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«La storia di Nabot è antica nel tempo, ma nella realtà è storia di tutti i giorni»[1]: Ambrogio inizia così il racconto del povero Nabot assassinato dal re Acab per impadronirsi della sua vigna. Nabot di Izreèl, Acab di Samaria, sua moglie Gezabele e il profeta Elia sono i personaggi del Primo libro dei Re, dove si narra la vicenda[2]. Sono i protagonisti del tempo passato: il re, potente che tutto possiede, brama anche una piccola vigna che confina con le sue sterminate proprietà; la moglie è l’istigatrice del delitto; c’è poi il povero che ha solo una modesta vigna, ereditata dai padri; e infine il profeta che denuncia l’ingiustizia e scuote le coscienze.
La storia si ripete all’epoca di Ambrogio, nell’allora capitale dell’Impero romano, che va cambiando profondamente e trasformandosi, dove i potenti hanno ricchezze immense che sperperano in modo indegno: non solo in case decorate d’oro e in palazzi ornati di pietre preziose, ma anche in giochi grandiosi per onorare i propri figli, oppure in conviti con centinaia di portate. Il loro sfoggio di ricchezza stride con la povertà e la miseria delle masse.
Qui emerge Ambrogio, il vescovo di Milano, proveniente da una famiglia di origine senatoria, agiata e potente. Da catecumeno era stato prefetto della città e aveva conosciuto bene, di persona, i giochi e gli imbrogli dei ricchi e dei potenti. Divenuto cristiano, aveva devoluto alla Chiesa tutti i beni di proprietà. Il diacono Paolino, il suo biografo, documenta che egli aveva donato anche l’oro e l’argento che possedeva.
Acab e Nabot sono anche personaggi della storia di ogni tempo e di ogni luogo[3], dove il potere diviene prepotenza, e la giustizia ha il volto della corruzione. Nella storia siamo presenti anche noi che non ci accontentiamo di ciò che abbiamo e vogliamo possedere sempre di più a scapito dei poveri e dei meno fortunati. Ma la parola di Dio, su cui si fonda l’opera di Ambrogio, ha una forza inattesa, un valore perenne e risuona attuale ogni volta che si perpetra un’ingiustizia a danno degli ultimi, dei miseri, degli sfruttati, degli affamati.
La storia di Nabot
Ambrogio scrive La storia di Nabot verso la fine del IV secolo[4]. L’episodio biblico deve essere rimasto impresso a fondo nella sua mente, poiché egli vi rinvia in molte opere[5]. Il vescovo cala la sopraffazione di Acab nella particolare situazione sociale, politica e religiosa di Milano, in particolare in una contingenza storica drammatica: egli denuncia, nel Contro Aussenzio, l’ispiratore e fautore della legge del 386 che restituiva libertà e autorevolezza agli ariani. Aussenzio chiedeva anche la consegna della basilica Portiana per il culto ariano. Ambrogio descrive il dramma della sua coscienza, riferendosi all’episodio biblico: «Nabot difese la propria vigna anche con il suo sangue. Se egli non cedette la propria vigna, noi offriremo la chiesa di Cristo? Se quello non consegnò l’eredità dei suoi padri, io consegnerò l’eredità di Cristo? Non avvenga che io consegni l’eredità dei padri!»[6].
Per Ambrogio, Aussenzio è il nuovo re Acab, che vuole spogliare il vescovo, il nuovo povero Nabot, della chiesa che è la sua vigna; e Giustina, la moglie dell’imperatore, è la nuova Gezabele che perseguita il profeta Elia e tenta di ucciderlo. Ma il vescovo si rifiuta di cedere la basilica, e la presidia con un gran numero di fedeli. Giustina, temendo un tumulto di folla, è costretta a riconsegnare la basilica ai fedeli di Ambrogio.
