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La centralità della famiglia
Che cosa succede quando si viene a sapere che si sta per morire? E non in sei mesi o in tre settimane, ma nel giro di poche ore, o addirittura di qualche minuto? Come si fa fronte a una situazione simile? Lo scorso novembre, Marielle, una giovane donna di Lens, era al concerto nella Bataclan Concert Hall di Parigi, quando i terroristi hanno invaso l’edificio. Per tre ore si è nascosta in una piccola doccia, piena di ansia, temendo che sarebbe stata uccisa. Il primo messaggio che ha mandato era diretto ai suoi genitori: Je vais mourir, je vous aime («Sto per morire. Vi amo»). Miracolosamente, all’una del mattino, è stata salvata dalle forze di sicurezza che hanno fatto irruzione nell’edificio.
Accade spesso che le persone, quando affrontano la morte imminente, facciano qualcosa di semplice, ma meravigliosamente profondo: telefonano o scrivono ai loro familiari per dire quanto li amano. Sarebbe comprensibile che si lasciassero completamente sopraffare dal loro destino. Invece, e ne abbiamo tanti esempi, essi pensano a persone significative nella loro vita e danno voce al loro amore e al loro affetto. Durante gli attacchi terroristici avvenuti a Bruxelles nel marzo scorso, David Dixon, un britannico che lavorava come programmatore informatico a Bruxelles, dopo l’attentato all’aeroporto aveva scritto un messaggio alla sua famiglia per dire che non gli era successo nulla, ma è stato tragicamente ucciso poco dopo, al momento di montare sul treno della metropolitana che è stato colpito dalla successiva esplosione.
Sono tante le persone che nei momenti di pericolo, come Marielle e David, pensano alle loro famiglie e attestano la forza imperitura del vincolo familiare. Essi sanno di amare e di essere amati, e questo dà loro coraggio. Quando nelle nostre famiglie seguiamo la legge dell’amore, siamo in grado di affrontare qualsiasi tipo di prova o di sacrificio.
La famiglia è un’istituzione di capitale importanza per la nostra vita personale e sociale. Con una buona famiglia alle spalle possiamo conquistare il mondo, perché, sebbene la famiglia sia la più piccola istituzione al mondo, è anche la più grande. È molto più piccola di un villaggio, di una città, di una regione o di uno Stato, ma è anche più grande di queste entità, perché viene prima di tutte. Prima che esistessero i villaggi, c’erano le famiglie. Prima che sorgessero i grandi imperi, minuscole famiglie avevano già prosperato per generazioni. Senza la famiglia, di certo, non ci sarebbero mai stati villaggi, paesi, città o nazioni. La famiglia è uno dei più meravigliosi doni di Dio. È l’istituzione che plasma il carattere umano come nessun’altra.
Perciò non sorprende che Papa Francesco abbia dedicato l’Esortazione apostolica Amoris laetitia (AL) al tema della famiglia. «La Bibbia è popolata da famiglie, da generazioni, da storie di amore e di crisi familiari, fin dalla prima pagina, dove entra in scena la famiglia di Adamo ed Eva, con il suo carico di violenza ma anche con la forza della vita che continua (cfr Gen 4), fino all’ultima pagina dove appaiono le nozze della Sposa e dell’Agnello (cfr Ap 21,2.9)» (AL 8).
Nel bene o nel male, nella ricchezza o nella povertà, nella malattia o nella salute, ognuno di noi si porta dentro la propria famiglia, per tutti i giorni della sua vita. La nostra famiglia non è con noi come un mero ricordo, ma ha un’influenza determinante sul nostro modo di agire e di comportarci. I nostri stessi corpi sono modellati dai nostri genitori. Noi parliamo come loro, assomigliamo a loro. Inconsciamente ne imitiamo i gesti e camminiamo con un’andatura simile. Un giorno sono sbottato con un’amica che mi stava esasperando, e lei si è messa a ridere, dicendo: «Sono proprio le parole che usa tuo padre!».
L’influenza dei genitori è impressa nella nostra psiche in modo ancora più profondo. Ereditiamo tanti valori, espliciti e impliciti, dalle nostre famiglie. Gli obiettivi che perseguiamo devono molto alle ambizioni della nostra famiglia, e alla nostra reazione nei confronti delle sue aspirazioni. La famiglia è una ragnatela da cui non possiamo mai districarci, e da cui non abbiamo mai veramente voglia di staccarci.
