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Sabato 7 ottobre 2023: nelle prime ore di quella mattina circa un migliaio di militanti palestinesi di Hamas e di altre milizie armate hanno sfondato le barriere tra la Striscia di Gaza e Israele, riversandosi nel territorio israeliano. I combattenti di Hamas hanno seminato il terrore e provocato il caos, uccidendo 1.400 persone, ferendone altre migliaia e rapendo 220 israeliani fra soldati e civili. La pianificazione, l’attuazione e la ferocia dell’attacco hanno colto Israele di sorpresa, non solo perché l’intelligence israeliana (come anche quelle occidentali, tecnologicamente molto avanzate) non aveva individuato il complotto in anticipo, ma anche perché l’esercito, secondo alcuni analisti, ha impiegato molto tempo per contrastare la minaccia. Gli israeliani sono rimasti sconvolti e inorriditi, mentre alcuni palestinesi di Gaza e della Cisgiordania (che non militano con Hamas) purtroppo hanno gioito per il brutale evento, interpretandolo come un segnale di riscatto; altri, al contrario, hanno condannato la ferocia dell’attacco indiscriminato.
Il giorno successivo all’attacco, domenica 8 ottobre, quando ancora la diplomazia internazionale sembrava paralizzata dall’accaduto, papa Francesco si è rivolto al mondo con queste parole nell’Angelus: «Seguo con apprensione e dolore quanto sta avvenendo in Israele, dove la violenza è esplosa ancora più ferocemente, provocando centinaia di morti e feriti. Esprimo la mia vicinanza alle famiglie delle vittime, prego per loro e per tutti coloro che stanno vivendo ore di terrore e di angoscia. Gli attacchi e le armi si fermino, per favore, e si comprenda che il terrorismo e la guerra non portano a nessuna soluzione, ma solo alla morte e alla sofferenza di tanti innocenti. La guerra è una sconfitta: ogni guerra è una sconfitta! Preghiamo perché ci sia pace in Israele e in Palestina!».
Israele, da parte sua, ha risposto all’aggressione di Hamas con un intenso bombardamento su Gaza, che è continuato ininterrottamente, provocando la morte di migliaia di persone[1], soprattutto tra i civili, e distruggendo circa il 9% degli edifici sia pubblici sia privati. Il che ha determinato una marea di profughi, che si è andata riversando nel Sud della Striscia, provocando una situazione umanitaria grave e inaccettabile da molti punti di vista. Le autorità militari israeliane hanno richiamato la cosiddetta «riserva» e hanno ammassato le truppe (circa 300.000 soldati) al confine con la Striscia.
A tre settimane dal massacro del 7 ottobre, la temuta «offensiva di terra», che avrebbe dovuto distruggere e annientare Hamas nel suo territorio (con il rischio di uccidere migliaia di civili innocenti), non aveva ancora avuto inizio. In realtà ci sono buone ragioni per procrastinare l’attacco. In queste settimane, la diplomazia occidentale, in particolare gli Stati Uniti, ha fatto pressione per frenare l’ardore delle frange israeliane più convinte della necessità di entrare a Gaza, «distruggere Hamas» e vendicare i morti. Le ragioni di cui si parlava sono molte; qui ne riportiamo sinteticamente alcune: 1) Si intende rimandare l’«attacco di terra» al fine di continuare i colloqui per liberare gli ostaggi tenuti da Hamas[2]; 2) Altro importante motivo è il timore, da non sottovalutare, di una guerra regionale «per procura» fomentata dall’Iran; ciò in particolare nel Nord del Paese, dove Hezbollah (la bellicosa milizia sciita al soldo di Teheran), nemico storico di Israele,è in stato di allerta e dall’inizio dell’operazione lancia i suoi micidiali razzi in territorio israeliano. Israele a sua volta risponde colpo su colpo, senza però alzare la tensione o minacciare, come in passato, l’occupazione del Sud del Libano. In ogni caso, pare che circa 30 miliziani del «partito di Dio» siano rimasti uccisi negli scontri di confine. La situazione, almeno per il momento, sembra sotto controllo, ma può sfuggire, come ritengono molti analisti[3], da un momento all’altro. Il primo ministro Netanyahu, da parte sua, il 25 ottobre ha confermato che è ancora prevista un’offensiva di terra, ma che bisogna attendere il momento più opportuno per l’attacco. Nel frattempo si continua a bombardare Gaza e a uccidere, con attacchi mirati – almeno come l’esercito israeliano dichiara –, i capi di Hamas.
