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Papa Francesco e la guerra mondiale a pezzi
Con la cosiddetta «operazione militare speciale», come Putin chiama il sanguinoso conflitto da lui provocato in Ucraina (che finora ha prodotto più di 200.000 tra morti e feriti per parte e circa 18.000 vittime civili[1]), lo spaventoso spettro della guerra, che pensavamo di aver debellato per sempre dal nostro continente, è ritornato di colpo nel cuore della vecchia Europa; in realtà non era mai scomparso del tutto, basti pensare ai conflitti nella ex Jugoslavia alla fine del XX secolo, in particolare nel Kosovo. Questo evento ha riproposto, in ambito cattolico e non solo, un tema classico della cosiddetta «morale sociale», quello della liceità o meno della guerra, e cioè il senso della guerra in ordine alla risoluzione dei conflitti tra Stati. Tale questione, solo in apparenza astratta, è legata ad altre problematiche molto delicate, come quelle del riarmo e dell’uso delle armi atomiche (anche di quelle meno distruttive), che purtroppo stiamo tragicamente rivivendo, come nel recente passato.
Papa Francesco, di cui quest’anno ricorre il decennale del pontificato, in un libro pubblicato alla fine del 2022 intitolato Vi chiedo in nome di Dio[2], affronta la questione riguardante la guerra, come ha fatto anche in diversi interventi, in modo diretto, facendo riferimento anche al magistero dei suoi predecessori in tale materia. I Papi, nel secolo appena trascorso – scrive Francesco – non hanno risparmiato parole nel condannare la guerra, definendola di volta in volta come «un flagello» (Pio XII), o come «un’inutile strage» con cui tutto può essere perduto, e che in definitiva «è sempre una sconfitta dell’umanità» (Benedetto XV). Una barbarie, che «mai» risolve i problemi e i confitti tra gli Stati (Paolo VI). Oggi, scrive il Papa, «mentre chiedo in nome di Dio che si metta fine alla follia crudele della guerra, considero inoltre la sua persistenza tra noi come il vero fallimento della politica»[3].
La guerra, continua, può essere presente tra di noi in molte forme, le più sofisticate e perverse sono quelle cosiddette «preventive» e cioè condotte, si afferma falsamente, per garantire la sicurezza in una determinata area, quelle «manipolate», quando per attaccare altri Paesi si creano dei falsi pretesti o quando sono state contraffatte le prove, e quelle «per procura», quando vengono condotte in altri Paesi per gli interessi delle grandi potenze. La guerra, in ogni caso, afferma papa Francesco, «non è mai giustificata. Infatti non sarà mai una soluzione: basti pensare al potere distruttivo degli armamenti moderni per immaginare quanto siano alti i rischi che una simile contesa scateni scontri mille volte superiori alla supposta utilità che alcuni vi scorgono»[4]. Oggi, continua, «assistiamo a una guerra mondiale a pezzi, che tuttavia minacciano di diventare sempre più grandi, fino ad assumere la forma di un conflitto globale». L’unica via per risolvere i conflitti in atto tra Stati è perciò «fermarli in tempo, quando sono ancora in gestazione», prima che si arrivi agli scontri. E per riuscirvi servono il dialogo, i negoziati, la creatività diplomatica. A questo devono servire le grandi organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite e altre istanze sopranazionali, che andrebbero riformate per rispondere efficacemente e prontamente a tali esigenze. In tempo di guerra, in generale, «serve più multilateralismo», nonché la disponibilità da parte dei belligeranti e delle grandi potenze di intraprendere, a vari livelli, la via negoziale per arrivare alla pace, o almeno per concordare un cessate il fuoco effettivo.
