Nell’intervista concessa da Papa Francesco al Direttore della Civiltà Cattolica si legge: «Io vedo la santità nel popolo di Dio, la sua santità quotidiana. C’è una “classe media della santità” di cui tutti possiamo far parte, quella che di cui parla Malègue». Il Papa in questo passaggio si stava riferendo a Joseph Malègue[1], uno scrittore francese a lui molto caro. Quando fu pubblicato il suo romanzo Augustin ou le Maître est là, il p. Paul Doncoeur, nella rivista Études, scrisse: «Il romanzo di J. Malègue è uno di quei libri che si leggono con difficoltà, ma si rileggono con gioia. Prima di aprire questi due grossi volumi […] esiterete dieci volte; dopo duecento pagine, dubiterete di avere il coraggio di andare oltre. Arrivati alla fine, vi dispiacerà che sia così rapida. Allora riprenderete il primo volume, quasi dimenticato, e troverete più gustose che alla prima lettura quelle pagine dove tutto ora acquista valore»[2].
Quanti ebbero il coraggio di leggere per intero il romanzo si resero conto di trovarsi dinanzi a un’opera eccezionale. «Lei ha scritto un capolavoro», scrisse all’autore p. Domitien Sertillanges, noto filosofo e teologo[3]. Altri giudizi positivi portavano la firma di Charles Du Bos, Jacques Chevalier, Paul Claudel, M. Florisoone («È un grandissimo libro. Non dirò un grandissimo romanzo. È qualcosa di più e di diverso»). In Italia il romanzo ebbe un convinto e intelligente estimatore in Francesco Casnati, che lo fece tradurre e pubblicare nella collana Il Graal della Sei.
Ma né in Francia né in Italia il romanzo di Malègue riscosse grande notorietà: ci sono storie della letteratura che ignorano questo autore o lo citano alla svelta. È da credere che le 900 pagine del romanzo abbiano dissuaso dalla sua lettura. In realtà, esso è un ammasso di idee, ma perfettamente coordinate, anzi è la fusione di tre o quattro romanzi, strutturati in una visione d’insieme.
Persuasi del suo valore letterario, della ricchezza e profondità di contenuto, della competenza con cui è affrontato e sviluppato il problema della fede, vogliamo proporlo all’attenzione dei nostri lettori, nella speranza che un editore coraggioso lo riproponga in una nuova edizione. Limiteremo la nostra analisi al dramma religioso e intellettuale del protagonista, nel cui sfondo si intravedono tutte le altre vicende.
Tra Pascal e Renan
Siamo in una cittadina del Cantal, dipartimento dell’Alvernia, nell’Ottocento, nel tempo in cui cominciavano, in Francia, le persecuzioni contro gli Ordini monastici. L’infanzia e l’adolescenza di Agostino scorrono in un’atmosfera di serenità e di scoperte, soprattutto quando la famiglia si trasferisce sugli altipiani delle Planèzes, descritti da Malègue con magia evocatrice. Agostino è un ragazzo intelligente, affettuoso, aperto alle cose belle. Sua madre è una donna dalla fede viva quasi una seconda natura, dedita alla famiglia e alle opere di pietà. Il padre è un professore di liceo, colto ma incapace di affermarsi. Religiosamente sfugge a una classificazione; partecipa alla preghiera in famiglia, ma con indifferenza, quasi assente, più liberale che cristiano. Segue con interesse gli studi del figlio, ma è estraneo alla sua formazione religiosa. Questa, affidata alla madre e alla parrocchia, si riduce a pratiche di pietà, suggerite dalla tradizione.
Durante la recita del rosario, il ragazzo ha la percezione di «un’alta potenza solitaria […] che avrebbe potuto benissimo essere la vostra anima, tanto era profonda. […] Essa vi consigliava di raccogliervi in voi stessi, come dicono gli adulti, e di affidarvi con fiducia a braccia immense che vi avrebbero sollevato, cullandovi, da terra» (I, p. 36). Dio, una potenza solitaria? Al liceo Agostino s’imbatte in due scogli pericolosi: la dissolutezza morale e l’ambiente dottrinale impregnato di positivismo, modernismo e anticlericalismo. Supera il primo grazie alla forza della sua educazione morale, ma il secondo lo ferisce. Le lezioni di filosofia gli rivelano che la religione è valida soltanto per chi già la possiede, ma è priva di fondamento, poiché la nostra mente capta solo il sensibile e lo sperimentabile. Forse si può ammettere una Realtà superiore, ma non quanto sa di rivelazione, cioè di cristianesimo.
