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ABSTRACT – Nell’intricato rapporto tra israeliani e palestinesi per ciò che concerne la Terra Santa, e in particolare per lo status della città di Gerusalemme, non va dimenticato un terzo attore, la Giordania. Dal 1948, anno di nascita dello Stato di Israele, ad oggi, circa 2.200.000 palestinesi si sono riversati in Giordania. Molti di essi oggi si sono in qualche modo «naturalizzati», ma ci sono ancora coloro che vivono da profughi e che vorrebbero ritornare nelle loro case. Va ricordato anche che il luogo santo per antonomasia, al’Haram ash-Sharif («il recinto sacro»), che gli ebrei chiamano Har ha-Bait («il monte della casa [di Dio]»), è sotto il controllo formale dell’ente islamico-giordano Al Waqf, la fondazione pia musulmana che si occupa dei luoghi sacri dell’islam. Tuttavia il grande piazzale delle moschee e la Città Vecchia di Gerusalemme sono legati ad antichissime tradizioni delle tre grandi religioni abramitiche monoteiste: l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam.
Nell’attuale fase critica del processo di pace va rilevato l’atteggiamento discreto e prudente, ma senza ambiguità, che il re di Giordania, Abdallah II, sta cercando di mantenere, anche dopo la dichiarazione di Trump sullo spostamento dell’ambasciata statunitense. Lo documenta il suo intervento al World Economic Forum di Davos alla fine di gennaio, in cui sono parse riecheggiare anche le parole di papa Francesco ai membri del Corpo diplomatico presso la Santa Sede: internazionalizzazione dei luoghi santi e Gerusalemme capitale d’Israele e della Palestina.
La minaccia che incombe anche sulla Giordania è notevole. Se avverrà la prevista inaugurazione dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, in concomitanza con il 70° anniversario della nascita dello Stato di Israele, e se Trump accetterà l’invito di Netanyahu a presiedere alla cerimonia, è prevedibile che ad Amman, e in tutto il mondo islamico, le tensioni riesploderanno.
La posizione della Giordania, come pure le Risoluzioni delle Nazioni Unite e la posizione della Santa Sede si scontrano con le aspettative fondamentaliste che circolano anche in Israele e negli Stati Uniti, su un piano religioso più che politico, basate sulla convinzione di una ormai imminente «seconda discesa del Messia» e dell’arrivo dell’Apocalisse finale. In questo quadro, il principale ostacolo a qualsiasi accordo nel segno della coesistenza e della reciproca accettazione non sarebbe affatto Israele; ma piuttosto l’integralismo di ogni fede e colore, sostenuto da entusiasti e fanatici della mentalità autolesionista di chi si percepisce assediato da ogni parte e può difendersi solo con la forza e la violenza. È la mentalità del «Muro di ferro» (Iron Wall), teorizzato da Ze’ev Jabotinsky.
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JORDAN AND JERUSALEM
In the intricate relationship between Israelis and Palestinians regarding the Holy Land, and in particular for the status of the city of Jerusalem, a third actor, Jordan, should not be forgotten. Since 1948, the year of the birth of the State of Israel, about 2,200,000 Palestinians have fled to Jordan. King Abdallah II, even after Trump’s statement announcing the move of the US embassy to Jerusalem, has tried to calm tensions and to offer ways out. His effort is documented in his speech at the World Economic Forum in Davos at the end of January, which echoed the words of Pope Francis: internationalization of the holy places and Jerusalem as the capital of Israel and Palestine.