Circa poi il tema del riarmo, in Europa è ricomparso come risposta politica alla guerra in Ucraina. Infatti, tutti i Paesi dell’Ue hanno aumentato il bilancio pubblico destinato agli armamenti. Il cancelliere Olaf Scholz, già nel febbraio del 2022, subito dopo l’invasione russa dell’Ucraina, aveva annunciato nel Bundestag di Berlino di spendere 100 miliardi di euro per l’anno in corso nel settore degli armamenti, seguendo le grandi potenze del pianeta. Questa decisione è significativa anche perché la Germania, dopo la Seconda guerra mondiale, aveva fatto della scelta pacifista la sua divisa identitaria. Papa Francesco, al riguardo, scrive: «La spesa mondiale in armamenti è uno degli scandali morali più gravi dell’epoca presente. Manifesta, inoltre, quanta contraddizione vi sia tra parlare di pace e, allo stesso tempo, promuovere o consentire il commercio di armi»[5].
Tali posizioni del Papa sulla guerra, sempre ingiusta e ingiustificabile, hanno un precedente importante nell’enciclica Pacem in terris dell’11 aprile del 1963 (quest’anno ricorrono i 60 anni dalla sua promulgazione), mentre era in corso il Concilio Vaticano II, che papa Francesco richiama esplicitamente nel suo testo. Nella nostra breve trattazione affronteremo questo tema – oltre a quello più tradizione della «guerra giusta» – soltanto dal punto di vista storico, per aiutarci a comprendere le illuminanti parole del Papa.
La guerra e la pace nella «Pacem in terris»
L’enciclica Pacem in terris[6] di Giovanni XXIII, come ricordato, è stata all’origine di una nuova concezione sulla guerra: in realtà voleva anche essere un segnale eloquente inviato dal Papa ai Padri conciliari, sconvolti dalla crisi dei missili di Cuba. L’enciclica tratta, inoltre, della necessità del disarmo e della pericolosità della moderna corsa al riarmo che rende il mondo più insicuro, poiché «gli uomini vivono sotto l’incubo di un uragano che potrebbe scatenarsi in ogni istante con una stravolgenza inimmaginabile» (n. 111), ma anche più povero e più esposto alla vicendevole sfiducia. «Si riducano simultaneamente e reciprocamente gli armamenti – implora il Papa –, si mettano al bando le armi nucleari, e si pervenga finalmente al disarmo integrato da controlli efficaci» (n. 112). Il Papa, interpretando il segno dei tempi, osserva poi che tra gli uomini di buona volontà si diffonde sempre di più la speranza che le controversie tra gli Stati si possano appianare attraverso negoziati. Tale persuasione, continua, è oggi piuttosto rafforzata, considerando la forza distruttrice delle armi moderne, «ed è alimentata dall’orrore che suscita nell’animo anche solo il pensiero delle distruzioni immani e dei dolori immensi che l’uso di quelle armi apporterebbe alla famiglia umana. Per cui riesce impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia» (n. 127). Questo passaggio condanna la guerra in generale e si allontana dalla dottrina tradizionale della guerra giusta, creata dai teologi moralisti post-tridentini.
In realtà, il principio morale di bandire la guerra dal consorzio umano era già stato fatto proprio dal magistero degli ultimi Papi: basti pensare al radiomessaggio natalizio del 1944 di Pio XII. Secondo questi Pontefici, la guerra era un male da evitare, ma che accadeva a causa dell’egoismo umano e dell’indisponibilità del mondo moderno a seguire gli insegnamenti della Chiesa in materia morale. Questa dottrina prevedeva in ogni caso la guerra di legittima difesa e quella vindicativa, volta cioè a ristabilire il diritto violato. La Pacem in terris si allontana da tale prospettiva, che utilizza nella lettura dei fatti uno schema deduttivo, affermando che la guerra contemporanea non può in nessun caso produrre giustizia, e argomenta tale posizione applicando non una categoria della teologia morale, ma semplicemente leggendo e interpretando, con metodo induttivo, i segni dei tempi, cioè i fatti storici; pertanto la semplice constatazione del grave pericolo di una guerra atomica rendeva inutilizzabile l’arsenale interpretativo della morale classica in tema di guerra giusta[7].