Agostino soffre per il contrasto tra la pietà che gli inculcano la madre e il confessore, e gli orizzonti che gli offre la filosofia positivista. «Si gettò in lei totalmente. L’amava perché sarebbe stata il campo di battaglia del suo pensiero religioso. E l’amava anche di per se stessa, senza altri fini. Aspirava, come un bacio, le idee che giungevano a lui, e si diceva senza esitazione che, fuori di quella atmosfera, non avrebbe potuto più vivere, così come pensano normalmente coloro che vivono all’aria libera. Fu la scomparsa improvvisa di tutto ciò che non era filosofia, il colpo di fulmine, la certezza di una felicità nobile, totale, mistica, razionale» (I, p. 105).
Quando la filosofia, da ricerca dei primi princìpi e delle cause ultime, è promossa a religione, assume esigenze di assolutismo. Agostino se ne rende conto, ma non ha ancora il coraggio di accettarle in pienezza. Prende in giro la sorella, devota allieva delle Orsoline, e scoppia in una risata quando nel manuale di religione legge che tra i grandi filosofi bisogna citare Bossuet e Fénelon, ma non respinge ancora le intuizioni del cuore né certi richiami della Grazia. Continua a pregare, ma con scarsa attenzione; frequenta la chiesa, ma preferisce l’ambiente intellettuale del liceo, dove può alimentare la sua giovanile presunzione con ardite prospettive.
La Grazia non lo abbandona. Durante la convalescenza, dopo giorni di febbre e di tosse, gli capita di leggere la Preghiera per il buon uso della malattia di Pascal. Le frasi «provocavano in lui delle scosse leggere, dei piccoli sussulti di una dolce contrizione, un mezzo rimpianto nel sentirsi poco conforme ai distacchi di cui parlava Pascal, e soprattutto senza desiderio di uniformarvisi» (I, p. 122). Uniformarsi alla volontà di Dio, senza chiedere né salute né vita? Rinunciare a una brillante carriera e alle sue esigenze intellettuali? Impossibile. E Agostino si rifugia nell’idea che l’invito di Pascal si riferisca «alle anime più vicine alla santità». Per lui era soltanto «un dovere di ammirazione, di nostalgia e di umiltà».
Dopo alcuni giorni, riprende Pascal. La lettura del Mistero di Gesù lo sconvolge. «La marea di miseria e di Onnipotenza che trabocca dal giardino degli ulivi ha finito per sommergere anche lui, Agostino, dopo Pascal (dopo infiniti altri), negli stessi flutti che sommergono il Cristo. Gesù gli parla come a Pascal: “Durante la mia agonia, pensavo a te”» (I, p. 124).
Poi «il suo sguardo cade sulla frase: “Signore, vi offro tutto”. È come un pugno in pieno petto […]. Dio si è degnato di pensare a lui nel modo più individuale, nell’istante preciso in cui ne ha bisogno. Come Pascal, Agostino ha avuto l’incontro personale con la grazia divina di cui sono colme le vite dei Santi, e quella stessa dell’autore del Mistero. “Quella goccia del mio sangue l’ho versata per te”. Agostino è trascinato in ondate senza fine. Sballottolato senza volontà tra l’accettazione e la resistenza, lontano ugualmente dall’una e dall’altra, fuscello in balia dei marosi, mormora a se stesso, tenendo la testa fuori dell’acqua: “Signore, mio Dio, non posso!”» (I, p. 126).
Aggredito dal rimorso, dall’angoscia e dalla paura di Dio, singhiozza, si dispera. «Invano la stessa voce cupa e imperiosa, che ha gettato nell’esistenza il Tempo e l’Universo, si abbassa a una inconcepibile confessione: “Ti amo … più di quanto tu abbia amato i tuoi peccati”» (I, p. 127). Uno scudo, formato di piatto senso comune e di prudenza umana, la neutralizza facendo credere ad Agostino di aver scambiato un eccesso di esaltazione, causato dalla malattia, con una chiamata di Dio. Egli avverte però una voce interiore che pronuncia parole che lui non vuole sentire: «Ti sei difeso bene».