La logica della violenza e la guerra delle immagini
In questo conflitto le due parti in causa, israeliani e Hamas, non solo si combattono con le armi e con la minaccia, ma tentano anche di mobilitare l’opinione pubblica in patria e all’estero per giustificare le loro azioni. Il conflitto militare è parallelo a quello per il controllo delle immagini, dei suoni e delle parole trasmessi dal campo di battaglia.
Da una parte, i media sono inondati da immagini terrificanti di militanti di Hamas armati e mascherati che si riversano in Israele e provocano morte e distruzione. Queste immagini immortalano i massacri di uomini, donne e bambini israeliani, falciati nella zona di confine con la Striscia di Gaza, compresi centinaia di giovani uccisi durante un festival musicale e decine di persone massacrate, tra cui vari neonati in culla. D’altra parte, accanto a queste immagini, il bombardamento della Striscia di Gaza da parte di Israele in risposta all’aggressione subita, condotto con il suo sofisticato arsenale di armi di precisione, ha proposto un canone di immagini ugualmente terrificante. Il 13 ottobre l’esercito israeliano ha ordinato agli abitanti di Gaza di evacuare l’intera parte settentrionale della Striscia, e le immagini del flusso di persone che trasportavano pochi averi preziosi si sono aggiunte alla collezione delle scene strazianti delle morti di innocenti per il pesante bombardamento.
Da entrambe le parti la selezione delle immagini viene finalizzata all’incessante richiesta di solidarietà, di sostegno al diritto all’autodifesa e di legittimazione dei mezzi usati contro l’avversario. In questa battaglia per l’opinione pubblica, molti stanno dalla parte di Israele e molti altri dalla parte di Hamas, e altri più in generale dalla parte dei palestinesi. All’indomani dell’attacco iniziale di Hamas, il presidente americano Joe Biden ha dichiarato che il sostegno del suo Paese a Israele era «solido e incrollabile». I leader dei principali Paesi dell’Europa occidentale ne hanno seguito l’esempio. Compiendo un passo che ha suscitato polemiche, l’Unione europea voleva congelare tutti gli aiuti alle autorità della Palestina, decisione che è stata immediatamente annullata. Successivamente il Presidente degli Stati Uniti, il 22 ottobre, dopo aver parlato al telefono per circa 20 minuti con papa Francesco[4], ha ribadito la posizione statunitense su questo conflitto: «Israele – ha detto Biden – ha il diritto di difendersi. Allo stesso tempo, io e il premier Natanyahu abbiamo discusso su come si debba operare secondo le leggi di guerra. Ciò significa proteggere i civili nel miglior modo possibile». E ha proseguito: «Non possiamo ignorare i palestinesi innocenti che vogliono solo vivere in pace. Ecco perché ho ottenuto un accordo per la prima spedizione di assistenza umanitaria per i civili a Gaza […] che diventeranno un flusso continuo»[5]. Di fatto, nei giorni successivi, previo accordo con il governo egiziano (che insiste a tenere chiuso l’ingresso per i profughi di Gaza), attraverso il valico Rafah sono transitati decine di camion carichi di generi di prima necessità. Secondo gli operatori umanitari presenti nel territorio, questi carichi di cibo e medicinali sarebbero in ogni caso insufficienti a rispondere ai bisogni della popolazione civile ormai priva di tutto. Da parte di Israele e degli occidentali, rimane il timore che tali beni passino nelle mani di Hamas, che li utilizzerebbe poi per tenere sotto ricatto i civili. Il presidente Biden ha poi sottolineato con forza che, sotto il profilo politico, per risolvere la questione palestinese, «non possiamo rinunciare alla soluzione dei due Stati»[6].