Un altro passo significativo della Pacem in terris è certamente quello che considera «atto di più alta importanza» la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, approvata dall’Onu il 10 dicembre 1948. Nonostante le obiezioni sollevate e le «fondate riserve», la Dichiarazione è considerata «un passo importante nel cammino verso l’organizzazione giuridico-politica della comunità mondiale», poiché in essa è riconosciuta, nella forma più solenne, «la dignità di persona a tutti gli esseri umani» (n. 145). Era la prima volta che un testo del magistero papale faceva esplicito riferimento in senso positivo alla Dichiarazione del 1948. Questa novità è rilevata, con rispetto e giudizio critico, anche da diversi pensatori laici, sensibili al fatto religioso. Secondo alcuni, l’enciclica rappresenta certamente una svolta nell’atteggiamento del magistero papale nei confronti dei diritti umani, così formalizzati in dichiarazioni solenni prodotte da assemblee rappresentative, ma in realtà nella sostanza non differisce molto dal magistero precedente. Secondo Daniele Menozzi, nella parte iniziale dell’enciclica – in cui si enumerano i diritti che secondo la Chiesa spettano ad ogni essere umano – quelli che vengono difesi e promossi sono i diritti oggettivi della persona, non quelli soggettivi dell’uomo (sebbene possano in parte coincidere nel contenuto). Soltanto i primi infatti, secondo l’enciclica, si fondano su una natura umana riconducibile all’ordine voluto da Dio per l’universo[8]. In ogni caso, sostiene lo storico, «alla tradizionale visione diffidente e critica verso i diritti umani, la Chiesa sostituiva ora un atteggiamento ottimistico e costruttivo in quanto li presentava [i diritti umani] come via di realizzazione dei diritti della persona»[9].
Il Concilio Vaticano II, nella Costituzione Gaudium et spes, tratta estesamente di tali problematiche, compresa quella, a quel tempo molto spinosa, della corsa agli armamenti, sebbene in una prospettiva teologica più limitata e meno coraggiosa dell’enciclica giovannea[10].
Per la Costituzione conciliare, «la pace non è semplice assenza della guerra […], ma essa viene definita con tutta esattezza “opera della giustizia”». Gli uomini, in quanto peccatori, sottolinea, «sono e saranno sempre sotto la minaccia della guerra»[11], ma la vera pace nasce dalla giustizia e dal progresso sociale. Sebbene la guerra faccia parte dell’esperienza storica delle comunità, gli uomini non devono arrendersi alla sua inevitabilità, «né il fatto che una guerra è ormai disgraziatamente scoppiata diventa per questo lecita ogni cosa tra le parti in conflitto»[12]. Infatti, insegna la Gaudium et spes: «Il progresso delle armi scientifiche ha enormemente accresciuto l’orrore e l’atrocità della guerra»[13], tanto che, se venissero utilizzati in un conflitto gli arsenali delle grandi potenze, provocherebbero la distruzione degli stessi contendenti, senza considerare gli effetti letali per tutta l’umanità. Per cui, «ogni atto di guerra che indiscriminatamente mira alla distruzione di intere città, di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità, e con fermezza e senza esitazione deve essere condannato»[14].
La Costituzione conciliare, nonostante avesse descritto questi scenari di devastazione e di morte, riguardo alla guerra moderna, si asteneva però dal condannarla in toto, «né si potrà negare ai Governi il diritto di una legittima difesa»[15]. Anche riguardo alla materia della corsa agli armamenti, la sua posizione si discosta in parte da quella della Pacem in terris, anzi affermava: «L’ammassamento di armi che va aumentando di anno in anno serva a dissuadere eventuali avversari nel compiere atti di guerra»[16]. Questo, continua la Gaudium et spes, «è ritenuto da molti il mezzo più efficace per assicurare oggi una certa pace tra le nazioni». Subito dopo però il Concilio sottolinea: «Qualunque cosa si debba pensare di questo metodo dissuasivo, si convincano gli uomini che la corsa agli armamenti»[17] non è la via più sicura per raggiungere una pace vera e stabile.