Il testo si compone di poche pagine, ma documenta l’autorevole testimonianza sulla vita della Chiesa. Il vescovo ha a cuore i poveri e quanti sono ingiustamente colpiti e assassinati, perché essi sono la Chiesa di Cristo. Benché Ambrogio si ispiri a Basilio, ad altri autori antichi e ai Padri della Chiesa, nessuno scrittore prima di lui aveva commentato sistematicamente il testo biblico del Primo libro dei Re: segno dell’originalità, ma anche della sensibilità biblica dell’autore.
Il racconto biblico
Il racconto emerge per la sua drammaticità. Il re Acab dovrebbe essere riconoscente al Signore, perché ha ricevuto il suo regno da Dio; inoltre, per intercessione di Elia, ha ottenuto la fine della siccità che stava riducendo tutti alla fame e distruggendo il regno. E invece, non solo non ringrazia Dio, ma si comporta da prepotente verso i sudditi.
Il modo in cui egli si impossessa della vigna di Nabot è quanto mai paradigmatico. Il testo biblico narra: «Nabot possedeva una vigna vicino al palazzo di Acab re di Samaria. Acab disse a Nabot: “Cedimi la tua vigna: ne farò un orto, perché è confinante con la mia casa. Al suo posto ti darò una vigna migliore di quella, o se preferisci, te la pagherò in denaro al prezzo che vale”» (1 Re 21,1-2). Nabot si rifiuta di cedergli la vigna, perché è l’eredità dei suoi padri[7].
Una lettura superficiale della vicenda potrebbe far pensare che Nabot abbia fatto male a non cedere la sua vigna ad Acab, il quale dopotutto non voleva usargli violenza: si trattava di un acquisto, gli offriva l’equivalente in denaro, gli proponeva perfino una vigna migliore. Ma per il povero quella vigna non era semplicemente una proprietà: era il patrimonio ereditario della sua famiglia, e quindi dei suoi padri, un’eredità santa che aveva ricevuto da Dio. Cederla significava venir meno alla vocazione di custode della terra avuta dall’Alto. Di qui la sua recisa risposta al re: «Mi guardi il Signore dal cederti l’eredità dei miei padri» (1 Re 21,3).
Il re è amareggiato per il rifiuto. Gezabele allora prende l’iniziativa e, con un’iniqua strategia, mette su un processo farsa contro Nabot, accusato di aver bestemmiato Dio e il re. Nabot è processato, condannato a morte e lapidato. Il re può finalmente annettersi la sua vigna.
Quando il re prende possesso della vigna, gli va incontro il profeta Elia, che gli annuncia la parola del Signore: «Hai assassinato e ora usurpi! […] Nel luogo ove lambirono il sangue di Nabot, i cani lambiranno anche il tuo sangue» (1 Re 21,19). Acab si pente del suo peccato e fa penitenza per scongiurare la condanna divina. Ma il pentimento non è sincero e il castigo incomberà ugualmente sulla sua famiglia[8].
Una storia infinita
L’episodio di Nabot si ripete continuamente nella storia e nella società. Prendendo spunto dalla vicenda di Acab, Ambrogio si propone un duplice scopo: vuole denunciare e smascherare la cupidigia dei potenti a danno dei poveri; poi vuole persuadere i cristiani del valore relativo delle ricchezze, proponendo un uso dei beni nella società civile in uno spirito di giustizia e di solidarietà.
Per il vescovo di Milano, il personaggio Acab non rappresenta solo un ricco, ma è il simbolo dell’avidità dei ricchi: «Chi tra i ricchi non desidera ogni giorno avidamente i beni altrui? Chi tra i possidenti non tenta di cacciare via il povero dalla sua piccola terra e di distogliere l’indigente dal campo paterno? Chi si accontenta semplicemente del suo? Quale ricco non ambisce nell’animo al possedimento del vicino? Quindi non nacque un solo Acab, ma, quel che è peggio, ogni giorno Acab nasce e in questo modo mai muore. […] Non un solo povero Nabot fu ucciso. Ogni giorno Nabot viene umiliato, ogni giorno calpestato» (1,1).