Questo principio era stato esplicitamente espresso da Biden al premier israeliano in occasione della sua visita a Gerusalemme del 18 ottobre, nella quale egli aveva rinnovato la sua alleanza con Israele e promesso aiuti militari necessari per far fronte alla grave situazione. In quell’occasione, Giordania, Egitto e l’Autorità palestinese hanno cancellato il previsto incontro con il Presidente statunitense (che sarebbe dovuto avvenire subito dopo ad Amman) in segno di protesta per il bombardamento di un ospedale di Gaza. Questo incidente, in cui sono morti alcune centinaia di civili, è imputato da Hamas e da molti Paesi arabi all’esercito israeliano, mentre il governo di Tel Aviv rigetta ogni responsabilità, ritenendo, pare a ragione, che l’incidente sia stato provocato da razzi lanciati dagli estremisti della Jihad Islamica attivi a Gaza: razzi che per errore sono caduti nel territorio di Gaza[7]. Purtroppo, le narrazioni a tale riguardo divergono e, sotto il profilo della propaganda, a poco serve accertare la verità dei fatti.
Non va dimenticato che l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite conferisce agli Stati il diritto di autodifesa contro gli attacchi armati, a condizione che, secondo il diritto internazionale consuetudinario, la forza militare utilizzata sia necessaria e proporzionale e sia fatto salvo il cosiddetto «diritto umanitario». Va ricordato, inoltre, che proporzionalità non significa simmetria per il tipo di armi utilizzate o per il numero di vittime causate. Insomma, lo Stato che si difende da un’aggressione ingiusta può usare tutta la forza necessaria, ma non di più. Tracciare tale linea è un compito arduo e spesso discrezionale, che suscita molta polemica. Secondo alcuni interpreti occidentali, la risposta israeliana agli attacchi subiti da Hamas ha finora soddisfatto, almeno in parte, questi criteri, considerando il fatto che Israele, secondo la legge internazionale, potrebbe «invadere e occupare temporaneamente la Striscia di Gaza per distruggere il gruppo armato che ha assalito e ucciso un numero consistente di israeliani»[8]. L’obiettivo dichiarato di Israele, anche se di difficile realizzazione, almeno in tempi brevi, è di distruggere le capacità operative di Hamas impedendogli per sempre di amministrare Gaza. Ciò, però, significa liberare faticosamente un labirinto di tunnel lungo 500 km e combattere casa per casa per neutralizzare il nemico, il quale può nascondersi ovunque e sparare da edifici civili, dove spesso sono presenti persone innocenti. Si ricordi che, nel 2016-17, l’Iraq, con l’aiuto di una nutrita coalizione, ha impiegato nove mesi per eliminare l’Isis da Mosul, una città di circa due milioni di abitanti[9].
A sostegno di Israele ci sono state manifestazioni di massa che gridavano la condanna di Hamas, e talora vi sono risuonate espressioni gonfie di razzismo, sentimento antiarabo e islamofobia. La sofferenza dei palestinesi di Gaza, altrettanto reale e intollerabile, viene sbandierata nei Paesi arabi e musulmani e in molti altri, dove porta ancora una volta all’estremo la sensazione che il mondo sia ingiusto e che le condanne siano sempre sbilanciate in favore dei più potenti.
Bloccare gli «Accordi di Abramo»
Sabato 7 ottobre, mentre Israele lanciava la sua campagna militare denominata «Operazione Spade di ferro», Netanyahu ha proclamato: «Ci prenderemo una potente vendetta». Per coloro che sostengono Israele, è chiaro che la narrazione inizia in quel nero sabato mattina. Il presidente israeliano Isaac Herzog, nel suo incontro con la stampa del 12 ottobre, l’ha sintetizzata così: «Un attacco immotivato e insensato, che si è tradotto nella peggiore tragedia mai inferta nella storia di Israele, e con il più alto numero di ebrei uccisi dall’Olocausto, compresi dei sopravvissuti all’Olocausto»[10].
I militanti armati di Hamas che hanno attraversato il confine hanno colto Israele di sorpresa. Infatti, nelle settimane e nei mesi precedenti l’attacco, gli occhi degli israeliani erano puntati su un sogno che sembrava sul punto di realizzarsi: Israele stava per firmare un accordo di normalizzazione con l’Arabia Saudita, fortemente sostenuto dall’amministrazione americana. Si trattava di un sostanziale passo avanti nel processo di normalizzazione dei rapporti con diversi Paesi arabi del Golfo Arabico e del Nord Africa, improntato ai cosiddetti «Accordi di Abramo», che, promettendo una nuova era di prosperità e cooperazione economica, avevano tuttavia estromesso dalla ribalta la questione palestinese. Ma all’improvviso, dai margini, un’ondata di violenza ha rotto la calma e gli israeliani si sono trovati ad affrontare una minaccia esistenziale di nuove proporzioni.