Ma oggi non c’è accordo sul fatto che la famiglia debba continuare a svolgere un ruolo centrale nella società. Sebbene la struttura familiare continui a esistere, in alcuni casi è davvero difficile riconoscervi ciò che essa era stata nella generazione precedente. Vediamo nuove configurazioni relazionali di coppie dello stesso sesso che accolgono bambini con l’aiuto di madri surrogate o padri donatori di sperma. Nonostante forzino alcuni confini morali importanti, queste «famiglie» alternative sono tanto modellate sulla famiglia tradizionale che, paradossalmente, attestano la nostra nostalgia per il modello familiare tradizionale.
In Occidente c’è tolleranza per le configurazioni relazionali insolite e d’avanguardia, ma la famiglia tradizionale non è più di moda. Persino l’espressione «valori della famiglia» per alcuni simboleggia l’adesione cieca e sconsiderata a una morale gretta e sorpassata. In questo contesto si pone l’interrogativo: è possibile vivere come famiglie cristiane nel mondo di oggi?
Il compito è certamente più difficile e impegnativo di quanto sia stato finora. Prima le società occidentali s’identificavano in una certa misura con i valori cristiani. Poiché molti cristiani vivevano in un ambiente che sosteneva l’unità familiare, il loro impegno poteva sopravvivere senza essere profondamente radicato. Ma, dal momento che il clima culturale che ci circonda è così instabile, le nostre radici devono affondare più in profondità nel terreno della nostra fede, se vogliamo superare la tempesta.
Rispetto e amore
I primi due ingredienti di una famiglia cristiana sono un uomo e una donna che si impegnano a costituire un’unità fondamentale di se stessi, pur senza compromettere le loro due personalità uniche e peculiari. Il libro della Genesi ci dice che l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno una sola carne. Dal libro della Genesi sappiamo anche che quella sorprendente unità non durò a lungo: quando Adamo ed Eva si ribellarono a Dio, anche l’armonia tra loro ne fu incrinata.
Per molte persone, l’idea che due divengano uno per tutta la vita è del tutto irrealistica, una vera e propria chimera. Anche quando Gesù ha parlato di matrimonio che dura per sempre, i suoi discepoli l’hanno considerato una realtà praticamente impossibile da accettare; e ritenevano più opportuno non sposarsi affatto (cfr Mt 19,10). Quando avevo tra i venti e i trent’anni, ero così emotivamente immaturo che se allora, invece di prendere la via del sacerdozio, avessi sposato una donna, lei probabilmente avrebbe presentato presto istanza di divorzio. Per sopportarmi, c’era bisogno dell’amore incondizionato di Dio! I matrimoni falliscono, come del resto anche le vocazioni dei preti. Un marito e una moglie che sono umanamente maturi possono garantirsi un’unione felice, se invitano Dio nella loro vita.
Se marito e moglie non fanno entrare Dio nella loro vita, qualcos’altro o qualcun altro si incaricherà di immaginare la loro vita per loro, si tratti della loro canzone pop preferita o di una rivista di moda. Anche se Dio è nella loro vita, non esiste una formula magica per raggiungere un felice rapporto immediato; c’è, tuttavia, quella meraviglia di una trasformazione profonda e costante di ciascun coniuge, che permette loro di vivere e di agire come sono veramente: immagini di Dio. Noi siamo chiamati ad amarci gli uni gli altri come Dio ci ama, e Dio non sempre riceve da noi molto amore in contraccambio. Essere riamati è un grande dono, ma un marito e una moglie non si amano l’un l’altra solo per guadagnarsi quella ricompensa. Non devono amarsi soltanto quando si sentono amati.
