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I personaggi biblici hanno, per più di un titolo, caratteri sacri. Illustrano, nella buona e nella cattiva sorte, le possibilità della libertà umana quando incontra quella di Dio, e lo fanno imponendosi ostinatamente nella nostra memoria di lettori e di credenti. Chi ha incontrato, in un’esperienza di lettura un po’ assidua, personaggi come Rebecca e Giacobbe, Davide e Abigail, Giobbe, Nicodemo, Pietro e Maria Maddalena, ha trovato compagni di viaggio, come familiari o anche come redivivi. Confrontarsi con le loro apparizioni nel racconto significa verificare il giudizio di Robert Alter: «Gli scrittori biblici foggiano i loro personaggi con una individualità complessa, talvolta affascinante, spesso fiera e tenace, perché è nell’ostinatezza dell’individualità umana che ogni uomo e donna incontra Dio o lo ignora, risponde a lui o gli si oppone»[1]. Sarà quindi sorprendente? Nell’esperienza di fede questi personaggi, trasformati in «presenze reali», appaiono «come di fronte» (Gn 2,18) – come avviene nelle vetrate delle chiese e a volte delle sinagoghe.
Tuttavia non mancano contrasti nel modo, antico e moderno, di accogliere queste figure. Se l’esegesi critica ha messo in luce la loro genesi nella storia redazionale della Bibbia, non li ha per questo risparmiati. Non mancano ipotesi storiche che li spogliano della «realtà» che hanno sulla scena del racconto e nell’immaginazione dei credenti. Così, nel suo saggio Der Gott der Väter (1929), l’esegeta tedesco Albrecht Alt ha visto in Abramo, Isacco e Giacobbe non tre generazioni di un’unica famiglia alle prese con il Dio unico, ma «fondatori di culto», propri a tre gruppi tribali distinti, con territori distinti e divinità distinte, cioè «lo Scudo di Abramo» (Gn 15,1), «il Terrore di Isacco» (Gn 31,42.53) e «il Potente di Giacobbe» (Gn 49,24). L’alleanza di queste tribù in una sottomissione al Dio comune avrebbe condotto alla costruzione di una genealogia comune. Più recentemente il libro di Mario Liverani, Oltre la Bibbia, intitola «una storia inventata» la sezione dell’opera dedicata ai racconti della Bibbia; questi sarebbero nati da «un’enorme e variegata riscrittura della storia», la storia «“normale” e piuttosto banale di un paio di regni dell’area palestinese»[2]. In tal caso il personaggio di Abramo è una creazione tardiva ad opera degli scrittori e dei profeti dell’esilio e del post-esilio, che avrebbero proiettato sulla sua figura e sulla sua storia le sfide vissute dal popolo nel ritorno dall’esilio[3]. Questa figura di padre (Av in ebraico) — aggiunge Liverani — avrebbe approfittato della persistenza, nelle genealogie tribali, del nome di una tribù Raham ricordato nella stele di Sethi I (verso il 1290 a. C.), trovata a Beth Shean. Messo dinanzi alle scoperte degli archeologi, e alle ipotesi di solito ragionevoli degli storici, il lettore della Genesi si rallegra dei risultati della ricerca, dei progressi del sapere resi possibili dall’indagine critica; ma ha difficoltà a riconoscere in queste ipotesi ciò che è più vivo nella sua esperienza di lettura[4].
All’altro estremo dell’arco ermeneutico il lettore troverà un buon numero di personaggi della Genesi debitamente canonizzati e consacrati fin da allora nella loro realtà personale. La Chiesa antica e, ancor oggi, le Chiese d’Oriente venerano come santi i Patriarchi e diversi personaggi dell’Antico Testamento. L’antico canone romano, ad esempio, ricorda «Abele il giusto», «Abramo nostro padre nella fede» e «Melchisedech, sommo sacerdote»; la Chiesa latina di Gerusalemme include nel calendario liturgico (1971) le memorie di Abramo «patriarca», di Mosè «legislatore e profeta», di Isaia «profeta e martire», dei martiri Maccabei, insieme a una serie di altri santi dell’Antico Testamento. È una bella coerenza con il capitolo 11 della Lettera agli Ebrei, che passa in rassegna, da Abele a Samuele e ai profeti, il «nugolo di testimoni» (Eb 12,1) che circonda il credente della nuova alleanza. Si può dunque comprendere l’impegno di alcuni, nella Chiesa latina, perché si perpetui la memoria liturgica delle figure che hanno preparato quella di Cristo[5].