Israele si è sempre vantato della propria abilità militare e di intelligence. Dal 1948 a questa parte, ha mantenuto la supremazia in entrambi i campi non solo rispetto ai palestinesi apolidi, ma anche nei confronti dei Paesi arabi circostanti, al punto che le sue tecnologie difensive erano parte integrante delle nuove alleanze che si stavano consolidando, e che vedevano lo Stato di Israele schierato al fianco di altri alleati degli Stati Uniti nello scontro sempre più bellicoso con l’Iran. La minaccia dei palestinesi sembrava appartenere al passato. Per gli israeliani, essa si era ridotta a scaramucce di poco conto, soprattutto in Cisgiordania, dove scontri tra israeliani e palestinesi avevano provocato la morte di alcuni soldati e coloni israeliani e di molti più palestinesi, militanti e civili rimasti coinvolti nel fuoco incrociato. Ciò che è accaduto il 7 ottobre, tuttavia, non solo ha sollevato pressanti interrogativi sull’effettiva invincibilità della rete militare e di intelligence israeliana, ma ha fatto aleggiare anche la spaventosa domanda se lo Stato di Israele sia per davvero quel rifugio sicuro che sembrava per gli ebrei in fuga dalla violenza, in un mondo in cui un tempo essi erano una minoranza emarginata e spesso perseguitata.
Mohammed Deif, comandante supremo dell’ala militare di Hamas, ha dichiarato: «Adesso basta!», annunciando questa fase del conflitto in corso con il nome di «Alluvione Al-Aqsa». Hamas ha dichiarato che l’incursione in Israele è stata l’esplicita risposta all’occupazione e alla repressione che vanno avanti da decenni. Più precisamente, ha rimarcato l’aumento degli attacchi israeliani e delle politiche repressive dirette contro i palestinesi in tutti i territori occupati da Israele da quando la coalizione di destra guidata da Netanyahu è salita al potere, nonché l’intensificarsi delle irruzioni degli estremisti ebrei nell’area dell’Haram al-Sharif (quello che gli ebrei spesso chiamano il «Monte del Tempio»).
I partigiani di Hamas lo giustificano come una reazione al regime che li ha tenuti rinchiusi in una striscia di terra sovraffollata, zeppa di campi profughi strapieni, sottoposta a un assedio mortale. A Gaza i rifugiati costituiscono circa il 70% della popolazione: persone cacciate dai territori del nuovo Stato di Israele nel 1948, e da allora costrette a vivere in condizioni terribili, esposte per giunta ai periodici momenti di scontro con Israele da quando Hamas è salita al potere, nel 2006; tali scontri hanno lasciato il territorio martoriato e ferito. Inoltre, dal 2006, l’assedio della Striscia priva i suoi residenti delle condizioni minime di vita, prosperità e sviluppo. Il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, la cui diocesi comprende Gaza, pochi giorni prima dell’escalation bellica, aveva affermato che la Striscia di Gaza è «una prigione a cielo aperto»[11].
La domanda sconvolgente, per l’apparato israeliano che sorveglia quella prigione dall’esterno, è: come sono riusciti a uscirne i militanti di Hamas? Questa domanda incombe sulle istituzioni israeliane sia militari sia civili e di certo verrà affrontata non appena concluso questo ciclo di ostilità.
La battaglia è anche mediatica
Nella battaglia mediatica, i sostenitori di Israele ritraggono Hamas come un covo di nazisti, equivalenti all’Isis, asserviti all’impero malvagio dell’Iran islamico. La diffusione delle immagini di palestinesi che gioiscono davanti agli orrori inflitti alle teste decapitate degli israeliani rafforza il senso di raccapriccio e di disprezzo[12].
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | INTELLIGENZE ARTIFICIALI E PERSONA UMANA
La nostra epoca sarà ricordata come quella della nascita delle intelligenze artificiali. Ma cosa sono le intelligenze artificiali? Qual è l’impatto sociale di queste nuove tecnologie e quali sono i rischi? A queste domande è dedicata una serie in 4 episodi di Ipertèsti, il podcast de «La Civiltà Cattolica».