Il loro amore è certamente aiutato dai sentimenti, ma si basa su qualcosa di molto più solido e duraturo: una promessa solenne e l’impegno reciproco che si sono assunti. La Scrittura è piena di orientamenti concreti che le coppie sposate possono mettere in pratica. Il Vangelo di Matteo ci dice che, se stiamo per portare la nostra offerta all’altare e ci ricordiamo che un fratello o una sorella ha qualcosa contro di noi, dobbiamo andare immediatamente a riconciliarci; poi potremo tornare a fare la nostra offerta. La Lettera agli Efesini ci comanda di non lasciar tramontare il sole sulla nostra ira: invece di dare spazio ai risentimenti, dovremmo risolvere le nostre divergenze al più presto. La Scrittura ci invita costantemente a dire la verità dal nostro cuore, con tenerezza e compassione.
All’inizio del quarto capitolo dell’ Amoris laetitia (AL 89-119) Papa Francesco offre un’esegesi bella e profonda di uno dei passi sull’amore più noti di tutta la Bibbia: il celebre «inno alla carità» di san Paolo, in 1 Cor 13,4-7. Per descrivere l’amore paziente, egli si riferisce a chi «non si lascia guidare dagli impulsi e evita di aggredire» (AL 91). «Questa pazienza si rafforza quando riconosco che anche l’altro possiede il diritto a vivere su questa terra insieme a me, così com’è. Non importa se è un fastidio per me, se altera i miei piani, se mi molesta con il suo modo di essere o con le sue idee, se non è in tutto come mi aspettavo. L’amore comporta sempre un senso di profonda compassione, che porta ad accettare l’altro come parte di questo mondo, anche quando agisce in un modo diverso da quello che io avrei desiderato» (AL 92).
Nel commentare il «tutto scusa» dell’amore, il Papa scrive: «Gli sposi che si amano e si appartengono, parlano bene l’uno dell’altro, cercano di mostrare il lato buono del coniuge al di là delle sue debolezze e dei suoi errori. In ogni caso, mantengono il silenzio per non danneggiarne l’immagine. Però non è soltanto un gesto esterno, ma deriva da un atteggiamento interiore. E non è neppure l’ingenuità di chi pretende di non vedere le difficoltà e i punti deboli dell’altro, bensì è l’ampiezza dello sguardo di chi colloca quelle debolezze e quegli sbagli nel loro contesto; ricorda che tali difetti sono solo una parte, non sono la totalità dell’essere dell’altro. Un fatto sgradevole nella relazione non è la totalità di quella relazione. Dunque si può accettare con semplicità che tutti siamo una complessa combinazione di luci e ombre. L’altro non è soltanto quello che a me dà fastidio. È molto più di questo» (AL 113).
Genitori e figli
E che dire del rapporto tra genitori e figli? Nell’ Amoris laetitia Papa Francesco cita la Relazione finale del Sinodo dei Vescovi del 2015: «Va evidenziato sempre che i figli sono un meraviglioso dono di Dio, una gioia per i genitori e per la Chiesa. Attraverso di essi il Signore rinnova il mondo» (AL 222). I genitori possono imparare dai loro figli. I bambini sono i migliori maestri in assoluto, tant’è vero che Gesù non soltanto ci dice di prestare loro attenzione, ma di diventare come loro (Mt 18,3). Qui Gesù non sta canonizzando l’infanzia, ma ci sta dicendo che nell’infanzia spirituale c’è un grande tesoro. C’è qualcosa di meraviglioso nell’adulto che rimane fedele al bambino che era una volta. L’infanzia è il vero cuore di tutto. Fatto singolare, una volta perduta l’infanzia, la si può recuperare soltanto facendosi santi.
Il più importante comandamento che i cristiani devono osservare in relazione alla famiglia è onorare il padre e la madre. «Questo comandamento viene subito dopo quelli che riguardano Dio stesso. Infatti contiene qualcosa di sacro, qualcosa di divino, qualcosa che sta alla radice di ogni altro genere di rispetto fra gli uomini» (AL 189). È fin troppo facile dare i genitori per scontati e dimenticare quanto siamo in debito con loro. Ecco perché Dio ci comanda di onorarli in modo speciale. Essi ci danno il dono della vita, ci lavano e ci vestono, lavorano per portare il pane sulla nostra tavola, si alzano a notte fonda per calmare le nostre paure, sono a nostra disposizione per qualsiasi esigenza che abbiamo, e spesso questo esige da loro grandi sacrifici.