Dall’intervento umanitario alla responsabilità di proteggere
Con la fine della «guerra fredda», la controversa questione del principio e della pratica dell’intervento umanitario, praticato in alcuni casi già nel XIX secolo, ritorna nuovamente alla ribalta della storia contemporanea[18]. A partire dagli anni Novanta la fine della paralisi del Consiglio di Sicurezza, a causa della contrapposizione su molti dossier internazionali tra Usa e Urss, coincide con numerose gravi violazioni dei diritti fondamentali nel contesto di guerre civili, o in Stati in cui il potere e le istituzioni erano collassati[19]. In diverse occasioni il Consiglio di Sicurezza aveva dato mandato ad alcuni Stati leader di intraprendere, nel pieno rispetto delle norme internazionali, interventi umanitari per riaffermare i diritti umani minacciati o violati. Ricordiamo sei grandi crisi internazionali in cui fu concesso il «mandato» di un intervento armato per motivi umanitari: difesa dei curdi iracheni (1991), dell’ex Jugoslavia (1991-1992), della Somalia (1992), del Ruanda (1993-94), di Haiti (1994) e di Timor Est (1999).
Tra gli interventi posti in atto nel secolo scorso, il più controverso fu certamente quello del Kosovo, nel 1999: a differenza di tutti gli altri, fu promosso e attuato dalla Nato senza il mandato del Consiglio di Sicurezza. Esso fu molto criticato da diversi osservatori e studiosi della materia, soprattutto per la modalità con cui fu attuato da alcune importanti superpotenze[20]. Occorre però ricordare che in questi anni ci furono anche casi tragici di non intervento da parte della comunità internazionale, o casi in cui non fu possibile agire, per il veto posto da uno o più membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Non vanno dimenticati, inoltre, i casi di intervento umanitario tardivo o inadeguato, come in Ruanda e nel Darfur[21].
La dottrina sull’intervento umanitario, nei primi anni del XXI secolo, ha subìto importanti e significative variazioni, all’interno di un progetto più generale di riforma del ruolo delle Nazioni Unite nel nuovo ordine internazionale. Anziché di ingerenza o di «intervento umanitario», si preferiva allora parlare di «responsabilità di proteggere». Tale nuova prospettiva, infatti, frutto di un lungo dibattito svoltosi nei primi anni di questo secolo all’interno delle Nazioni Unite, esprimeva la volontà di tutelare con maggior forza i diritti umani contro i pretesi diritti degli Stati nazionali alla non ingerenza nelle loro questioni interne[22].
La dottrina degli interventi umanitari e della responsabilità di proteggere nel magistero di Giovanni Paolo II
Giovanni Paolo II più volte era intervenuto in quegli anni a favore degli interventi umanitari decisi e sostenuti dalle Nazioni Unite, anche quando, come ultima ratio, era previsto l’uso della forza. Il 5 dicembre 1992, nel suo discorso alla II Conferenza internazionale sulla nutrizione, disse: «La coscienza dell’umanità, ormai sostenuta dalle disposizioni del diritto internazionale umanitario, chiede che sia obbligatorio l’intervento umanitario nelle situazioni che compromettono gravemente la sopravvivenza di interi popoli e gruppi etnici». Un anno dopo, nel discorso del 16 gennaio 1993 al Corpo diplomatico, sostenne apertamente la necessità da parte della comunità internazionale di intervenire nelle situazioni di crisi umanitaria, dichiarando «omissione colpevole» ogni forma di disinteresse da parte degli Stati nei confronti delle situazioni di sofferenza. Di più: affermò che non esiste più il «diritto all’indifferenza» e che è compito degli Stati disarmare l’aggressore, quando tutti gli altri mezzi si sono dimostrati inefficaci. «Il principio della sovranità degli Stati – disse il Papa – e della non ingerenza nei loro affari interni, che conserva tutto il suo valore, non potrà tuttavia costituire un paravento dietro il quale si potrà torturare e assassinare. Perché è di questo che si tratta». Gli interventi pontifici su questo tema sono stati diversi e generalmente bene accolti dall’opinione pubblica e dalla comunità internazionale. Di fatto essi hanno contribuito a dare un fondamento etico-morale alle decisioni che in quel periodo l’Onu stava assumendo su tale delicata materia[23]. Negli anni successivi tale strumento giuridico di tutela fu messo da parte, obliato, in particolare dopo l’attentato di al-Qaeda alle Torri Gemelle nel 2001 e con l’inizio della guerra al terrorismo islamista internazionale. In realtà, anche alcuni insuccessi o strumentalizzazioni di tali interventi contribuirono a indebolirne l’efficacia e la credibilità.