Con una logica rigorosa, Ambrogio esamina l’animo del ricco e ne evidenzia l’ingordigia: è significativa l’ingiusta pretesa del re bramoso di impossessarsi della vigna di Nabot e la sorte che tocca a un suddito povero, solo per la ventura di avere la propria vigna accanto ai suoi poderi[9]. Quella brama di possesso paradossalmente dice che il ricco è più bisognoso del povero, perché non è mai sazio della ricchezza. Quel «dammi la tua vigna», martellato con insistenza sette volte, rivela «il fuoco della cupidigia» (2,8), ma anche un vuoto interiore che nulla potrà colmare. «Dammi» è il grido del mendicante, di chi confessa di aver bisogno dell’unica cosa di cui è privo. Ambrogio chiosa: «Ciò che è suo, il ricco lo guarda con fastidio, come roba di poco conto, ma quello che è di altri, lo agogna come ciò che vi è di più prezioso, […] perché chi vuole essere padrone di tutto non può accettare che l’altro possieda qualcosa» (2,9-10). Dato che è invidioso dei beni altrui, il ricco è perennemente infelice!
Ma ciò che più sconcerta è la ragione per cui Acab brama la vigna di Nabot: vuole farne un campo di ortaggi. Qui il commento di Ambrogio è sarcastico: «Tutta questa smania mirava a trovare un posto per ortaggi che non costavano nulla! Voi desiderate possedere una cosa non perché è utile, ma perché volete toglierla agli altri» (3,11). Il ricco vuole possedere tutto, vuole avere tutto per sé fino a distruggere l’unico bene del povero.
«Perché pretendete il dominio di tutta la terra?», si chiede Ambrogio. «La terra è stata creata in comunione per tutti, per ricchi e per poveri. […] La natura, che genera tutti poveri, non conosce i ricchi. [Essa] ci mise nudi alla luce, bisognosi di cibo, di coperte, di bevande. […] Quindi la natura […] crea tutti uguali; tutti uguali accoglie nel grembo del sepolcro» (1,2). Per di più, l’opulenza dei ricchi non giova a nulla: nel loro egoismo essi sono incapaci di servirsi dei propri beni, perché pensano ad accumularli; e non permettono ai poveri di usarli, pur avendone bisogno[10].
Inoltre, la perversa avidità rende vuoto il cuore dei ricchi e li separa dal consorzio umano. La loro logica li conduce a un rifiuto totale della società. Essi «rifuggono dall’abitare insieme agli uomini, e perciò cacciano via i primi, ma non riescono a evitarli, perché quando hanno cacciato via i primi ne trovano ancora degli altri. […] È chiaro che non possono abitare essi soli la terra» (3,12).
Sono notevoli gli spunti di carattere economico che Ambrogio ne fa derivare. Innanzitutto, la denuncia dell’accumulare tesori fine a se stesso: «Estraete l’oro dal fondo delle miniere, ma subito lo nascondete», proprio come dice il Sal 39,7: «Accumula ricchezze e non sa chi le raccolga» (4,16). E poi l’assurdo di non saper nemmeno gestire economicamente la produttività della ricchezza, perché dice il vescovo: «L’avaro è sempre messo in difficoltà dall’abbondanza dei prodotti, perché calcola la diminuzione dei prezzi dei generi alimentari. Infatti, l’abbondanza va bene per tutti, la carestia è redditizia solo per l’avaro. A lui fa piacere più l’aumento spropositato dei prezzi che l’abbondanza di viveri sul mercato. […] Guardalo mentre si preoccupa che il mucchio di granaglie salga troppo su e che, traboccando dai granai, si riversi sui poveri, procurando perfino agli indigenti l’occasione di un qualche bene» (7,35).
Ambrogio denuncia pure che l’opulenza del ricco è costruita sulla miseria dei poveri e si alimenta con il loro sangue: essa porta a una morte fisica, quella di chi perde la vita perché lavora per i ricchi, e a una morte spirituale, quella del padre che, per pagare un grosso debito, si trova nella drammatica situazione di dover vendere schiavo un figlio e non sa quale vendere per non far morire gli altri di fame (5,22)[11].