I genitori sono i nostri primi maestri nella vita e nella virtù, e probabilmente i migliori. Sono i primi ambasciatori che Dio mette sul nostro cammino. «Mostrano ai loro figli il volto materno e il volto paterno del Signore» (AL 172). Sono i nostri primi amici, e amici molto migliori di alcuni di coloro ai quali successivamente apriremo i nostri cuori. Quando trascuriamo di onorare i nostri genitori, stiamo mancando di onorare coloro che per importanza sono più vicini a Dio. Quando tradiamo l’amore dei nostri genitori, siamo in procinto di tradire tutti gli amori futuri. Un figlio o una figlia buoni a nulla diventeranno un cattivo marito o una cattiva moglie. Un figlio o una figlia crudeli diventeranno degli adulti malvagi.
In famiglia, tuttavia, il rispetto non va a senso unico: anche i genitori sono obbligati ad amare e a rispettare i loro figli. La natura dà loro un vantaggio temporale, sicché per la maggior parte dei genitori questo amore è istintivo. Essi possono accrescere questo amore istintivo dando il buon esempio, insegnando ai figli ad essere onesti, dignitosi e integri, a osservare le regole e a rispettare i diritti altrui. Possono incoraggiarli con parole gentili, ed elevare parole di lode a Dio insieme a loro.
Per i loro figli i genitori devono nutrire grandi speranze, ma non aspettative irragionevoli. Nella propria madre un ragazzo vede sempre l’immagine della donna che vuole sposare, e una figlia vede nel proprio padre il marito dei suoi sogni. Se madre e padre conducono una vita buona, daranno ai loro figli un aiuto prezioso nel momento di scegliere chi sposare. I genitori che si mostrano poco o per nulla interessati al benessere materiale e spirituale dei loro figli causano in loro un danno profondo. Se effettivamente gran parte del male che vediamo negli individui può essere fatta risalire a cattive amicizie, in fin dei conti è altrettanto vero che essa può essere fatta risalire alla cattiva amicizia di quelli che avrebbero dovuto essere i loro primi e migliori amici.
Nonostante i rischi che questo comporta, Dio ha ripetutamente scelto la famiglia per raggiungere il cuore di tutta l’umanità. Egli ha fatto un patto con Abramo, promettendo un figlio a lui e a sua moglie Sara. Quel patto si è avverato quando Sara, sfidando qualsiasi attesa umana, ha dato alla luce Isacco. Poi Dio ha fatto un patto con una vergine di nome Maria, e lei ha dato alla luce Gesù e un mondo nuovo.
Idealmente la famiglia è uno spazio in cui i figli vengono allevati, trovano sicurezza e imparano la fiducia e l’amore; in cui anche i figli si preoccupano dei genitori, in un contesto reciproco di amore e di responsabilità per tutta la vita. Fondamentalmente la famiglia riguarda il dare e il ricevere la vita.
Tradizionalmente nella cultura occidentale — e ancora oggi in molte altre culture — gli elementi fondamentali che compongono una famiglia sono stati il matrimonio tra un uomo e una donna e un nucleo familiare con bambini. È indubbio che molte relazioni matrimoniali siano state tutt’altro che ideali, e che nel quadro tradizionale ci siano state carenze: alle donne non era garantito un trattamento paritetico; il padre esercitava un potere eccessivo; molti bambini venivano costretti a lavorare fin dalla più giovane età, con il risultato di trascurare l’infanzia. Ma quali che fossero gli svantaggi della struttura familiare tradizionale, essa ha aiutato innumerevoli generazioni. La società era orientata a sostenere la famiglia. La società si attendeva che il matrimonio funzionasse, voleva che le coppie restassero insieme e avessero figli; tollerava la separazione o, in casi estremi, il divorzio come soluzioni disperate.
Domande che ci sfidano
Nelle società occidentali, e in alcune altre, quel modello tradizionale è stato infranto. Non c’è più alcuna aspettativa riguardo alla monogamia, all’impegno per tutta la vita e ai bambini. Quando la situazione diventa difficile, il divorzio è visto da molti come una scelta ragionevole. Quale futuro c’è per la famiglia? Essa recupererà la sua precedente posizione di unità fondamentale della cultura occidentale, o continuerà a trasformarsi in molteplici forme? Il matrimonio offrirà una struttura stabile per intraprendere il viaggio della vita, o soltanto un luogo temporaneo di sosta? Che cosa succede a un tessuto sociale in cui gli individui fanno una promessa duratura di matrimonio soltanto per romperla facilmente, se le cose non vanno come previsto?