Gli Stati Uniti, in un mondo ormai «unipolare», pretesero di avere mano libera in una guerra che consideravano totale, senza più regole, contro chi minacciava la sicurezza del loro Paese e le maggiori capitali occidentali. Le dolorose vicende mediorientali e la guerra contro l’Isis, alla quale parteciparono, in modo diverso, alcune grandi potenze, tra cui la Russia di Putin, hanno fatto il resto.
La guerra giusta e la scuola di Salamanca
Precedentemente, trattando della Pacem in terris, si è parlato del principio della «guerra giusta», molto utilizzato, nei secoli passati, nel pensiero cattolico per disciplinare in qualche modo la materia della guerra. Esso è stato definitivamente e compiutamente elaborato in ambito teologico e giuridico dalla scuola di Salamanca, nel XVI secolo, anche se già nei secoli precedenti era conosciuto e applicato dalla scienza canonistica e dalla teologia morale. Siccome a volte tale principio viene interpretato in modo improprio (o strumentale), ci sembra opportuno, in sede storica, fare luce sui fondamenti teorici della dottrina e ricordare la personalità che ha maggiormente contribuito a fissarne i princìpi, così come noi oggi li conosciamo. Tale teoria è stata approfondita e divulgata dal teologo domenicano Francisco de Vitoria (1483-1546). Egli studiò a Parigi e, a partire dal 1522, iniziò la sua brillante carriera come professore di teologia, prima a Valladolid e poi a Salamanca, dove visse fino alla morte. Universalmente apprezzato, era consultato da prelati e da prìncipi. Fra l’altro, l’imperatore Carlo V e papa Paolo III lo designarono come teologo di fiducia al Concilio di Trento, ma egli declinò l’invito dicendo che «era ormai incamminato verso l’eternità». Sui temi etico-politici de Vitoria è certamente uno degli autori più significativi del Rinascimento. Più che un teologo, in realtà, il domenicano fu un giurista, un umanista interessato a problemi pratici[24]. I temi da lui maggiormente esaminati furono la «guerra giusta» e lo jus gentium, da cui si svilupperà poi il moderno diritto internazionale[25]. Sulla guerra giusta de Vitoria riprese la dottrina di Agostino e quella di Tommaso d’Aquino, adattandole alle condizioni dei tempi nuovi. La materia fu esposta in due importanti relectiones dedicate alla questione del Nuovo Mondo: la relectio de Indis (1538) e la relectio de jure belli (1539). Egli, oltre ai tradizionali requisiti richiesti per definire una guerra come giusta (autorità competente; retta intenzione; causa giusta; proporzione tra offesa subita e risposta armata), ritenne necessario valutare le conseguenze devastanti di un possibile attacco: se queste dovessero provocare danni incalcolabili o sofferenze gravi alla popolazione, oppure si estendessero «al mondo intero», la guerra diventerebbe per ciò stesso ingiusta e da ricusare. Per capire il suo pensiero è necessario inquadrarlo nel suo contesto storico; cioè, da un lato, la conquista del Nuovo Mondo e, dall’altro, le vicende dell’Europa del primo Cinquecento, divisa al suo interno tra potenze cristiane antagoniste e minacciata all’esterno dal pericolo ottomano.