Tra i due estremi, ci proponiamo di scrutare «l’ostinazione della presenza»[6] dei personaggi della Bibbia, dell’Antico come del Nuovo Testamento, attraverso la fenomenologia del loro «realismo» letterario. L’approccio privilegerà l’arte di raccontare della Bibbia e partirà dall’analogia con i personaggi della grande letteratura. Prima di essere ipotesi storiche o ipostasi canonizzate, i personaggi biblici sono «presenze» che giungono attraverso il racconto della storia, o anche attraverso quelle «storie» ben raccontate che sono le parabole.
I personaggi letterari: una singolare «Gestalt»
Se si eccettua la miopia di alcune recenti teorie, gli studi letterari hanno sempre prestato attenzione alla «vita» dei personaggi nell’immaginario e nella memoria dei lettori (o, attualmente, degli spettatori del cinema). Tuttavia questa «vita» è già anticipata da parte dell’autore, come scrive Sylvie Germain, che descrive così l’entrata in scena del personaggio nello spirito del romanziere:
«Un giorno essi sono qui. Un giorno, senza preoccuparsi dell’ora. Non si sa da dove vengano, né perché né come siano entrati. Entrano sempre così, all’improvviso e forzando la porta, senza far rumore, senza danni apparenti. Hanno una straordinaria discrezione nell’attraversare i muri. Loro: i personaggi. Di essi non si sa nulla, ma subito impongono stabilmente la loro presenza. Si potrà fingere di non aver notato nulla, tentare di scoraggiarli ignorandoli, magari burlandosi di essi: rimarranno qui. Qui, in noi, dietro l’osso della fronte, come un dipinto rupestre nel fondo di una grotta cinta di oscurità. Un dipinto in chiaroscuro, ma ben presto ossessionante. Qui, al confine tra il sogno e la veglia, alla soglia della coscienza. E scombinano tale confine, lo attraversano continuamente con l’agilità di un contrabbandiere, spostandolo, distorcendolo. Qui, piantati su questa soglia mobile, con la violenza immobile e muta di un mendicante che ha messo gli occhi su di voi e non se ne andrà prima di aver ricevuto ciò che vuole»[7].
Anche nell’animo del lettore i personaggi diventano rapidamente molto più che esseri di carta o un insieme di parole. Incontrare un personaggio in un racconto — in particolare quello o quella che occupa il proscenio — significa avviare un riflesso interpretativo sui generis, irriducibile ai riflessi che sorgono per altri elementi del mondo (narrato). Di fronte a dati testuali abbondanti o frammentari, il lettore proietta, dietro al nome proprio del personaggio o dietro al proprio «io», l’attività o la passività di un soggetto (in quanto centro di percezione e principio di causalità), attribuendogli una umanità analoga alla nostra. Martin Price paragona tale operazione a situazioni che, dinanzi a certi motivi disegnati su una superficie, «ci costringono a creare una terza dimensione di profondità, per poter integrare gli elementi in una nuova Gestalt»[8]. In altri termini, «se il personaggio è completamente a un primo livello, superficie verbale, a un altro livello è completamente un’implicazione e un’ispirazione di vita umana»[9], poiché si tratta di un altro self, analogo al nostro. Ogni momento di un dramma (sulla carta, sulla scena, sullo schermo) richiede al lettore o allo spettatore di formulare ipotesi a proposito delle motivazioni, consapevoli o inconsapevoli, dei personaggi: «Se il pubblico si rifiutasse di prestarsi al gioco delle induzioni, ogni dramma scritto si fermerebbe»[10].