I bambini verranno ridotti a pedine nelle aspre lotte tra genitori divorziati? Le loro vite devono spezzarsi in due perché i loro genitori si sono divisi? Che cosa succede alla relazione con il genitore che adotta il ruolo di genitore visitatore, con un accesso regolare o soltanto intermittente ai figli? Come si possono aiutare i figli a fronteggiare il sentimento di essere soli e indesiderati, che può colpirli quando i loro genitori divorziano, e quando la rabbia irrisolta per la condotta dei loro genitori resta loro dentro per molto tempo ancora?
Che cosa succede se un solo genitore vuole divorziare? Quella sua preferenza dovrà determinare ciò che accadrà? E se l’altro genitore, e anche i figli, vogliono salvare il matrimonio? Di chi sono i desideri e i bisogni più importanti? Se uno o entrambi i coniugi cercano di vivere la vita matrimoniale come meglio possono ma non ci riescono, dovrebbero continuare a vivere insieme? Che cosa si può fare per sostenere i genitori single — la stragrande maggioranza dei quali sono madri — mentre cercano di crescere i figli da soli?
Nel caso di donatori di sperma e di madri surrogate, chi è la vera madre o il padre? L’identità degli ovuli o lo sperma del donatore sono davvero irrilevanti? È giusto per i bambini che la madre genetica o il padre restino anonimi? I figli adottati e i bambini in provetta hanno il diritto di conoscere almeno la storia genetica dei loro genitori biologici, in modo da prevenire i futuri problemi di salute? Che cosa comporta per un figlio scoprire che suo padre o sua madre saranno irrintracciabili per sempre? O apprendere che è un bambino progettato, per il quale si è pagato nella convinzione che sarebbe venuto fuori un particolare tipo di bambino? E se non riuscirà a essere la meraviglia genetica su cui contavano i suoi genitori, quali saranno le conseguenze per lui? E per i genitori?
Quali sono gli effetti della penuria di donne che c’è nelle due nazioni più popolate al mondo, Cina e India? Che cosa dire dei bambini non ancora nati, le cui vite sono state troncate troppo presto, prima che potessero diventare una parte visibile delle loro famiglie? Tra loro vi erano gli equivalenti, per il XXI secolo, di Abraham Lincoln, di Helen Keller, del Mahatma Gandhi, di Martin Luther King e di Madre Teresa? Abbiamo perduto figure ispiratrici che avrebbero potuto cambiarci la vita e trasformare in meglio il nostro mondo? Siamo più poveri per il fatto che essi non hanno mai visto la luce?
Il valore della famiglia
La famiglia ha un’influenza decisiva sulla nostra personalità e sul nostro destino. Noi nasciamo sempre all’interno di un contesto umano. Entriamo nel mondo dal corpo di una donna. Essa può essere single, sposata o divorziata. Può darsi che abbia un partner amorevole e solidale, oppure violento e prepotente. L’ambiente familiare può essere povero, confortevole o agiato; i genitori possono essere colti o analfabeti, emotivamente maturi o immaturi. Tutti questi fattori influenzano le nostre prospettive esistenziali. Non cominciamo tutti dallo stesso punto di partenza. Sarebbe bello se fossimo tutti uguali, ma, dato il modo in cui vengono distribuite le carte, «alcuni sono più uguali degli altri».
Il nostro carattere, la nostra personalità si sviluppano nel corso della vita. Il processo inizia in famiglia. È lì che i bambini imparano per la prima volta ad amare e a odiare, a essere gentili o manipolatori, a servire o a spadroneggiare. La famiglia è la scuola fondamentale per la vita. Se in famiglia i bambini imparano soltanto l’ingiustizia, per loro sarà difficilissimo costruirsi da adulti una cultura giusta. Se viene insegnato loro a mentire e a ingannare, più tardi essi avranno enormi difficoltà ad aiutare a costruire una società trasparente.