I due contesti erano naturalmente differenti e richiedevano un approccio interpretativo diverso: nel primo caso si trattava di giustificare una guerra di conquista di territori «pagani», dall’altra di chiamare all’unità i prìncipi cristiani, invitandoli alla moderazione e soprattutto a unificare le loro forze per combattere i musulmani. È stato giustamente notato che gli scritti di de Vitoria non sono trattati sistematici, come quelli della prima scolastica, basati su princìpi generali, ma piuttosto applicazioni di questi alla soluzione di casi concreti. Di fatto, le posizioni del domenicano sulla guerra giusta variarono a seconda della situazione a cui si faceva riferimento: nel caso del Nuovo Mondo, de Vitoria era preoccupato di contrastare le atrocità commesse dai conquistadores; nel caso delle vicende europee, invitava alla pacificazione i prìncipi cristiani, ma fu invece durissimo nei confronti dei perpetui hostes, cioè degli infedeli musulmani. Il pensiero del domenicano spagnolo ha goduto di buona fama e di buona letteratura presso gli intellettuali moderni di tutte le tendenze; le sue opere sono state ripetutamente riedite. Egli è considerato maestro della pace e creatore di uno spirito nuovo di comprensione e tolleranza tra i popoli. Inoltre, è ritenuto un propugnatore ante litteram dell’unità europea e dell’instaurazione di un sistema di garanzie e princìpi della pace internazionale come, ad esempio, il blocco economico e diplomatico.
De Vitoria poi interpreta lo jus gentium, altra materia a lui cara, facendo riferimento al diritto tra gli Stati e non soltanto tra le persone: esso, a suo avviso, è principio di «naturale comunicazione» sociale fra i popoli e orienta la libera circolazione delle persone e delle merci, di cui è bene si avvantaggino tutti e non soltanto alcuni Stati.
Tali princìpi parlano anche agli uomini del nostro tempo, che purtroppo sperimentano, nonostante i numerosi progressi avvenuti in questi secoli, le stesse difficoltà in ordine alla convivenza comune e alla libertà di circolazione.
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[1]. Cfr A. Nicastro, «Madri, figli, amiche: tutte le vite stroncate dal missile di Dnipro», in Corriere della Sera, 16 gennaio 2023.
[2]. Papa Francesco, Vi chiedo in nome di Dio. Dieci preghiere per futuro di speranza, Milano, Mondadori, 2022.
[3]. Scrive il Papa a tale riguardo: «Un politico deve sempre puntare sulla pace; un buon cristiano deve sempre scegliere la via del dialogo. Se arriviamo alla guerra è perché la politica ha fallito. E ogni guerra che scoppia è anche un fallimento dell’umanità». Ivi, 62.
[4]. Ivi, 61.
[5]. Ivi, 62.
[6]. G. Sale, «Il 50° anniversario della Pacem in terris», in Civ. Catt. 2013 I 9-22.
[7] . Cfr D. Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti, Bologna, il Mulino, 2008.
[8] . Cfr D. Menozzi, Chiesa e diritti umani. Legge naturale e modernità politica dalla Rivoluzione francese ai nostri giorni, Bologna, il Mulino, 2012, 190.
[9] . Ivi, 193.
[10]. Cfr J. W. O’Malley, Che cosa è successo nel Vaticano II, Milano, Vita e Pensiero, 2010, 273.
[11]. Documenti. Il Concilio Vaticano II, Gaudium et spes (GS), Bologna, Edizioni Dehoniane, 1967, n. 79.
[12]. GS, n. 79.
