua personale ricerca in una struttura narrativa familiare al lettore occidentale. Scritto direttamente in inglese, The Kite Runner è dunque forse, con tutte le sue indecisioni, il primo romanzo di una possibile letteratura dell’immigrazione afghana[11].
***
[1] Cfr A. Seierstad, Il libraio di Kabul, Milano, Sonzogno, 2003 (la scrittrice è stata accusata di aver dipinto una pessima immagine dell’Afghanistan proprio da Sultan Khan, il libraio di Kabul alla cui vicenda reale ella si è ispirata) e A. Cairo, Storie da Kabul, Torino, Einaudi, 2003. Ricordiamo anche il bel romanzo Les hirondelles de Kaboul (Paris, Julliard, 2002), scritto dell’algerino Yasmina Khadra (pseudonimo di Mohamed Moulessehou).
[2] Di recente sono state pubblicate varie trascrizioni di testimonianze orali della vita di donne afghane all’epoca del Governo talebano. Nell’articolo non le consideriamo per il loro carattere eminentemente documentario. Qualche esempio: Latifa, Visage volé. Avoir vingt ans à Kaboul, Paris, Carrière, 2001; B. Swift Yasgur – Sulima – Hala, Behind the Burqa. Our Life in Afghanistan and How We Escaped to Freedom, Hoboken (N.J.), John Wiley & Sons, 2002; Zoya – J. Follain – R. Cristofari, Zoya, la mia storia, Milano, Sperling & Kupfer, 2002.
[3] Cfr A. BAUSANI, Le letterature del Pakistan e dell’Afghanistan, Milano, Sansoni, 1968. Cfr anche il progetto di digitalizzazione dei testi letterari afghani The Afghanistan Digital Library.
[4] Khaled Hosseini ha pubblicato The Kite Runner (New York, Riverhead Books, 2003). Di Mohammad Asaf Soltanzade è stato tradotto in italiano Perduto nella fuga (Repubblica di San Marino, AIEP, 2002). Soltanzade è anche autore dei testi di un libro fotografico di Gaël Turine, Avoir 20 ans à Kaboul (Paris, Editions Alternatives, s.d.), che fornisce un ritratto della gioventù di Kabul al tempo della caduta del Governo talebano. Di Atiq Rahimi sono stati tradotti in italiano Terra e cenere, Torino, Einaudi, 2002 e Le mille case del sogno e del terrore, ivi, 2003.
[5] È da ricordare tra questi nomi, anche se di età maggiore, Spôjmaï Zariâb, della quale sono stati pubblicati in francese Ces murs qui nous écoutent (Paris, L’Inventaire, 2000) e La plaine de Caïn (ivi, L’Aube, 2001). Nata a Kabul nel 1949, emigrò successivamente in Francia.
[6] Precisiamo subito che sarebbe arduo esprimere un giudizio su testi scritti in una lingua per noi lontana quale il dari se non fossimo confortati dal fatto che i loro autori, essendo bilingui, hanno potuto verificare la versione delle loro opere in una delle lingue occidentali in cui sono stati tradotti.
[7] Cfr G. Feehily, «Atiq Rahimi: “We became trapped in this self-image, until all we knew was war”», in The Independent, 7 december 2002.
[8] È interessante notare che in un’intervista per il sito iraniano Netiran.com il titolo della raccolta è posto non in forma di affermazione, come lo è nella traduzione francese e italiana, ma in forma di domanda: Ci perdiamo quando fuggiamo via?
[9] Un sito internet afghano ha addirittura espresso pesanti accuse nei confronti di Hosseini per il modo in cui gli afghani sono rappresentati nel suo romanzo; «la più infima forma di esseri umani», si legge nel sito. Esso lamenta, ponendo un paragone tra Hosseini e Rushdie, che lo scrittore abbia tratto le sue immagini non da una vita realmente vissuta in Afghanistan, ma dall’immaginario occidentale sul suo Paese. Cfr http://www.afghanland.com
[10] Cfr K. Hosseini, «Following Amir. A trip to Afghanistan in which life imitates art», in San Francisco Chronicle Magazine, 10 august 2003.
[11] Nel chiudere questa rassegna è necessario ricordare che gli autori presentati sono soltanto i più noti di un folto numero che vive in Afghanistan o che si trova in esilio nei Paesi limitrofi. Internet, in particolare, è diventato un luogo privilegiato di diffusione di poesia e di narrativa. Negli ampi spazi virtuali della Rete si trovano una grande quantità di siti che hanno la missione di far conoscere opere letterarie afghane, antiche e contemporanee, scritte in dari, in pashto o in una lingua occidentale. È stata fondata da un gruppo di scrittori indipendenti anche una vera e propria editrice persiana di libri elettronici. Cfr http://www.rahapen.org