Nonostante tutte le polemiche sul ruolo della famiglia nella cultura occidentale, c’è qualcosa di profondamente rassicurante nel fatto che molte persone credano ancora nel suo valore. La Dichiarazione universale dei diritti umani, promulgata dalle Nazioni Unite nel 1948, ha proclamato che la famiglia è l’unità fondamentale della società. Non si tratta della constatazione che così stanno le cose, ma è l’affermazione di come le cose dovrebbero essere. Non è una descrizione dello stato della famiglia, ma la formulazione di un ideale per la famiglia. Non è un fatto empirico, ma un valore. Anche quando lo stato della famiglia non corrisponde a questo valore, vogliamo ancora che la famiglia sia all’altezza di tale valore, vogliamo che la famiglia sia il nucleo della società.
Questo valore è profondamente rassicurante, perché attraverso di esso diciamo che non vogliamo che siano l’individuo o l’individualismo a costituire la realtà fondamentale nella società. Alla base di ogni società vogliamo che ci sia un gruppo di persone chiamato «famiglia» e collegato al suo interno da legami profondi e durevoli. Al centro della cultura vogliamo una struttura altruistica, piuttosto che una costante tendenza verso l’interesse individuale: un uomo e una donna che si sono messi insieme volontariamente, disponibili a dare il meglio di sé per tutta la vita e a fare sacrifici per mettere al mondo i bambini e per occuparsene. Finché dura l’istituzione della famiglia, quali che siano le carenze e i fallimenti di concrete famiglie, avremo un’istituzione che è più grande di una persona, una struttura che per sua natura tende a superare gli stretti e autoreferenziali confini dell’egoismo. La famiglia è un segno della speranza che nel nostro mondo la preoccupazione egoistica non ha la prima e l’ultima parola.
La scomparsa dei padri
«Si dice che la nostra società è una “società senza padri”. Nella cultura occidentale, la figura del padre sarebbe simbolicamente assente, distorta, sbiadita. Persino la virilità sembrerebbe messa in discussione. Si è verificata una comprensibile confusione» (AL 176). La scomparsa dei padri è una delle più grandi crisi che la cultura mondiale stia affrontando. Se manca un sano rapporto con i padri, i neonati e i bambini piccoli diventano radicalmente insicuri. Sono i padri che danno il coraggio ai figli: la prontezza ad assumersi rischi, la disponibilità a essere intellettualmente curiosi, la forza per diventare sempre più indipendenti. Se vogliamo un futuro migliore per i nostri figli, dobbiamo investire nei padri.
Le madri e la maternità godono di un’immagine positiva nell’opinione pubblica, ed è giusto. I padri, invece, oltre a essere sotto i riflettori in quanto padri, sono oggetto di nuove domande; soprattutto, ci si aspetta da loro che assumano un ruolo più attivo e coinvolto nella vita dei loro figli. Gli uomini di oggi sono disposti a sporcarsi le mani cambiando pannolini e facendo i lavori di casa, ma parte del loro nuovo ruolo li mette davanti a una inadeguatezza: come fare ad aiutare i loro figli a svilupparsi emozionalmente? Come aiutarli a trovarsi a proprio agio nel mondo maschile? In passato, essere un buon padre non comportava esplicite richieste di questo tipo, sicché i padri di oggi non hanno modelli di riferimento da seguire. Dai padri del passato ci si aspettava che fossero investitori finanziari, ma raramente essi erano tenuti a investimenti emozionali nei loro figli. La necessità di essere più che un mero capofamiglia è scoraggiante. Si tratta di un territorio nuovo e inesplorato. Nel loro passato i padri di oggi trovano scarsa o nessuna esperienza che possa istruirli sull’enorme differenza che può costituire un padre che si occupa dei figli ed è premuroso.
Le donne hanno la possibilità di prepararsi alla maternità attraverso la gravidanza. Mentre sentono il proprio corpo cambiare e crescere nel corso di nove mesi, ricevono un acuto promemoria visibile di ciò che sta per accadere e, una volta che il bambino è nato, sono fisicamente attrezzate per allattarlo. Gli uomini non scorgono davanti a sé un ruolo già così chiaramente pianificato: una volta che la moglie resta incinta, il suo ruolo fisico nella nascita del nuovo bambino sembra concluso. Essere un padre in attesa significa accettare in modo passivo ciò che sta accadendo, guardare da una distanza che contribuisce a tenerlo poco coinvolto e finanche estraneo. Quanti padri in attesa vengono invitati a corsi preparto? Quanti ricevono almeno spiegazioni dal ginecologo della moglie? Quanti ricevono il congedo di paternità? È fin troppo facile, per i padri, sentire il messaggio subliminale che sono soltanto genitori di seconda classe, mentre il centro della scena appartiene alle madri.