In una recente lezione inaugurale al Collège de France, il critico letterario Thomas Pavel ha riformulato felicemente questa forma di empatia, che giunge a «far risuonare in sé le ansie e i dilemmi dei personaggi, come se si trattasse di esseri dotati di realtà concreta»[11]. Pavel, che insegna all’università di Chicago, cita il suo predecessore nella stessa università, Wayne Booth (1921-2005), secondo il quale «il nostro rapporto con le opere letterarie è simile a quello che ci lega ai nostri familiari»[12]. Tutto nasce dalle parole (o dai «vuoti» tra le parole), ma il dinamismo delle deduzioni ci fa creare, a proposito dei personaggi, una Gestalt che nella memoria si libera delle parole. Seymour Chatman denuncia l’errore della «equazione dei personaggi con “semplici parole”», in particolare per questo motivo: «Troppi mimi, troppi film muti (e senza sottotitoli), troppi balletti hanno dimostrato il non-senso di tale restrizione. Troppo spesso rammentiamo certi personaggi in modo vivo, senza poter ricordare una sola parola del testo nel quale hanno preso vita per noi […]. È il medium che “sfuma e diventa incerto” […], mentre il nostro ricordo di Clarissa Harlowe [l’eroina di Clarissa, or the History of a Young Lady, di Samuel Richardson] o di Anna Karenina rimane intatto»[13]. Il carattere memorabile di questi personaggi è testimonianza della vita che è diventata la loro, come scrive Hubert Nyssen: «Don Chisciotte o Sancio Pancia, Oliver Twist o Martin Chuzzlewit, come Stavroghin o il Principe Myshkin, come Bouvard e Pécuchet, come Angelo o Pauline de Théus, ben presto in effetti hanno cominciato a vivere senza il loro creatore, hanno continuato a parlarci, a interrogarci, a sedurci o a provocarci, molto dopo che abbiamo chiuso i libri dove li abbiamo scoperti»[14].
In breve, i personaggi del racconto godono di un’intensa attività immaginativa da parte nostra, che contribuisce a dare loro vita nel nostro animo, senza peraltro diventare «a nostra immagine». Infatti ciò che persiste nella memoria è il personaggio nella sua idiosincrasia, in ciò che ha avuto di singolare, di imprevedibile o anche di impensabile. Milan Kundera scrive: «Don Chisciotte è quasi impensabile come essere vivente. Eppure, quale personaggio è più vivo di lui nella nostra memoria?»[15].
Nella Bibbia
Quello che si osserva nel modo di accogliere i personaggi letterari si verifica anche nel caso dei personaggi biblici, se almeno concediamo ad essi la fenomenalità letteraria che richiedono per sé. La presenza insistente dei personaggi della Bibbia è tuttavia ancor più paradossale, perché tali figure sono legate a una forma di presentazione minimalista, come sottolinea Alter:
«Come riesce la Bibbia, nella sua rappresentazione di un personaggio, a evocare un così grande senso di profondità e di complessità ricorrendo a quelli che sembrerebbero strumenti così poveri, persino rudimentali? In fin dei conti, il racconto biblico non offre nulla di simile all’analisi minuziosa dei motivi o all’esposizione dettagliata dei processi mentali dei suoi personaggi. Le indicazioni fornite sui loro sentimenti, sulle loro disposizioni interiori e sulle loro intenzioni sono ridottissime. E ci vengono dati soltanto gli indizi più scarni sulle sembianze esterne, sugli estri e sugli atteggiamenti, sul vestito e l’abbigliamento dei vari personaggi, oltre che sull’ambiente concreto in cui essi operano. In breve, tutte le indicazioni di una personalità sfumata alle quali la letteratura occidentale ci ha abituati — soprattutto nel romanzo, ma con tratti che risalgono in ultima analisi all’epica e allo stesso romanzo greco — sembrerebbero assenti dalla Bibbia. In che termini, quindi, si può spiegare come e perché da questi testi tanto laconici emergano figure quali Rebecca, Giacobbe, Giuseppe, Giuda, Tamar, Mosè, Saul, Davide e Rut, tutti personaggi che, al di là di qualsivoglia ruolo archetipo che essi possono ricoprire come portatori di un mandato divino, sono stati scolpiti come persone singole, vive e indelebili nell’immaginazione di centinaia di generazioni?»[16].
La risposta all’interrogativo di Alter si trova nella «poetica» biblica del personaggio, nell’arte di mettere in primo piano nel racconto alcuni tratti essenziali, creando così prodigiosi secondi piani[17], in modo da coinvolgere continuamente il lettore nella rappresentazione dei protagonisti dell’azione. Ad esempio, nel racconto del sacrificio di Isacco in Genesi 22 il narratore si concentra su alcune parole e su alcuni gesti di Abramo (legati agli oggetti del dramma: la legna, il fuoco, il coltello), costringendo il lettore a ricostruire con l’immaginazione le disposizioni cognitive e affettive del patriarca. Il racconto biblico si trova così agli antipodi del modo greco, che tende a esplicitare l’aspetto visibile e invisibile dei personaggi, come fa anche la letteratura occidentale.