Nell’originale, il titolo del romanzo è Augustin ou le Maître est là. È una citazione del Vangelo di Giovanni: «Il Maestro è qui e ti chiama» (Gv 11,28), dice Marta alla sorella. Il rifiuto di ascoltare il Maestro — che non si stancherà di chiamarlo — comporta in Agostino uno strascico devastante. La lettura della Vita di Gesù di Renan indebolisce la sua fede sì da renderlo incapace di pronunciare la formula del Simbolo degli Apostoli: «E [credo] in Gesù Cristo, suo unico Figlio, Nostro Signore, concepito da Spirito Santo, nato da Maria Vergine». Con il crollo della fede, la dolce intimità familiare, la vita religiosa, la voce dei genitori, «tutto è deserto, sterminio, macerie» (I, p. 137).
Agostino riesce a superare la crisi — così crede — quando si rende conto dell’«a priori razionalista, criterio essenziale delle negazioni» di Renan e della sua «orribile verniciatura artistica sull’argilla nuda della storia» (I, p. 138). In realtà, dall’assalto del vecchio positivista ne esce «letteralmente a pezzi, madido di sudore per l’angoscia, vagamente sconfitto pur nella sua vittoria» (ivi). Prevede anche una serie infinita di attacchi.
«Paradiso perduto»
Quando, a Parigi, Agostino inizia l’Università, ha l’impressione di imbarcarsi in un viaggio rischioso, sì, ma ricco di conquiste. Lo sorregge la fiducia nella sua intelligenza e indipendenza intellettuale. Affamato di esegesi, respira a pieni polmoni l’aria satura di modernismo. Il soprannaturale è pacificamente respinto e la Bibbia sottoposta al solo metodo storico-critico. Agostino trascorre molte ore nella Biblioteca Nazionale immerso nella lettura della Dogmengeschichte di Harnack e dei Synoptiques di Loisy. Tenta di ricacciare «negli anfratti ciechi del suo spirito» le soluzioni moderniste, tuttavia «la loro seducente tentazione destava in lui brividi di esaltazione. Le porte di quei misteriosi scompartimenti restavano chiuse solo a prezzo di una lotta che gli costava dura fatica» (II, p. 5). Esce da questa lotta con le ossa rotte, e sconfitto.
Il gruppo degli universitari cattolici è più interessato alle Conferenze di San Vincenzo de’ Paoli, alla liturgia, alla sociologia e alla psicologia mistica che allo studio dell’esegesi biblica, già iniziata dal cappellano della scuola. Agostino suggerisce di riprenderlo, ma un suo amico, la cui personalità si impone sul gruppo, gli dice che le preoccupazioni esegetiche non sono per lui essenziali. E chiarisce il suo pensiero: «Sono ricerche inutili, se non spinte a fondo. Non potendo essere esegeta di mestiere, credo a coloro che non hanno trovato in queste materie, nelle quali sono maestri, ostacoli alla loro vita religiosa» (II, p. 9).
L’amico si chiama Largilier; per la sua eccellenza in fisica e per il suo comportamento dignitoso e amabile ha prestigio e autorevolezza. Sarà il confidente di Agostino, si farà gesuita e assisterà l’amico nei suoi ultimi giorni. Agostino pertanto si conferma nel convincimento di dover cercare da solo. Da solo «studiare a fondo le esegesi, confrontare Batiffol e Lagrange con gli Holtzmann e i Loisy, e altri nomi che figuravano nelle bibliografie. Nessuno avrebbe deciso per lui: né Largilier né chiunque altro […]. Solo, dunque, completamente solo. “Solo come Gesù nel giardino degli ulivi!”» (II, p. 12).
Il raffronto con Gesù lo lascia senza fiato. Non poteva dire con sicurezza che Gesù fosse veramente stato nel giardino degli ulivi, come voleva il suo animo in cerca di un rifugio al suo dolore. L’incontro con l’abbé Bourret lo disorienta: professore all’Istituto cattolico, questo suo cugino si rivela scettico, equivoco e disonesto. Lasciandolo, ad Agostino viene voglia di entrare in chiesa. La porta è chiusa. Egli entra dalla porta laterale e si rende subito conto delle due spinte contraddittorie che lo agitano: un desiderio d’inginocchiarsi e un bisogno di fuga verso la libertà. E rimpiange «con angoscia la vecchia “colomba di saggezza” [la Chiesa], di vasta cultura e di semplicissima fede» (II, p. 36).