Nel mondo arabo e musulmano e in molti Paesi che hanno conosciuto il colonialismo, il razzismo e l’esclusione, i palestinesi sono riusciti ad associare la loro causa alla lotta di liberazione mondiale contro il colonialismo, l’imperialismo e la supremazia bianca. Gli israeliani vengono presentati come suprematisti coloniali dediti da decenni alla pulizia etnica dei palestinesi nella loro stessa patria. Hamas ha tenuto a spiegare che non prende di mira i civili, aggiungendo, però, la precisazione agghiacciante che gli anziani, i neonati, i bambini e i giovani fanno tutti parte del progetto coloniale sionista volto a privare i palestinesi dei loro diritti e a bandirli dalla scena della storia.
Entrambe le parti in conflitto sostengono che la violenza porterà alla vittoria. Questo è forse il mito più velenoso di ogni conflitto. Alimentata da quella che sembra un’insaziabile sete di vendetta, la convinzione che la vittoria si possa ottenere sconfiggendo il nemico in una guerra spietata è al centro della retorica della guerra.
Questa non è la prima volta che Israele viene colto di sorpresa. Nel 1973, un attacco congiunto egiziano e siriano contro Israele nel giorno dello Yom Kippur («Giorno dell’espiazione») colse gli israeliani alla sprovvista. Impiegarono diversi giorni per respingere gli attacchi. Quella guerra viene celebrata come una vittoria dall’Egitto e dalla Siria, anche se alla fine ha prevalso l’esercito israeliano. È interessante ricordare che nel giro di cinque anni Israele ed Egitto firmarono accordi di pace promossi dagli Stati Uniti. L’ultima incursione palestinese in Israele ha avuto luogo a quasi 50 anni esatti dallo scoppio della guerra del 1973. Ma ci sono differenze sostanziali: mentre quello con gli egiziani era un conflitto tra due vicini che condividevano un confine, sicché la controversia territoriale si poté risolvere tramite i negoziati, il conflitto con Hamas è molto più complesso, perché tale milizia non rappresenta lo Stato di Palestina, del quale Israele deve riconoscere l’esistenza entro chiari confini. Quelli proposti nel 1947 dal Piano di partizione delle Nazioni Unite, e poi dal diritto internazionale dopo l’accordo di armistizio del 1949, e ancora dai negoziati imposti dagli Stati Uniti negli anni Novanta, hanno lasciato i palestinesi senza uno Stato in concreto, anche se molti Paese già lo riconoscono. Inoltre, governi israeliani sempre più estremisti si sono rifiutati di riconoscere che i palestinesi hanno diritto a uno Stato sovrano con confini definiti. Forse l’intensità del conflitto attuale e le terribili perdite da entrambe le parti potrebbero portarci oltre l’orizzonte di una guerra senza fine e al crescente riconoscimento che la vittoria è illusoria e che la continua violenza in definitiva è un suicidio?
Ultimi sviluppi
Mentre scriviamo queste pagine – 20 giorni dopo il massacro perpetrato da Hamas –, la sera del 27 ottobre l’Idf (Forza di difesa israeliana) entra nella Striscia di Gaza con mezzi corazzati e soldati. L’esercito israeliano, che nei giorni precedenti aveva intensificato la propria potenza di fuoco, ha attaccato da diverse direzioni, puntando sul Nord della Striscia ed entrando in tre centri abitati minori che cingono e proteggono la metropoli di Gaza city, cuore del potere di Hamas «con i suoi quartieri densi e il sottosuolo attraversato da un reticolo profondo di tunnel»[13]. I carri armati e i soldati durante la notte hanno attraversato la cosiddetta «terra di nessuno» e già si sono aperti dei varchi per entrare nei centri abitati.