La ricchezza accumulata, lo sfarzo ostentato, la sete del possesso inoltre rivelano l’ansia interiore del ricco e la sua demenza: «Lo sveglia la cupidigia, lo inquieta l’affanno insonne di fruire dei beni altrui. Lo tormenta l’invidia, lo tortura l’indugio. Lo turba l’inefficienza sterile dei profitti, l’abbondanza lo incalza» (6,29). La parabola del ricco insensato (Lc 12,17-19) serva da esempio a chi pensa di aver raggiunto la felicità nella vita: «Si chiama a ragione stolto, perché procura beni corporali alla sua vita e pone in serbo quelle cose che ignora a chi possano servire» (8,38). Questo ricco non sa che lo assedia il tempo della morte in quella stessa notte. Sia di monito a chi ha accumulato troppo e non dà nulla, a chi non sa essere amministratore dei beni ricevuti e non sa restituirli ai proprietari. Egli dovrebbe invitare i miseri e poveri, perché Dio gli ha dato un grande raccolto per essere largo con i poveri, ha fatto nascere e abbondare i campi per la sua bontà (6,32).
Un uso giusto dei beni
«Perché allora usate male le cose buone, mentre dovreste produrre beni dalle cose cattive?» (7,36). Il Signore consiglia: «“Fatevi degli amici con le ricchezze d’iniquità” (Lc 16,9). Sono dunque cose buone per chi sa usarle, per chi non sa usarle diventano giustamente cattive» (7,36). Sono interessanti le osservazioni di Ambrogio sulla proprietà privata e sulla ricchezza: la proprietà non è di per sé un male, e nemmeno un abuso, anzi è legittima. Ma la sua bontà dipende dall’uso che se ne fa. Può diventare un crimine se la si sciupa nel lusso e nella vanità; è invece un bene se con essa si apre il cuore al povero.
Le ricchezze sono un dono di Dio, ma possono diventare un delitto: come sono un ostacolo a fare il bene nei malvagi, così sono virtù in coloro che le usano con giustizia e carità. «Sono buone se le distribuisci ai poveri, se apri i granai della tua giustizia, affinché tu sia pane dei poveri, vita dei bisognosi, occhio dei ciechi, padre dei piccoli orfani» (7,36)[12]. Ambrogio commenta: «Sii un agricoltore spirituale, semina ciò che ti possa giovare, […] la misericordia moltiplicherà i frutti» (7,37).
La seconda parte del trattato è il discorso parenetico: si propone di toccare il cuore del ricco e di aprirlo alla generosità. Per realizzare i loro piani i ricchi vanno anche in chiesa, chiedono l’aiuto di Dio, digiunano perfino. Ma quali sono la preghiera e il digiuno che il Signore gradisce? Sono quelli di chi spezza il pane per l’affamato, di chi conduce in casa i bisognosi senza tetto, di chi manda in libertà gli oppressi, di chi straccia ogni denuncia iniqua (10,45).
Al ricco è detto: non ascoltare il suggerimento della perfida Gezabele, che è l’avarizia, è la cupidigia fatta persona, è l’ideatrice del delitto, è il consiglio fraudolento. Due falsi testimoni, da lei corrotti, accusano di bestemmia Nabot, come nel processo di Susanna nel libro di Daniele (cfr Dn 13,28), e come nel processo di Gesù davanti al sinedrio (cfr Mt 26,65). Ambrogio contrappone al diritto e alle denunce del ricco la legge del Signore, ai falsi testimoni la testimonianza della coscienza (10,45).
L’ipocrisia del ricco
Dopo l’assassinio di Nabot, il re mostra dolore e rammarico, ma, nonostante la tristezza sul volto, si avvia alla vigna del povero e ne prende possesso (11,47). In realtà quel dolore è falso. Perciò la giustizia divina non tarda a farsi sentire mediante il profeta Elia, che smaschera l’ipocrisia del ricco: «“Hai compiuto il male al cospetto del Signore” (1 Re 21,20), perché il Signore abbandona i rei alla colpa, ma non abbandona gli innocenti al potere dei suoi nemici» (12,51). Il male rende schiavi, oscura la verità, cerca di nascondersi, teme la propria coscienza, non è mai sazio; il bene invece rende liberi, apre il cuore al povero, compie le opere della misericordia, moltiplica i suoi frutti: «Ciò che avrai dato al povero gioverà a te. Cresce per te ciò che avrai tolto da te. […] La misericordia si semina sulla terra e germoglia nel cielo. Si pianta nel povero, cresce presso Dio» (12,53).