Ma niente di tutto questo sta a indicare che i padri dovrebbero essere per i loro figli semplicemente entità calde, dolci e amichevoli. Il padre aiuta meglio i suoi bambini piccoli se consente loro di staccarsi dalla madre, se mostra loro che ci sono altri modi di vivere, coraggiosi e ammirevoli, oltre all’attaccamento alla madre. Senza dubbio dovrebbe aiutare a mettere in atto questa transizione con dolcezza e con grazia. E aiutare anche la madre a lasciar andare i figli, rassicurandola e accompagnandola in quel momento di separazione.
Trovare il giusto equilibrio
Ogni padre si trova davanti a una tentazione a doppio taglio: o interpretare la paternità come un assoluto che lo rende del tutto autoritario, o dissolvere la paternità a tal punto che il suo rapporto con i figli diventa blando e insipido, senza alcun vincolo di autorità. Nella società occidentale il lato più energico della paternità ha una cattiva reputazione, e parole come «paterno» e «patriarcale» hanno una connotazione negativa. Una simile nomea negativa non è senza ragione. Se i figli non hanno mai avuto un rapporto con il padre, o ne hanno avuto uno in cui sono stati eccessivamente puniti (Ef 6,4 avverte: «Padri, non esasperate i vostri figli»), probabilmente svilupperanno una forte avversione per ogni tipo di figura paterna, si tratti di insegnanti o di tutor, di poliziotti o di politici.
L’immagine tradizionale della paternità è stata spesso troppo stretta e restrittiva. Ma la soluzione sta forse in un padre incerto, o distante e periferico? «Il problema dei nostri giorni non sembra essere più tanto la presenza invadente dei padri, quanto piuttosto la loro assenza, la loro latitanza. I padri sono talora così concentrati su sé stessi e sul proprio lavoro e alle volte sulle proprie realizzazioni individuali, da dimenticare anche la famiglia» (AL 176). Tra questi due poli esiste un equilibrio: è il modello della paternità basata sull’autorevolezza anziché sull’autoritarismo, sul servizio piuttosto che sul servilismo, sulla leadership senza boria, sulla disciplina senza repressione.
Il giusto equilibrio è difficile da trovare. Una madre sensibile può aiutare un padre a percorrere la sana via di mezzo tra gli estremi: la sua compassione naturale interverrà a fermare un padre che diventa troppo severo, e d’altra parte lei non esiterà a invocare il padre come una figura autorevole per il figlio.
La cultura pop di cui i giovani sono imbevuti non riflette un quadro equilibrato di paternità, ma spesso soltanto una delle polarità: o severità inflessibile o nessuna autorità. Di fatto, moltissima musica pop ha accusato le figure paterne, a volte giustamente, ma più spesso a torto. Per esempio, il movimento punk degli anni Settanta, rappresentato per eccellenza dai celebri Sex Pistols (il cui bassista Sid Vicious, a causa di un padre assente e di una madre eroinomane, da bambino si era ritrovato a vivere per strada), o la musica grunge dei primi anni Novanta, caratterizzata soprattutto dai Nirvana (il cantante Kurt Cobain, prima di togliersi la vita, ha confessato che l’angoscia della sua musica era derivata in gran parte dal divorzio dei suoi genitori), o il vendutissimo e altrettanto aggressivo rapper bianco Eminem all’inizio degli anni Duemila (allevato da sua madre dopo che il padre li aveva abbandonati, quando Eminem aveva appena due anni). Ma una delle canzoni pop dà un’immagine redentrice della paternità: è l’inno anti-guerra Where is the Love?, cantato nel 2003 dai Black-Eyed Peas, il gruppo hip-hop di Los Angeles. Il ritornello è una preghiera: Father, Father help us with some guidance from above / cause people got me got me wonderin where is the love («Padre, Padre, aiutaci con qualche indicazione dall’alto, / perché la gente mi ha fatto, mi ha fatto dubitare dove sia l’amore»).