Su un punto tuttavia, che Alter mette in rilievo, la Bibbia si rivela particolarmente moderna: «L’idea biblica […] del personaggio che è sovente imprevedibile, in certo modo impenetrabile, costantemente emergente dalla penombra dell’ambiguità e continuamente pronto a rientrare in essa, di fatto ha più affinità con le nozioni moderne dominanti di quanto non l’abbiano i modi di concepire il personaggio tipici dell’epica greca»[18]. Esplorando il carattere imprevedibile dei personaggi dai pensieri sempre mutevoli, capaci di volgersi al peggio, ma anche al meglio, autori moderni come William Shakespeare, Fëdor Dostoevskij, Joseph Conrad, Virginia Wolf e James Joyce si sono ricollegati con il modo biblico: Abramo ci appare a volte come un gentiluomo, a volte come un codardo; Mosè nel Deuteronomio è diviso tra la sua fedeltà di profeta e il suo contenzioso con Dio che lo ferma alla soglia della terra promessa; Davide, nello stesso capitolo (1 Sam 25), arde di furore prima di essere disarmato grazie all’intervento di Abigail. Scrive Alter: «Se il re Davide, Otello, il capitano Achab, Anna Karenina, Leopold Bloom sono tutti affascinanti, è proprio perché si rivelano alla fine come portatori di qualche cosa di indecifrabile, quando passano attraverso cambiamenti improvvisi, per giri e rigiri in cui si rivelano a se stessi e si nascondono a se stessi, mettendoci in contatto con quello che c’è di misterioso e di imponderabile nella nostra esistenza di esseri umani»[19].
Ecco dunque ciò che ci avvicina a quello che i personaggi della Bibbia hanno come proprio, e che conferisce ad essi quasi un supplemento di concretezza. Il centro del loro essere, e la loro ragion d’essere nel racconto, è di essere «provocati» dalla libertà di Dio, che assegna loro un posto particolare nella storia, che si tratti sia di una chiamata, sia di una missione, di un conflitto, dell’eredità di una promessa o di un’alleanza, o della risposta da dare a una parola o a un comando. James Nohrnberg scrive: «I personaggi della Bibbia non devono il loro carattere al proprio casting come i personaggi principeschi in Shakespeare; né lo devono alle loro abitudini come i peccatori recidivi in Dante; né alle stelle come i tipi terra terra in Chaucer. Essi devono il loro carattere a uno statuto eccezionale che in fin dei conti viene da Dio […], essendo tutti sempre sotto l’influenza dell’elezione al loro ruolo: vocazione, missione, scambio, ufficio o dovere»[20]. Insieme, essi offrono «la mappa dell’azione»[21], la carta dei possibili percorsi dell’azione umana quando quella di Dio s’incontra con la loro e continua a incontrarla. Questo modo di essere incontrati dall’Altro divino conferisce loro un supplemento di realismo, di concretezza e di universalità, tant’è vero che le scelte dell’uomo di fronte a Dio, o contro di lui, o anche dimenticandolo, costituiscono un universale concreto, un’antropologia in atto, in cui ogni uomo può trovare il centro del suo essere. Lo hanno capito i grandi lettori della Bibbia come Agostino di Ippona e Ignazio di Loyola e, in tempi più recenti, Dostoevskij o i registi Andreï Tarkovskij e Krzysztof Kieùlowski. L’ispirazione della Bibbia si sperimenta in modo particolare nel potere rivelatore dei personaggi biblici, delle loro scelte e dei loro percorsi: in essi c’è la testimonianza, per i lettori di ogni età e di ogni tempo, di ciò che avviene in una vita quando incontra Dio.
Davide, l’uomo del segreto
Il personaggio di Davide può servirci come test. Infatti è un po’ eccezionale, data la sua profonda individualità e la sua indomabile determinazione, che sembra raggiungere l’auto-determinazione. Ci sono in lui aspetti shakesperiani: regge da solo? No: ciò che costituisce la molla del suo essere e la sua spinta nella storia è certamente l’unzione che ha ricevuto dalle mani del profeta Samuele nel primo episodio del suo ciclo e che porta con sé come un segreto fino alla sua ascesa al trono (1 Sam 16; 2 Sam 6). Questi capitoli, che presentano il giovane Davide alle prese con il re Saul, fanno gravitare l’uno verso l’altro due personaggi portatori di un segreto. Saul porta il segreto della sua destituzione da parte di Dio (1 Sam 13,14; 15,26.28), rigetto che il re si guarda bene dal divulgare alla corte. Agli occhi degli uomini, e specialmente agli occhi di Davide, Saul è sempre «l’unto del Signore»; Davide, da parte sua, porta il segreto della propria unzione, che è avvenuta nell’intimità della cerchia familiare (1 Sam 16,13).