Il ricco infine è superbo, perché per i beni che possiede ritiene di essere superiore agli altri. Non si insuperbisca di ciò che ha – consiglia Ambrogio –, perché non è nato in modo diverso dal povero. E ricordi che la terra, i beni sono di tutti. Non sono suoi i palazzi, le ricchezze, i cavalli, l’oro, i possedimenti. «Tu sei il custode dei tuoi averi, non il padrone. Tu che sotterri l’oro sei l’amministratore, non l’arbitro. Ma dov’è il tuo tesoro, lì è anche il tuo cuore. Vendi piuttosto l’oro e compra la salvezza. Vendi la pietra preziosa e compra il regno di Dio. Vendi il campo e riscatta per te la vita eterna» (14,58). «Considera che non sei il solo a possedere questi beni. Con te li possiedono le tarme e la ruggine che li consumano. L’avarizia te li diede come tuoi compagni» (14,59). «Se vuoi essere ricco, sii povero secondo il mondo, affinché tu sia ricco per Dio. Il ricco di fede è ricco per Dio; il ricco di misericordia è ricco per Dio; il ricco di sincerità è ricco per Dio; il ricco di sapienza, il ricco di scienza sono ricchi di Dio» (14,60).
Il consiglio finale riprende la parabola del giudizio del Vangelo di Matteo: «Fa’ tuo debitore il Figlio di Dio, che disse: “Ebbi fame e mi deste da mangiare. Ebbi sete e mi deste da bere. Ero pellegrino e mi avete ospitato; nudo e mi avete vestito”. Ciò che infatti sarà dato ai più piccoli egli dice che è stato dato a lui»[13].
«I poveri sono il vero tesoro della Chiesa»
Con la lode a Dio finisce l’opera di Ambrogio. Il Salmo 75 celebra il Signore che protegge Israele dalla potenza degli assiri, simbolo degli uomini posseduti dalle ricchezze. Essi non possiedono i beni, ma ne sono posseduti; non ne sono padroni, ma ne sono schiavi. Il Signore ha sconvolto i disegni degli empi, dei ricchi, dei potenti, dei grandi. Perciò egli riceve la lode dai poveri: perché solo chi è davvero povero loda il Signore nel suo cuore, luogo di pace e di comunione. Il povero infatti è più ricco di fede, più esercitato alla sobrietà (15,63)[14].
La storia di Nabot è dunque una storia che non ha mai fine, è sempre attuale. Una storia di avidità e di soprusi, di false accuse e di omicidi, di rapine e di ingiustizie, ma anche una storia di onestà e di verità, di fedeltà alla tradizione dei padri e di passione per la giustizia e per la verità, segnata dal martirio.
Lo scopo del libro è chiaro: la ricchezza, unita all’avarizia, costituisce la vera miseria dell’uomo. Ambrogio proclama che la terra è di Dio e il Signore l’ha donata a tutti. Nessuno può possederla come propria, nessuno ne è padrone: siamo tutti amministratori di quanto ci è stato affidato, e della nostra amministrazione dovremo rendere conto. Pochi sono gli scrittori ecclesiastici che sul problema della ricchezza hanno formulato una dottrina così audace e inquietante, ma rivelatrice della radicalità del Vangelo.
Ambrogio è stato sempre difensore dei poveri e, in caso di necessità, non ha esitato a vendere le ricchezze della Chiesa per aiutare chi viveva nella miseria. Per lui i beni della Chiesa erano patrimonio dei poveri. Anzi, egli amava dire: «I poveri sono il vero tesoro della Chiesa»[15].