La sua vita ora scorre tra le strettoie del positivismo biblico e la nostalgia della fede. Sente il desiderio di pregare, ma non sa se c’è qualcuno a cui rivolgersi; sua madre lo invita a recarsi con lei, la domenica, alla Messa, «ma come spiegarle che tutto in lui era simile a un gran tronco marcio alla base, pronto a scivolare lungo il pendio?» (II, p. 63). Poteva, sì, «pregare, innalzare le mani verso quell’Inconoscibile, dal nome così giusto» (ivi), ma non accostarsi ai sacramenti. Se si accostasse alla confessione, il cappellano gli direbbe, come negli anni passati: «Considera questi istanti della tua vita come una prova morale simile a quella che pesa sugli altri uomini: le malattie, la sofferenza fisica, la povertà. No, la Fede non viene meno. Ma quando Dio te ne toglierà la sensazione, resta ancora più strettamente fedele alle tue pratiche spirituali, e lascia che la tentazione se ne vada» (II, p. 70). La reazione di Agostino sarebbe stata netta e amara: «Ahimè! Forse questi consigli valevano a render chiaro il problema della priorità di Marco? e delle interpolazioni di Luca? o del primato di Pietro in Matteo? o dell’autore e del significato di Giovanni? o le datazioni di Daniele? Quel prete non poteva dar altro che la farina del suo sacco. Parlava con la tranquilla serenità del suo cuore. Ma era come chiedere a uno psichiatra di guarire un’appendicite» (ivi).
L’anima di Agostino assomiglia al vecchio convento delle Orsoline, bandite dalla Repubblica: in esso erano stati sistemati i pompieri e le iscrizioni di pietà cancellate o coperte da frasi volgari. In questa devastazione soltanto all’amico Largilier è dato di inoltrarsi e tentare un salvataggio. Con amabilità e discrezione egli riprende il discorso precedente e gli dice: «Non sono né specialista né ebraicista. Ma certi cattolici lo sono al posto mio, e con un’autorità scientifica assolutamente uguale a quella dei loro avversari. È una cosa semplicissima» (II, p. 80). Agostino prima sogghigna («È insufficiente, come analisi»), poi prende il braccio dell’amico «con una tranquillità fraterna», e insieme si concedono una passeggiata.
Largilier entra nel noviziato dei gesuiti, e Agostino ripiomba nella solitudine. Le preoccupazioni religiose lo assediano senza tregua, anzi lo ossessionano. Come negare le contraddizioni delle testimonianze dei Sinottici, tra loro e con Giovanni, sulla risurrezione e sulla Vergine? Durante una notte insonne avverte «un immenso disgusto di se stesso, il desiderio di farla finita, di spazzar via tutto, Vévé [un eccentrico compagno], la critica biblica, tutto; un desiderio fisico di cose pulite, di ricominciare da capo» (II, p. 103).
Apre una cartella e legge gli appunti dove ha registrato le vicende della sua vita universitaria. Dubbi di fede, ebbrezze esegetiche, conclusioni infondate, culto dell’intelligenza, nostalgia di preghiera, vuoto e caos. «Ed ora, sta per aggiungersi al canagliume del “libero pensiero”, al carcame massonico, vergogna e lebbra della Francia, e si comporterà da buon amico di quel putridume» (II, p. 125). «Dio! Che mai possiamo sperare di trovarci sotto mano, per poter colmare quella incommensurabile parola? Null’altro che poveri oggetti senza valore, verità morali di senso comune, misticismo da convento: niente dell’immensità delle cose. Gelida causa prima, cacciata dai liberi determinismi umani, essa viene superata anche dallo sconfinato dominio delle scienze sperimentali e dalla ricca complessità dell’azione» (II, p. 139). Dinanzi a questa mareggiata, Agostino si sente un naufrago: ha perduto la fede. «Paradiso perduto», titola Malègue il racconto di questo naufragio. Perduto? Largilier gli ha riferito un’affermazione di san Tommaso: «Dio non lascia errare fino alla fine coloro che, cercandolo con la buona fede del loro cuore, non l’hanno trovato. Piuttosto manderebbe un angelo» (II, p. 126).
Quando Dio manda il suo angelo
Facciamo fatica a conoscere l’angelo che Dio manda per salvarci: viene a noi su sentieri oscuri e spinosi. Così sarà per Agostino. Passano gli anni, Agostino si è affermato come persona di grande cultura, è autore di diversi volumi, ha la cattedra di filosofia in diverse università, sta per essere chiamato a una maîtrise della Sorbona. Nel frattempo la sua vita è stata attraversata da dolori, malattie, amori stroncati e morte. Il suo mondo familiare è semidistrutto. Gli resta soltanto la vecchia madre, che si consuma nella preghiera per il il suo ritorno all’ovile, e la sorella Cristina, abbandonata dal marito, con un bambino che muore nella culla. Infine, un terribile colpo d’ala del suo angelo: la turbercolosi che lo costringe al ricovero a Leysin, in Svizzera. Sarà assistito da Cristina, perché anche la madre ha lasciato questo mondo.