Marc Chagall, “Re David. Scene dalla Bibbia” (Foto: flickr.com/mazanto).
Siamo così sul piano letterario di Henry James, i cui romanzi — scrive Tzvetan Todorov — sono costruiti di solito attorno a un segreto: «Il segreto del racconto di James è proprio l’esistenza di un segreto essenziale, di un innominato, di una forza assente e strapotente, che mette in movimento tutta la macchina presente del racconto»[22]. Nel corso della sua ascesa Davide ha dovuto nascondere la sua situazione, imitato e assistito in questo dal narratore. Una volta raggiunto il regno, può, senza esitazione, danzare davanti all’arca e rivelare a tutti, in particolare alla sposa Mical, figlia di Saul, l’intimità della sua relazione con colui che lo ha eletto: «[Ho danzato] davanti al Signore, che mi ha scelto invece di tuo padre e di tutta la tua casa, per stabilirmi capo sul popolo del Signore, su Israele; perciò farò festa davanti al Signore» (2 Sam 6,21).
La scelta divina accompagna il percorso di Davide, ed è pure l’iniziativa divina che lo rilancia nel secondo atto della sua storia (2 Sam 7 – 1 Re 2). L’oracolo del profeta Natan, punto di partenza della dinastia davidica (2 Sam 7), impegna Davide in quella che sarà la nuova vicenda, e la più dolorosa, della sua storia, quella della paternità. Preso negli intrighi umani, come pochi altri fra i suoi pari, Davide è però del tutto «biblico»; è costituito cioè dalla scelta di un Altro, che lo conosce meglio degli uomini. Quando gli viene proposta la scelta della prova, Davide si manifesta chiaramente: «Cadiamo nelle mani del Signore, perché la sua misericordia è grande; ma che io non cada nelle mani degli uomini!» (2 Sam 24,14). Attraverso il racconto della sua storia, Davide offre così al lettore come uno specchio per comprendere meglio ciò che Dio chiede all’uomo, tra il segreto di una soggettività nascente e l’appuntamento della paternità.
Il supplemento lirico
I personaggi biblici sono interamente coordinati all’azione, all’intreccio in cui sono implicati, e lo sono più degli eroi dei romanzi moderni dalla psicologia esacerbata, poiché la letteratura antica fa dell’intreccio la via regale del racconto. Ma i personaggi della Bibbia non sfuggono neppure al fenomeno osservato da William J. Harvey: i personaggi «conseguenti» di un racconto tendono a mostrare «un margine supplementare di vita gratuita»[23]. Gli fa eco Price: «Dickens, Tolstoi o Shakespeare creano spesso un tipo di personaggio più ampio e più suggestivo di quanto la sua funzione [nel racconto] sembra richiedere»[24].
Nel racconto biblico si può riconoscere questo spazio supplementare nelle «effusioni» liriche dei personaggi. La riservatezza del narratore biblico, come si è visto, riguarda essenzialmente la vita interiore dei protagonisti dell’azione. Gli interventi dei personaggi nei loro canti poetici sono, in questo senso, eccezioni. Chi non conosce il Canto del mare (Es 15) o quello di Debora (Gdc 5), la preghiera di Giona nel ventre del pesce (Gio 2), il Magnificat di Anna, madre di Samuele (1 Sam 2), e quello di Maria (Lc 2)? Queste effusioni liriche hanno certamente una funzione nell’intreccio; in particolare mettono in luce la trama teologica dell’azione. I figli di Israele cantano: «Chi è come te fra gli dèi, Signore?» (Es 15,11), e Anna fa loro eco: «Non c’è santo come il Signore» (1 Sam 2,2); Maria ribadisce: «Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente» (Lc 1,49). Questi interventi hanno tuttavia un carattere lirico, illustrando ciò che è il lirismo di ogni tempo: «Questo calore del discorso, questo fervore, questo slancio, questo movimento della lingua nel corpo, la voce, il soffio»[25] ci offrono quindi un supplemento di presenza dei personaggi, come pure un’accentuazione della dimensione teologica del loro percorso.