La predilezione per i poveri
Sedici secoli dopo Ambrogio, papa Francesco ha ricordato l’antica vicenda nelle omelie della cappella di Santa Marta, commentando la liturgia della Parola in cui compariva 1 Re 21. Egli riprende le medesime parole del vescovo di Milano: «[La storia di Nabot] si ripete continuamente in tante persone che hanno potere, potere materiale, potere politico o potere spirituale. Ma questo è un peccato: è il peccato della corruzione». E come si corrompe una persona? «Si corrompe sulla strada della propria sicurezza. Primo il benessere, i soldi, poi il potere, la vanità, l’orgoglio, e di là tutto: anche uccidere». Il Papa continua: «È la tentazione di ogni giorno, nella quale può cadere un politico, un imprenditore, un prelato»[16].
«Ma chi paga la corruzione?», egli si chiede. «La corruzione la paga il povero! […] L’ha pagata Nabot, il povero uomo fedele alla sua tradizione, fedele ai suoi valori, fedele all’eredità ricevuta da suo padre»[17]. La pagano i poveri di oggi. Nabot è il primo dei tanti «martiri della corruzione».
Il Papa si è poi soffermato in modo particolare sulla corruzione nel mondo ecclesiastico, perché anche qui essa è drammaticamente presente: «Chi paga la corruzione di un prelato? La pagano i bambini, che non sanno farsi il segno della croce, che non sanno la catechesi, che non sono curati; la pagano gli ammalati che non sono visitati; la pagano i carcerati che non hanno attenzioni spirituali»[18]. In definitiva, a pagare la corruzione sono sempre i poveri, i poveri materiali e i poveri spirituali, i poveri che perdono i valori e sono defraudati della qualità della loro vita.
Il Papa indica anche il modo per uscire dalla corruzione, rinviando alla confessione del santo David: «Ho peccato». E piangeva, e faceva penitenza; e si pentiva. Ma aggiunge anche l’esempio evangelico di Zaccheo: «Ho rubato, Signore. Restituirò quattro volte quello che ho rubato»[19].
Papa Francesco, riferendosi al commento di Ambrogio, ha usato le sue stesse parole. La storia si ripete nuovamente anche oggi. Ma come il vescovo di Milano, egli ricorda che la via della salvezza è la predilezione per i poveri, per i piccoli, per i «martiri della corruzione». Un invito per tutti alla conversione del cuore e a pregare per i potenti e per i corrotti[20].
Nell’enciclica Laudato si’ il Papa ha riformulato acutamente la situazione del re Acab, riferendola al nostro tempo: «La situazione attuale del mondo “provoca un senso di precarietà e di insicurezza, che a sua volta favorisce forme di egoismo collettivo”. Quando le persone diventano autoreferenziali e si isolano nella loro coscienza, accrescono la propria avidità. Più il cuore della persona è vuoto, più ha bisogno di oggetti da comprare, possedere e consumare. In tale contesto non sembra possibile che qualcuno accetti che la realtà gli ponga un limite. In questo orizzonte non esiste nemmeno un vero bene comune»[21].
Papa Francesco è ritornato recentemente sulla storia di Nabot. Essa «è paradigmatica di tanti martiri della storia. È paradigmatica del martirio di Gesù; è paradigmatica del martirio di Stefano; è paradigmatica pure, nell’Antico Testamento, di Susanna; è paradigmatica di tanti martiri che sono condannati grazie a una messa in scena calunniosa»[22]. Ma «questa storia è anche paradigmatica del modo di procedere nella società di tanta gente, di tanti capi di Stato o di governo: comunicano una bugia, una calunnia e, dopo aver distrutto sia una persona sia una situazione con quella calunnia, giudicano quella distruzione e condannano. Anche oggi, in tanti Paesi si usa questo metodo: distruggere la libera comunicazione»[23].
Poi Francesco ha concluso affermando che «il giusto Nabot […] voleva soltanto una cosa: essere fedele all’eredità dei suoi antenati, non vendere l’eredità, non vendere la storia, non vendere la verità», perché «l’eredità era oltre quella vigna: l’eredità del cuore non si vende»[24].