[13]. GS, n. 80.
[14]. GS, n. 80.
[15]. GS, n. 79.
[16]. GS, n. 80.
[17]. GS, n. 81.
[18]. Per la moderna dottrina giuridica internazionale l’intervento umanitario è una pratica, prevalentemente militare, intrapresa da uno Stato leader (o da un gruppo di Stati) che, su mandato delle Nazioni Unite (in particolare del Consiglio di Sicurezza), interviene contro un altro Stato sovrano per porre fine a gravi violazioni dei diritti umani in esso compiute: genocidio, pulizia etnica e crimini contro l’umanità. (Cfr P. Gargiulo, «Dall’intervento umanitario alla responsabilità di proteggere: riflessioni sull’uso della forza e la tutela dei diritti umani», in La Comunità internazionale, 4, 2007, 64). Ora, la discussione sulla legittimità dell’intervento umanitario è in larga misura determinata dalla normativa vigente in materia di uso della forza tra Stati sovrani dettata dall’ordinamento internazionale. A tale riguardo, il principio fondamentale (sul quale poggia l’intero sistema di sicurezza internazionale) è quello fissato dall’art. 2, comma 4 della Carta delle Nazioni Unite, che impone agli Stati di astenersi «nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dell’uso della forza, sia contro l’integrità o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite». L’unica eccezione posta a tale divieto è il caso in cui uno Stato venga aggredito da un altro e agisca per legittima difesa. Tale principio va però letto e interpretato alla luce dell’art. 1 della Carta dell’Onu, che nella sua prima parte sancisce quale fine specifico delle Nazioni Unite il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali e ne pone la realizzazione in connessione con l’adozione di «efficaci misure collettive» tese a prevenire e rimuovere le minacce alla pacifica convivenza e a «reprimere gli atti di aggressione o le altre violazioni della pace». A tale riguardo il capitolo VII della Carta stabilisce, in materia di uso della forza, un sistema centralizzato che ha il suo fondamento nelle deliberazioni del Consiglio di Sicurezza, organo preposto alla gestione delle situazioni di crisi internazionali che minacciano la pace e la sicurezza tra gli Stati. Cfr D. Rodogno, Contro il massacro. Gli interventi umanitari nella politica europea 1815-1914, Roma-Bari, Laterza, 2012, 6 s.
[19]. Cfr Ivi, 337.
[20]. Cfr N. Chomsky, Il nuovo umanesimo militare. Lezioni dal Kosovo, Trieste, Asterios, 2000; M. Mamdani, «The New Humanitarian Order», in The Nation, 29 settembre 2008.
[21]. Cfr Id., Saviours and Survivors. Darfur, Politics and War on Terror, New York, Verso, 2009, 25 s.; S. Strauss, «Darfur and the Genocide debate», in Foreign Affairs, 84 (2005), 123 s.
[22]. Le definizioni di «ingerenza» e di «intervento» possono avere una risonanza negativa, nel senso che sottolineano il limite posto alla sovranità e all’autonomia dello Stato nel quale si intende intervenire. In ogni caso, la Croce Rossa internazionale e anche alcune Ong umanitarie preferiscono che tali termini vengano riservati esclusivamente ai loro interventi pacifici.
[23]. Su tale materia Cfr I. Santus, Il contributo della Santa Sede al diritto internazionale. Dal diritto di ingerenza alla responsabilità di proteggere la dignità umana, Terni, Cedam, 2012, 345 s.
[24]. Cfr R. Paolini, Filosofia politica e diritto internazionale in Francisco de Vitoria, Roma, Armando Curcio, 2011; R. Hernandez Martin, Francisco De Vitoria, Vida y pensamiento internacionalista, Madrid, Biblioteca de Autores Cristianos, 1995.
[25]. Cfr F. De Vitoria (a cura di Carlo Galli), De Iure belli, Roma-Bari, Laterza, 2005.