Avere un padre significa rendersi conto che non siamo stati noi a dare inizio alla nostra vita. Noi non siamo all’inizio di tutto. Siamo connessi a qualcuno che è venuto prima di noi. In questo senso avere un padre vuol dire essere «religiosi», nel senso etimologico della parola. Il verbo latino religare, infatti, ha la connotazione di «legare, vincolare». Abbiamo un legame, un vincolo; siamo collegati a qualcuno che ci precede, siamo in relazione con qualcuno che è al di là e prima di noi stessi.
Tutti hanno bisogno di un padre. Avere un padre dà un senso più solido di chi siamo, da dove veniamo. Senza un padre, ci si sente deboli e fragili, non si è mai certi. Ci si sente diseredati e rinnegati, defraudati e deprivati.
Ovviamente è importante quale sia il tipo di padre che si ha. I figli non vogliono un padre che neghi loro la libertà e non permetta loro di vivere la propria vita. I figli sbocciano quando hanno un padre che dice: «Figlio… tutto ciò che è mio è tuo» (Lc 15,31). Nessuno desidera un padre che gli sottrae tutto, ma piuttosto uno che, al contrario, incoraggia, dà generosamente. San Giuseppe è un modello di questo disinteresse paterno. Quando gli viene chiesto di punto in bianco di alzarsi nel cuore della notte, non si ferma a pensare alla propria comodità, perché è concentrato su Maria e Gesù: «Un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto”» (Mt 2,13).
Oggi l’autorità dei padri deve provenire soprattutto dalle persone che sono; deve irradiare verso l’esterno dal loro carattere. Particolarmente importante è il rapporto che esiste tra i padri e coloro dei quali si mettono al servizio. Se le persone si fidano di una figura paterna e ne vedono la purezza, l’integrità e la convinzione di uomo che vive ciò che insegna, gli accorderanno autorità. Sono state questa integrità e questa purezza ad affascinare la gente quando ascoltava Gesù: «Egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come i loro scribi» (Mt 7,29). A volte i sacerdoti esitano a rivendicare la loro identità di padri; possono essere riluttanti a riconoscere la propria paternità spirituale. Papa Francesco è un esempio per tutti i sacerdoti, perché è a suo agio con l’essere una figura paterna, e si vede. In L’ amore prima del mondo. Papa Francesco scrive ai bambini, egli risponde così a Clara, undici anni, dell’Irlanda: «A ogni sacerdote piace sentirsi padre! La paternità spirituale è davvero importante. Io la sento moltissimo: non saprei riconoscere me stesso senza questo sentimento di paternità»[1].
Le persone che serviamo ci aiutano a scoprire, ad articolare e a rafforzare la nostra paternità. Ho visto come l’esperienza di diventare padre di un neonato faccia risaltare una nuova dimensione nella natura di un uomo. Egli entra in contatto con una nuova compassione. Sperimenta una riaffermazione di se stesso come protettore, come custode ed educatore. Diventare padre dà anche la possibilità di diventare un uomo migliore. La paternità non è soltanto una grazia per l’uomo stesso, è anche un grande dono per i figli, perché, insieme con la madre, il padre ha il privilegio di insegnare ai suoi figli ciò che significa essere umani, e il privilegio di essere il primo ambasciatore di Dio per loro.
I figli sono più che soddisfatti quando una figura paterna crede in loro. Ma non ogni padre crede nei figli. In ultima analisi, per essere padri degni di questo nome — si tratti di essere padri naturali o adottivi, insegnanti o mentori —, abbiamo bisogno dell’aiuto del Padre ultimo, che ha una visione meravigliosa per ognuno dei suoi figli: «Per questo io piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ha origine ogni discendenza in cielo e sulla terra, perché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, di essere potentemente rafforzati nell’uomo interiore mediante il suo Spirito. Che il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3,14-19).
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[1]. Francesco, L’ amore prima del mondo. Papa Francesco scrive ai bambini, Milano, Rizzoli, 2016, 61.