Il portavoce dell’Idf Daniel Hagari annuncia l’operazione come una semplice espansione delle attività di terra, come a dire: questa non è la temuta operazione di terra, che avrebbe come obiettivo principale la capitale[14]. Secondo alcuni interpreti, tale manovra servirebbe per riportare l’iniziativa nelle mani di Israele, mettere pressione su Hamas e favorire le trattative per il rilascio dei prigionieri israeliani. Secondo altri, avrebbe come scopo quello di far valere il suo diritto di difesa e dimostrare a tutti, anche all’interno del Paese, che il governo è intenzionato in ogni caso a procedere contro il nemico. La soluzione più semplice e credibile è che la cosiddetta «operazione di terra» in realtà procede per fasi, e potrebbe essere già iniziata qualche giorno prima, con sortite notturne operate con soldati e carri armati, che però alla fine lasciavano il territorio di Gaza. Questa volta però sembra che i soldati israeliani siano entrati per restare nella Striscia e iniziare operazioni belliche più impegnative. Nei giorni precedenti, come si è detto, Biden aveva chiesto al premier Netanyahu di rimandare l’invasione (pur precisando che la decisione ultima rimaneva nelle mani del governo israeliano) e l’Iran aveva minacciato ritorsioni in caso di invasione[15]. In realtà, dal punto di vista meramente formale la situazione è ancora ambigua; di fatto, però, l’esercito israeliano è già entrato nel territorio di Gaza e probabilmente in futuro la sua presenza risulterà ancora più massiccia. Intanto il portavoce di Netanyahu in tono minaccioso ha annunciato: «Stasera comincia la svolta, Hamas sentirà la nostra rabbia. E Gaza sarà diversa»[16].
Mentre iniziavano i preparativi per l’attacco, l’Assemblea delle Nazioni Unite adottava a stragrande maggioranza una risoluzione che chiedeva un cessate il fuoco immediato a Gaza, con il sostegno di 120 Paesi, 14 (tra cui gli Stati Uniti) contrari e 45 astenuti.
La parola della Chiesa
In questo contesto, il discorso della Chiesa è particolarmente importante. Libera dai vincoli degli interessi politici, essa può essere profetica nel ricordare a tutti che ogni essere umano va rispettato nella sua dignità. Il cardinale Parolin ha cercato di seguire una linea che esprime compassione per chi soffre, difende il diritto all’autodifesa e insiste sulla proporzionalità della risposta militare: «È necessario recuperare il senso della ragione, abbandonare la logica cieca dell’odio e rifiutare la violenza come soluzione. È diritto di chi è attaccato difendersi, ma anche la legittima difesa deve rispettare il parametro della proporzionalità»[17]. Il cardinale ha affermato che per costruire una pace davvero giusta bisogna arrivare alla soluzione dei due Stati, così come previsto dalle decisioni delle Nazioni Unite: soluzione «che permetterebbe ai palestinesi ed agli israeliani di vivere fianco a fianco in pace e in sicurezza»[18].
Al termine dell’udienza generale del 18 ottobre, papa Francesco ha dichiarato che «la guerra non risolve alcun problema, semina solo morte e distruzione, aumenta l’odio e moltiplica la vendetta. La guerra cancella il futuro». Il Pontefice ha poi esortato i credenti «a prendere in questo conflitto una sola parte: quella della pace; ma non a parole, con la preghiera e con la dedizione totale». Ricordiamo, inoltre, che il portavoce della Santa Sede, Matteo Bruni, ha dichiarato che nella telefonata del 26 ottobre con il presidente turco Erdoğan, il Papa ha espresso il suo dolore per le recenti vicende di Gaza e ha auspicato «che si possa arrivare alla soluzione dei due stati e di uno statuto speciale per Gerusalemme». Posizione, questa, da sempre difesa dalla Santa Sede in ordine alla risoluzione della questione palestinese[19].
Infine, Israele, al quale il diritto internazionale e la maggior parte dei Paesi occidentali riconoscono il diritto di difendersi in modo proporzionale e tenendo presente il diritto umanitario, deve dimostrare che la sua lotta è contro i terroristi, contro Hamas, che intende distruggere lo Stato israeliano, e non contro il popolo di Gaza. Dovrebbe garantire un nuovo inizio dopo la guerra, sostenendo un serio programma di ricostruzione e promettendo di non «strangolare» l’economia della Striscia di Gaza, anzi proponendo progetti di cooperazione. Inoltre, sul versante politico, dovrebbe sostenere una nuova Costituzione palestinese e appoggiare i nuovi leader eletti dal popolo. Ciò, secondo alcuni interpreti, sarebbe più facile con un nuovo governo israeliano eletto dopo la fine della guerra.
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[1]. Le vittime palestinesi sarebbero più di 6.500, tra cui almeno 2.700 bambini (dati aggiornati al 25 ottobre). Il ministero della Salute palestinese ha annunciato che più di 100 palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania dal 7 ottobre. Cfr D. Dassa Kaye, «Se il conflitto si allarga», in Internazionale, 27 ottobre 2023, 24.