Arduo è riassumere l’ultimo capitolo del romanzo — l’ottavo, Sacrificium vespertinum —, nel quale Malègue raggiunge le altezze dell’arte sia per profondità di analisi sia per bellezza di rappresentazione. Durante gli anni della guerra (1914-18) egli ha pubblicato, in una rivista svizzera, un articolo intitolato I paralogismi della critica libera, nel quale dichiara di aver superato l’impostazione razionalistica della critica biblica. Ma è rimasto lontano dalla fede, non tanto per motivi dottrinali, quanto per abitudine e per stanchezza spirituale. Il ritorno avviene durante l’incontro con Largilier. L’amico gesuita gli aveva scritto che al suo rientro da Roma sarebbe venuto a trovarlo in qualunque posto si fosse trovato. «“Ma sei proprio tu”, disse Agostino, con accento di gaia familiarità». Sono cambiati ambedue, gli amici di un tempo. Agostino fisicamente è un rudere, ma con la mente lucida; Largilier, vestito da gesuita, non ha più l’espressione giovanile di una volta, ma conserva il sorriso ascetico, l’atteggiamento meditativo, lo sguardo raccolto. La conversazione si svolge all’insegna della vecchia amicizia, ma più contenuta, quasi con diffidenza da parte del malato. Non tarda però ad assumere il tono della verità che ferisce, delle attese dure a morire. Agostino confessa il bisogno di un centro, di un motivo che trascende le sue ultime settimane, della pace: «La pace dei tuoi dogmi senza i tuoi dogmi, la tua stabilità senza i tuoi punti di appoggio» (III, p. 277), precisa al gesuita. Gli raccomanda pure di non prendere la rivincita su di lui «con le carte truccate della morte». Poi si tranquillizza: Largilier è troppo retto per ricorrere a questi sotterfugi.
Il colloquio continua, tormentato, interrotto da pause di stanchezza; poi scivola sul dolore. Largilier, «immerso in una profonda, immobile meditazione», accenna al significato del dolore, sperimentato anche da Cristo. Il malato lo ascolta con viva attenzione. «Niente è più facile — afferma il gesuita — che credere Dio assente da tutti i meccanismi impassibili del mondo […]. Dio si è inflitto, inadatti e ingiusti com’erano, tutti i determinismi della terra: la passione, la sofferenza, la morte, prima di imporli a noi» (III, p. 281).
Rendendosi conto che Agostino vi «gustava il sapore di immagini concrete e familiari», approfondisce il discorso sul Dio incarnato, dandogli il tono della contemplazione «secondo Sant’Ignazio». «[Cristo] ha fatto sue le condizioni sociali del suo paese e del suo tempo […]. Ha inciampato anche lui. È caduto come chiunque altro […]. Ha sudato sangue d’uomo al Getsemani, ha emesso essudazioni umane sotto il colpo di lancia del Calvario. Il microscopio non potrebbe ingannarsi. Ha sofferto con nervi d’uomo tutti i particolari d’una morte d’uomo, la sete per le emorragie, l’immobilità terribile della Croce. I suoi polmoni hanno gettato il loro ultimo sospiro, come per tutti i morti […]. Ha subìto l’abbandono del Padre, l’abbandono di Dio, l’aridità e il deserto degli assoluti sconforti: questa croce sulla Croce, questa morte nella morte» (III, p. 282).
Agostino ha ascoltato l’amico, «quel grande scienziato, quel mistico, quel santo, forse, quell’uomo che aveva come un’altra vita», con sussulti di emozioni e con rispetto. Riferisce poi la frase di un ex-ateo: «Senza Cristo, odierei Dio». Lui non ripete la bestemmia, ma afferma di non capire Dio se non è il Cristo. Il colloquio tra i due assume toni più intensi; dal fondo dell’anima del malato riaffiorano sentimenti cristiani sopiti, respinti da anni di miscredenza e indeboliti dalla visione del Cristo che ha assunto i condizionamenti della natura umana. «“Vorrei…”, fece il malato con una smorfia di stanchezza. “Ma mi manca, in ogni caso, l’estrema spinta d’incoraggiamento. Non riuscirò mai a slanciarmi dalle paludi in cui sto morendo fino alle vette cui tu mi chiami: mi mancano le ali”» (III, p. 288).