Storiografia e parabola
Ci rimane da considerare un ultimo dato, in un certo senso il più importante. Il buon Samaritano (Lc 10,30-35) e Zaccheo (Lc 19,1-10) sono due personaggi biblici che si trovano sulla stessa strada, quella che collega Gerusalemme a Gerico. Ma si distinguono in questo: l’uno, il Samaritano, nato dall’immaginazione di Gesù nella storia che gli consente di rispondere alla domanda del dottore della legge («Chi è il mio prossimo?», Lc 10,29), è un personaggio di finzione; l’altro, Zaccheo, comparendo in un racconto che intende narrare la storia, appartiene alla storiografia evangelica (cfr Lc 1,1-3). Tale differenza è essenziale e vale per ogni tipo di lettura, in un contesto sia non-biblico sia biblico[26]. Come il dottore della legge ha capito bene che Gesù gli racconta una storia inventata ad hoc, così il lettore della Bibbia sa distinguere tra il carattere di finzione di una «storia» che si presenta come invenzione (una parabola) e il carattere storiografico di un racconto che intende narrare la Storia.
Qui non è questione di «storicità». Stabilire la storicità di avvenimenti narrati è un compito critico che riguarda gli storici, ai quali, del resto, siamo tutti debitori. Qui si tratta di una distinzione più elementare tra «giochi di parole», per parlare come Ludwig Wittgenstein nelle sue Philosophical Investigations: il racconto storiografico è guidato dalla pretesa di raccontare la Storia, sia secondo le vie e i mezzi della storiografia antica, sia secondo le procedure della storiografia moderna[27]; il racconto di finzione si presenta come «storia» inventata e mostra tale qualità in un modo o in un altro[28]. Questa distinzione è antica quanto la letteratura. Jean-Marie Schaeffer afferma che abolire la distinzione tra discorso di finzione e non di finzione, a proposito della letteratura antica, sarebbe offendere la competenza letteraria degli autori e dei lettori antichi[29]: i grandi racconti cosmologici mesopotamici non erano letti come la favola accadica di Tamaris e della Palma da datteri, e l’indagine storiografica di Erodoto (Le Storie) non era letta come le Favole di Esopo.
Il corpo narrativo della Bibbia si presenta essenzialmente come un affresco storiografico: tra il libro della Genesi e i libri dei Re, il racconto intende narrare la storia di Israele e delle nazioni; tra il Vangelo di Matteo e gli Atti degli Apostoli, la storia della venuta del Messia, tra Israele e le nazioni. D’altra parte, questo stesso corpus inserisce nel suo interno brani letterari che sono parabole (in ebraico mashal) o favole immaginate e raccontate da un personaggio, in vista di un effetto retorico: così l’apologo di Iotam, la parabola degli alberi (Gdc 9,8-15), la parabola di Natan («C’erano due uomini nella stessa città, uno ricco e l’altro povero…», 2 Sam 12,1-4), o le parabole di Gesù («C’era un uomo ricco», Lc 16,1).
È interessante notare che un libro biblico è oggetto di un dibattito in questo senso nella tradizione rabbinica. Si tratta del libro di Giobbe, «che nella sua stessa stilizzazione appare chiaramente come una favola filosofica (da cui il detto rabbinico “Non è mai esistita una creatura di nome Giobbe; egli è una parabola” [mashal]»)[30]. Il saggio che nel Talmud difende il carattere parabolico di Giobbe avvicina, del resto, il libro di Giobbe alla parabola di Natan: «Uno dei rabbini che assistevano alle lezioni di R. Samuel b. Nahmani negò l’esistenza di Giobbe; secondo lui, [la storia di] Giobbe è una parabola. R. Samuel gli rispose: “In questo caso, qual è il senso della frase: ‘C’era nella terra di Us un uomo chiamato Giobbe’” (Gb 1,1)? E [la storia]: “Il povero non aveva nulla, se non una sola pecorella piccina” (2 Sam 12,3) [che si apre con ‘C’erano due uomini’] non è forse una semplice parabola? La storia di Giobbe lo è pure»[31].
I personaggi della Bibbia, a qualunque dei due generi appartengano, sono in grado di creare l’intensità di presenza sopra descritta. Giobbe, il figlio prodigo e il buon Samaritano ne sono testimoni (dal lato dei personaggi di finzione), che hanno popolato l’immaginazione degli artisti e dei credenti, e ugualmente lo sono Davide e Maria Maddalena (dal lato dell’affresco storiografico). Tutti questi personaggi sono figure dei «possibili» dell’uomo quando incontra Dio. Ma questo non dovrebbe nascondere il di più qualitativo delle figure della storia: queste ultime dicono che tali possibili, in particolare «i possibili più impossibili» legati all’intervento di Dio, sono avvenuti nell’effettività della Storia, di una storia omogenea alla nostra. Le opere di finzione (o la «poesia», come dice Aristotele) esplorano «fatti che possono accadere. Perciò la poesia è qualche cosa di più filosofico e di più elevato della storia; la poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale, la storia il particolare»[32].