[2]. Secondo l’ultimo conteggio, questi sarebbero almeno 220, includendo decine di bambini, anziani e cittadini di almeno una dozzina di Paesi stranieri. Gli ostaggi sono diventati una importante fonte di pressione per il governo di Netanyahu. Le famiglie dei prigionieri stanno conducendo un’efficace campagna di «pubbliche relazioni» e i leader stranieri spingono il governo di Netanyahu a cercare di liberare i propri cittadini. Dal canto suo, Hamas li utilizza come una insostituibile «merce di scambio»; di recente ha proposto di liberarli in cambio di un cessate il fuoco. Il governo israeliano su questo punto, almeno per ora, non intende cedere o trattare con il nemico. Hamas, forse con intento propagandistico, rivolto al mondo arabo, ha rilasciato alcuni ostaggi: due cittadine americane e due donne anziane. Cfr «Why Israel’s invasion of Gaza has been delayed», in The Economist, 26 ottobre 2023.
[3]. Cfr D. Dassa Kaye, «Se il conflitto si allarga», cit.
[4]. La conversazione ha avuto come argomento principale le situazioni di conflitto nel mondo e «il bisogno di individuare percorsi di pace»: cfr P. Mastrolilli, «La strategia di Biden: azzerare Hamas senza guerra regionale», in la Repubblica, 23 ottobre 2023.
[5]. Ivi.
[6]. Ivi.
[7]. «Can America handle two wars and maybe a third?», in The Economist, 24 ottobre 2023.
[8]. «Is Israel acting within law of war?», in The Economist, 14 ottobre 2023.
[9]. Cfr L. Cremonesi, «Guerriglia urbana e trappole. La lezione dell’Iraq per Israele», in Corriere della Sera, 25 ottobre 2023.
[10]. «Herzog: We are targeting an enemy, part of an empire of evil», in I24 News (www.i24news.tv/en/news/israel-at-war/1697102264-herzog-we-are-targeting-an-enemy-part-of-an-empire-of-evil), 12 ottobre 2023.
[11]. Cfr. E. A. Allen, «New Jerusalem cardinal calls Gaza under Israeli control an “open prison”», in Crux (https://cruxnow.com/2023-consistory-and-synod-for-synodality/2023/09/new-jersualem-cardinal-calls-gaza-under-israeli-control-an-open-prison), 30 settembre 2023.
[12]. Il noto giornalista israeliano Alon Goldstein ha scritto: «È terribile, ma è anche molto semplice: in ogni generazione, c’è chi punta ad annientarci perché siamo ebrei. Anche ora ci troviamo di fronte a creature miserabili, nazisti reincarnati, Amalek». Questa logica, secondo lo scrittore, giustifica il contrattacco: «Israele deve lanciare una guerra di proporzioni storiche contro i suoi nemici, a qualunque costo» (A. Goldstein, «Hamas una reincarnazione dei nazisti, dovrà rimpiangere il giorno in cui ha violato i confini dello Stato ebraico», in Israele.net, 17 ottobre 2023 [www.israele.net/hamas-una-reincarnazione-dei-nazisti-dovra-rimpiangere-il-giorno-in-cui-ha-violato-i-confini-dello-stato-ebraico-piegata-e-distrutta]).
[13]. D. Raineri, «La battaglia di Gaza, Israele all’attacco con raid aerei e incursioni», in la Repubblica, 28 ottobre 2023.
[14]. Ivi.
[15]. Cfr A. Simoni, «E adesso Biden teme l’escalation: meglio raid mirati che l’offensiva di terra», in La Stampa,28 ottobre 2023. Secondo gli americani, quella adottata non sarebbe la strategia giusta contro Hamas; si teme infatti un possibile allargamento del conflitto, operato dall’Iran attraverso i suoi gregari, ad altri Paesi limitrofi.
[16]. D. Raineri, «La battaglia di Gaza, Israele all’attacco con raid aerei e incursioni», cit.
[17]. A. Tornielli – R. Cetera, «Parolin: l’attacco a Israele è stato disumano, la legittima difesa non colpisca i civili», in Vatican News (www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2023-10/parolin-intrevista-violenze-israele-palestina-gaza-attacco.html), 13 ottobre 2023.
[18]. Ivi.
[19]. Cfr I. Scaramuzzi, «Le direttive del Papa: empatia per le vittime e dialogo», in la Repubblica, 27 ottobre 2023.