Si avvicina al terrazzo. Scomparse le nuvole, la Dent du Midi del Bianco si offre al suo sguardo in tutto il suo splendore. Agostino ricorda di essersi recato lassù, con Cristina. «Il nostro cuore era affascinato da quella cima immacolata svettante nel cielo. […] C’erano in noi pensieri, simboli che puoi immaginare. Nello stato in cui ci trovavamo, tanto io quanto Cristina, ci voleva ben poco per strapparci dagli artigli della terra […]. Era la prima volta che vedevo Cristina uscire dalla sua terribile calma, interessarsi a qualcosa dopo la morte di suo figlio. Non riusciva a staccare gli occhi da quella vetta che l’affascinava. La diceva piena di purezza, di pace, di semplicità, di Dio» (III, p. 290). Senza confessarlo, aveva percepito le stesse sensazioni della sorella. Largilier pensa che egli le percepisca anche ora, contemplando lo stesso spettacolo. E tenta il colpo d’ala.
Gli dice del curato d’Ars, che era un santo e confessava gente che proveniva da tutti gli angoli della Francia. Se Agostino si fosse recato ad Ars, il Santo gli avrebbe detto: «Amico mio, incominci a inginocchiarsi qui e a confessarsi» (III, p. 291). Il gesuita sente che gli occhi del malato si fissano su di lui, «quasi volessero trapassarlo». E gli dice: «Ma poiché in confessione è Gesù che assolve, l’anima del curato d’Ars e la mia sono, per ciò che riguarda la santità, ad uguale distanza dall’Infinito. E dunque ti dico, come l’avrebbe fatto il Santo: “Resta disteso sul letto, ma raccogliti: nessun orecchio indiscreto ci può sorprendere. Ascolterò la tua confessione”» (ivi).
Seguono momenti drammatici che Malègue descrive da autentico analista dell’anima. Al malato, che afferma di non avere la fede nel sacramento, Largilier dice: «Senza la fede nel sacramento, sì, ma non senza una qualunque fede, perché tu desideri Dio, se non con tutto il tuo cuore, almeno con una qualche sua parte: ed io ti ripeto allora, come diceva il curato d’Ars a coloro che trascinavano ai suoi piedi oscuri desideri di pace: “Amico mio, mettiti qui e confessati”». Con voce soffocata, Agostino ancora grida la sua impreparazione e il bisogno di vederci chiaro: «Abbi un po’ di pietà per me!…». Con grande dolcezza e delicata autorità, Largilier lo assicura che Dio accetta come preparazione il suo profondo desiderio, anche se deformato dal suo pensiero per falso pudore, da mancanza di sincerità nel confessare ciò che gli urge dentro e dal timore d’una realtà troppo bella. «Agostino piombò in un silenzio senza fiato, troppo privo di forza per poter rispondere, e il grande stratega che stava facendo violenza al suo spirito s’impadronì di quei silenzi come fossero consenso» (III, p. 292).
Agostino si rende conto che la sua resistenza è in progressivo disfacimento, che le posizioni contro il dogma crollano, mentre lo avvolge un’invasione di luce. «Non era un qualcosa di puramente dogmatico o dottrinale; era qualcos’altro: una vicinanza di cui a lungo aveva provato il terrore, e che finalmente gli si apriva alla gioia. Cadevano tutti i veli che gliel’avevano nascosta: se ne parlava, infine, apertamente. Non lo spaventava più» (III, p. 293). Largilier lo vede respingere lentamente le coperte e inginocchiarsi, in un tumultuare di pianto, «lo avvolge come in una carezza morale di concreta, illuminata protezione» e ascolta la sua confessione.
«Appena finita la confessione, la Presenza che lo opprimeva aumentò la sua violenta dolcezza. Le parole latine dell’Absolvo furono vere frustate. Pur rimanendo inginocchiato, si prostrò mentalmente, cadde a terra, la testa contro le ginocchia, schiacciato, in un annientamento senza nome. Era il granello di sabbia dei testi biblici, un granello di sabbia cosciente che avrebbe visto davanti a sé tutta la riva, e tutto il mare, e, al di là, tutta la terra; e al di là ancora, l’immensità incommensurabile dello spazio, e nell’al di là supremo infine, il Re di tutti gli Assoluti» (III, p. 296).
Il Cristo che prima lo opprimeva con la sua presenza, ora lo inonda di una violenta dolcezza. Nello stesso tempo gli fa comprendere il suo nulla sul quale Egli, Re di tutti gli Assoluti, fa nascere l’uomo nuovo, erede della vita eterna. Largilier lo aiuta a rimettersi a letto, poi s’inginocchia e lo bacia. Agostino muore dopo aver dato «tutto», «con gioia straziante», a Colui che «restava “perché si faceva tardi”» (III, p. 298).