Narrando la Storia attraverso un racconto (letterariamente) ben regolato, la storiografia biblica non fa altro che cogliere i possibili nell’effettività storica. Paul Ricœur scrive: «Solo la storiografia può rivendicare una referenza che si inscrive nell’empiria, nella misura in cui l’intenzionalità storica riguarda avvenimenti che hanno effettivamente avuto luogo»[33]. «I possibili più impossibili» (la nascita di Isacco, la traversata del mare, il perdono al paralitico, la risurrezione di Gesù) sorpresi nell’empiria: ecco la punta del racconto storiografico nella Bibbia. È necessaria tutta l’arte del racconto perché questi «possibili più impossibili» appaiano come tali. Il Gesù di Marco e di Matteo, ad esempio, è, come il suo antenato Davide, colui che avanza sulla scena degli uomini portatore di un segreto, quello dell’unzione messianica ricevuta al battesimo. La dinamica narrativa del personaggio portatore del segreto, che percorre la sua strada in mezzo a oppositori, si è rimessa in cammino. Ma all’arte narrativa si unisce la rivendicazione storiografica, la quale mette in gioco l’autorità del narratore onnisciente (in Genesi-Re, come in Matteo e Marco), quella del narratore-testimone (Gv 19), o quella del narratore che ha raccolto le testimonianze di altri (cfr Lc 1,1-4).
Il proposito dichiarato di raccontare la storia è puntellato da segnali storiografici: «Nei giorni di Giosia il faraone Necao, re d’Egitto, marciò per raggiungere il re di Assiria sul fiume Eufrate» (2 Re 23,29); «In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra» (Lc 2,1). Si accompagna pure con indizi di «empiria», che il lettore può accogliere come tali: ad esempio, il letto di ferro del re Og, che si vede ancora «a Rabbà degli Ammoniti» (Dt 3,11), o le tante annotazioni del Vangelo: «E ordinò loro di farli sedere tutti, a gruppi, sull’erba verde» (Mc 6,39); «I servi e le guardie avevano acceso un fuoco, perché faceva freddo, e si scaldavano; anche Pietro stava con loro e si scaldava» (Gv 18,18); «Era intorno all’ora sesta» (Gv 19,14).
Una stessa arte narrativa, dunque, ma due registri complementari. «C’era un uomo», racconta la parabola (Gb 1,1; cfr 2 Sam 12,1; Lc 16,19); «Ci fu un uomo», rilancia il racconto della storia (Gdc 17,1; 1 Sam 1,1; 1 Sam 9,1; cfr Mc 1,4; Gv 1,6). I personaggi del racconto storiografico della Bibbia non soltanto danno da pensare, come quelli della parabola; ma rendono anche testimonianza all’effettività di Dio, e dei possibili di Dio, in una Storia omogenea alla nostra. In questo senso, e in modo privilegiato, sono i compagni delle nostre scelte: per impegnarsi nell’etica dei comandamenti o nella vita secondo la risurrezione, non basta una proposta di senso; è con un «nugolo di testimoni» (Eb 12,1) che l’offerta divina impegna la libertà del lettore. È forse strano che questi personaggi abbiano una tale presenza, la presenza di «familiari», per riprendere l’espressione cara a Booth?
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[1] R. Alter, L’arte della narrativa biblica, Brescia, Queriniana, 1990, 225.
[2] M. Liverani, Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele, Roma – Bari, Laterza, 2003, VIII-IX.
[3] Cfr ivi, 29-30 e 287-291.
[4] Il fatto di onorare l’imperativo storico-critico nei confronti della Bibbia, rispettando insieme il contratto che essa propone nel suo realismo storiografico, è la sfida posta al lettore moderno. Prendendo atto di questo «grande scarto» epistemologico, rispetteremo in modo particolare l’istanza del racconto in quanto racconto storiografico.
[5] Cfr G. Braulik, «Verweigert die Westkirche den Heiligen des Alten Testaments die liturgische Verehrung?», in Theologie und Philosophie 82 (2007) 1-20.
[6] L’espressione è tratta da S. Germain, Les Personnages, Paris, Gallimard, 2004, 10.