Personaggi come testimoni
Di Agostino Méridier abbiamo analizzato il motivo di fondo: la crisi religiosa del protagonista. Ad esso si collegano aspetti che danno al romanzo un ritmo polifonico. Tra questi notiamo la varietà e caratterizzazione dei personaggi. La signora Méridier, madre di Agostino, dedita alla famiglia e alla pietà, fedele e discreta: avvolge tutti nella sua preghiera fiduciosa e in una comprensione strutturata di amore e di silenziosa attesa. Sul letto di morte, pensando di non poter più essere di aiuto alla famiglia, «pregando con assoluta naturalezza, come se fosse un modo diverso di respirare, esclama: “Oh, mio Dio, se non ci fossi Tu”» (III, p. 110). Sua copia fedele è Cristina, sua figlia. Culturalmente evoluta, si rende conto della crisi del fratello e a lui si dedica con amore totale. Osservandola accanto al letto della madre, Agostino pensa: «L’orrore che avrebbe straziato fra pochi giorni quelle due donne non avrebbe minimamente influito sulla loro chiarezza interiore. Esse erano nella più intima e stretta unione con Gesù. E sarebbero andate ovunque Egli avesse voluto condurle, fosse pure sul Calvario. Su quel sanguinante cammino, esse avrebbero portato docilmente la loro vita, come un portatore d’acqua reca tra le braccia le sue brocche ricolme» (III, p. 92).
Maria de-chez-nous (di-casa-nostra) è una ragazza bella, sorridente, raccolta; affascina e commuove Agostino, che avverte per lei un insorgere di sentimenti profondi. Non sa che Maria ha deciso di offrire la sua giovinezza al Signore tra le clarisse. Anche Paulin Zeller, amico e collega di studi, rinuncia alla carriera e si consacra a Dio. Un personaggio decisivo nella vita di Agostino è il giovane Largilier: intelligenza sovrana, amico sincero, cattolico dalla fede integra e fondata, schietto e coerente. Affascinato dall’umanità del Verbo incarnato, si farà gesuita per «la possibilità d’essere maggiormente utilizzato». Ad Agostino, che non si stanca d’interrogarlo e di conoscerlo, rivolge queste profonde parole: «La sola massima accettabile, per colui a cui Dio si degna di far sentire la sua voce, è di stendersi a braccia aperte sull’altare che gli è offerto, senza sceglierselo personalmente. È una massima d’una perfetta logicità» (II, p. 91).
Un personaggio che ci lascia perplessi è l’abbé Bourret, professore di esegesi all’Institut Catholique di Parigi, imbevuto di modernismo. Nonostante abbia perduto la fede, celebra la Messa, confessa, predica. Allo stupore di Agostino replica con affermazioni che gettano il freddo nell’anima: «I ministri, nell’esercizio della loro funzione, non agiscono affatto in nome proprio, ma Christi personam gerunt; rappresentano il Cristo, come in una commedia, siano buoni o cattivi, purché si servano della forma e della materia volute dalla Chiesa, ed abbiano l’intenzione di fare quello che ha voluto fare la Chiesa». Non ha importanza il suo ateismo. «La mia intenzione in quanto uomo è la sola che conti: ed è senza difetto» (III, p. 115). La presentazione di Bourret permette al lettore del romanzo di rendersi conto della devastazione operata nella Chiesa di Francia, anche nell’ambito del clero, dalla corrente modernista.
Un incontro molto importante nell’evoluzione spirituale di Agostino è quello con Anna de Préfailles. Giovane, avvenente, profonda e semplice, cattolica dalla fede salda e illuminante, affascina Agostino, che sospira di farla sua sposa. La tubercolosi spezzerà questo sogno. Anna opera in Agostino un importante cambiamento mentale: a lui, irrigidito nella speculazione positivistica, rivela il valore e la bellezza dei sentimenti. Gli darà anche la sensazione della santità, intesa come testimonianza di realtà soprannaturali.
«Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me»
Perché Agostino ha perduto la fede? I motivi di fondo li abbiamo messi in risalto: Malègue li sintetizza quando narra la sua confessione. «C’era indubbiamente un peccato grave, capitale, ed egli lo vedeva con chiarezza, nella limpida, inesorabile luce che si profilava al suo spirito: una onnipresente sicurezza di sé, superba, calma, altera, che solo da pochi anni aveva incominciato a mitigare; tutta penetrata d’intelligenza, e orgogliosa della sua stessa modestia; una coscienza piena e dura del suo valore e delle sue realizzazioni terrene […]. La miscredenza l’aveva reso più duro. E non aveva incominciato a cedere, a sentire “l’altro ordine superiore” che davanti alla profonda umiltà delle due donne [la madre e la sorella] accanto alle quali andava talvolta a trascorrere un po’ del suo tempo» (III, p. 295 s).
Agostino ha idolatrato la sua intelligenza, ha creduto che essa, arricchendolo di cultura, gli avrebbe permesso l’approdo alla verità, anche sulle realtà supreme. Si è trovato così inceppato nel razionalismo positivista e nel determinismo, che lo hanno bloccato in se stesso. «Certi individui — scriverà — vivono del loro pensiero. Altri non se ne curano affatto. Io appartengo ai primi» (II, p. 113). Questo atteggiamento non conosce l’umiltà, che è coscienza dei propri limiti e del bisogno di essere aiutati nella ricerca della verità. È sul suo terreno che nasce e cresce la fede.
Al tempo dell’università, Agostino ha trovato un taccuino di Largilier; vi ha letto queste parole: «Mi studierò, e se la fisica è per me un idolo, spezzerò l’idolo» (II, p. 105 s). In fisica era un genio. Agostino ha fatto della sua intelligenza un idolo. Se ne rende conto, ma non avrà il coraggio di spezzarlo. Lo spezzerà l’angelo inviatogli dal Cielo: la sofferenza. Nel sanatorio di Leysin incontrerà Cristo; in Lui gli si rivelerà Dio e il suo mistero. Nel Vangelo di Giovanni (14,6) si legge: «Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me».
«… dove si troverà il tuo cuore»
Agostino Méridier è un romanzo ricco di eventi, di idee e di cultura religiosa. La trama si svolge nel secolo scorso, prevalentemente a Parigi, in piena crisi modernista, ma il suo messaggio è attuale.Se ci si chiedesse di indicare, tra i tanti disseminati nel romanzo, un pensiero che ci ha particolarmente colpiti, indicheremmo il seguente: «Tutte le oscurità e tutte le chiarezze della Scrittura cadranno insieme, trascinandosi l’un l’altra, sull’uno o sull’altro versante, a seconda del lato in cui si troverà il tuo cuore» (III, p. 305 s).
[1]. Joseph Malègue, Augustin ou le Maître est là, 2 voll., Paris, Spes, 1933, 381, 527. Nella tr. it. Agostino Méridier, 3 voll., Torino, Sei, 1960, 243, 367, 334. La traduzione è di Giovanni Visentin, la Nota introduttiva — puntuale, essenziale, chiara — è di Francesco Casnati. Le citazioni dell’articolo si riferiscono a questi tre volumi (in numeri romani i volumi, e in numeri arabi le pagine). Joseph Malègue (1876-1940) nacque a Latour-d’Auvergne. Compì studi di retorica, filosofia, medicina e si laureò in diritto. Dopo un periodo di insegnamento all’«École Normale» di Savenay, lasciò l’incarico per consacrarsi alla letteratura. In questo campo si distingue per lo stile limpido, preciso, sostenuto da una potente immaginazione e da una notevole cultura, anche storico-teologica. Per l’esattezza descrittiva richiama Proust, per il contenuto Mauriac. La sua bibliografia non è vasta. Ricordiamo Pénombres, glanes et approches théologiques; Pierres Noires. Les classes moyennes du Salut; Sous la meule de Dieu et autres contes. Augustin ou le Maître est là è il suo capolavoro, elaborato con accuratezza e passione. Malègue confessava di aver rimesso in cantiere almeno dieci volte molte pagine del romanzo. Tra gli studi critici in lingua italiana segnaliamo: Ch. Moeller, Letteratura moderna e Cristianesimo, vol. II, «Malègue e la penombra della fede», Milano, Vita e Pensiero, 1957, 156-224; W. Rupolo, «Malègue e la “legge della dualità”», in Id., Stile Romanzo Religione, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1985; G. Visentin, «Joseph Malègue», in Studium, sett.-ott. 1960.
[2]. P. Doncoeur, «L’Augustin de M. J. Malègue», in Études 71 (1934) 95-102.
[3]. Questa testimonianza e l’altra di M. Florisoone sono riportate da G. Visentin nello studio citato sopra.