[7] Ivi, 9 s. A. Tabucchi precisa, nella nota che conclude il suo romanzo Sostiene Pereira (Milano, Feltrinelli, 1994, 211): «Il dottor Pereira mi visitò per la prima volta in una sera di settembre 1992. A quell’epoca lui non si chiamava ancora Pereira, non aveva ancora tutti i tratti definiti, era qualcosa di vago, di sfuggente e di sfumato, ma aveva già la voglia di essere protagonista di un libro. Era solo un personaggio in cerca d’autore. Non so perché scelse proprio me per essere raccontato».
[8] M. Price, Forms of Life. Character and Moral Imagination in the Novel, New Haven, Yale University Press, 1983, 58.
[9] Ivi, 57.
[10] A. D. Nuttall, «The Argument about Shakespeare’s Characters», in Critical Quaterly 7 (1966) 113.
[11] T. Pavel, Comment écouter la littérature? Leçons inaugurales du Collège de France, Paris, Fayard, 2006, 33.
[12] Ivi, 33. L’opera citata è W. C. Booth, The Company We Keep. An Ethics of Fiction, Berkeley, University of California Press, 1988.
[13] S. Chatman, Story and Discourse. Narrative Structure in Fiction and Film, Ithaca, Cornell University Press, 1978, 118.
[14] H. Nyssen, Éloge de la lecture, suivi de Lecture d’Albert Cohen, Montréal, Fides, 1996, 22.
[15] M. Kundera, L’arte del romanzo, Milano, Adelphi, 1988, 56.
[16] R. Alter, L’arte della narrativa biblica, cit., 141.
[17] Cfr E. Auerbach, Mimésis. Il realismo nella letteratura occidentale, vol. I, Torino, Einaudi, 1956, 13-14.
[18] R. Alter, L’arte della narrativa biblica, cit., 158.
[19] Id., Pleasures of Reading, New York, Simon and Schuster, 1989, 55. Aggiungiamo con M. Sternberg che la presentazione biblica del personaggio umano deve molto alla concezione di un altro personaggio in chiaroscuro, dal carattere indomabile e misterioso, ma libero dagli indugi e dalle ambiguità umane: il personaggio di Dio (cfr M. Sternberg, The Poetics of Biblical Narrative, Bloomington, Indiana University Press, 1991, 60).
[20] J. C. Nohrnberg, «Princely Characters», in J. P. Rosenblatt – J. C. Sitteron jr (eds), «Not in Heaven». Coherence and Complexity in Biblical Narrative, ivi, 1991, 60.
[21] P. Ricœur, Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, Milano, Jaca Book, 1989, 215.
[22] T. Todorov, Poétique de la prose, Paris, Seuil, 1971, 153.
[23] W. J. Harvey, Characters in the Novel, Ithaca, Cornell University Press, 1968, 188.
[24] M. Price, Forms of Life…, cit., 59.
[25] J.-M. Maulpoix, Du lyrisme, Paris, Corti, 1999, 23.
[26] La distinzione tra finzione e storiografia qui presentata considera quella sviluppata da M. Sternberg, The Poetics of Biblical Narrative, cit., 23-35 (poi ripresa da storici di professione).
[27] Sotto molti aspetti i modi della storiografia antica coincidono con quelli della Bibbia. Ad esempio, Tucidide ed Erodoto non esitavano a mettere sulla bocca dei loro eroi discorsi inventati, che i documenti non garantiscono, ma rendono soltanto plausibili.
[28] È essenziale alla finzione letteraria essere riconosciuta come tale, sia attraverso segnali («C’era una volta un uomo…»), sia con indizi caratteristici (come la ripetizione dell’aggettivo «grande» nella storia di Giona, a proposito della città, del vento, della tempesta o del pesce); questo segnale è offerto oggi dal sottotitolo introduttivo («romanzo», «novella») ora dalla formula del disclaimer: «Ogni somiglianza con persone o situazioni esistenti o che siano esistite è soltanto casuale», a volte rafforzata dall’aggiunta «nonostante l’apparente somiglianza con avvenimenti storici».
[29] Cfr J.-M. Schaeffer, Pourquoi la fiction?, Paris, Seuil, 1999, 151.
[30] R. Alter, L’arte della narrativa biblica, cit., 48.
[31] b. Baba Battra 15 b
[32] Aristotele, Poetica, Roma, Laterza, 1992, 211.
[33] P. Ricœur, Tempo e racconto, Milano, Jaca Book, 1987, 132.