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[1]. Ambrogio, s., De Nabutae 1,1 CSEL 32/2, Vienna – Praga – Lipsia ecc., 1897, 469-516; Id., Il prepotente e il povero. La vigna di Nabot, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2013; Id., La vigna di Naboth, a cura di M. G. Mara, Bologna, EDB, 2015. Le citazioni tra parentesi rinviano al testo: il primo numero indica il capitolo, l’altro il paragrafo.
[2]. Cfr 1 Re 21,1-28. L’episodio fa parte del ciclo di Elia, un momento cruciale della storia di Israele, dove il profeta richiama la fedeltà all’alleanza, compromessa dal politeismo, che penetra nella vita del popolo, e dalla nuova economia, che favorisce la circolazione del denaro e il commercio dei beni, sradicando la struttura dell’economia familiare e rovinando i più poveri.
[3]. Il protagonista del romanzo di Herman Melville Moby Dick (1851) si chiama proprio Acab: spinto da un desiderio smodato di potenza, il capitano si confronta con la forza misteriosa della balena bianca, trascinando con sé alla rovina l’intero equipaggio. Si salva solo Ismael, il personaggio umile della ciurma, che rispetta il mistero.
[4]. Ambrogio, s., La storia di Nabot di Jezrael, Brescia, Morcelliana, 1952; Id., Opera omnia. VI. Elia e il digiuno, Naboth, Tobia, Milano – Roma, Biblioteca Ambrosiana – Città Nuova, 1985; G. De Simone, La miseria del ricco. Esegesi biblica e pensiero sociale nella «Storia di Naboth» di Ambrogio, Catanzaro, Ursini, 2003.
[5]. Ambrogio, s., La storia di Naboth, L’Aquila, Japadre, 1975, 29-34; Id., La vigna di Naboth, a cura di M. G. Mara, cit., 38-44.
[6]. Id., Contra Auxentium 17: PL 16, 1012B.
[7]. La legge mosaica vuole che la proprietà terriera non esca dalla famiglia: «Nessuna eredità passi da una tribù all’altra, ma ciascuno degli Israeliti si terrà vincolato all’eredità della tribù dei suoi padri» (Nm 36,7.9). L’introduzione della monarchia in Israele porta a una nuova economia commerciale, che distrugge quella basata sui possessi territoriali legati alla tribù originaria.
[8]. Per la vicenda di Acab nell’Antico Testamento, si veda il volume di V. Anselmo, Fece ciò che è male agli occhi di Yhwh. La figura narrativa di Acab in 1 Re, Roma, Gregorian & Biblical Press, 2018.
[9]. Il latifondismo del tempo di Ambrogio e il contrasto tra la ricchezza di pochi e la povertà di tutti creavano una disparità che poteva portare all’assurdo. Per esempio, è noto che Simmaco, il senatore che aiutò il giovane Agostino a conquistare la cattedra di retore a Milano per contrastare la fama di Ambrogio, a Roma aveva tre palazzi, tre ville in periferia e altre nei fondi agricoli a Laurento, Napoli, Pozzuoli e Cuma; anche la famiglia di Ambrogio possedeva un palazzo a Roma e diverse proprietà in Sicilia. Il potere dei latifondisti era tale da costringere i proprietari dei piccoli terreni a cedere il loro possesso in cambio di protezione. Per capire il dramma, non si devono dimenticare le lotte dinastiche e le invasioni barbariche che completano tristemente il quadro (cfr V. Paglia, Storia della povertà. La rivoluzione della carità dalle radici del cristianesimo alla Chiesa di papa Francesco, Milano, Rizzoli, 2014, 156).
[10]. «O ricchi, strappate ai poveri ogni cosa, togliete tutto. Non lasciate nulla. […] I poveri infatti non hanno beni da usare. Voi stessi non ne usate, né permettete agli altri di usarne» (4,16).
[11]. Ambrogio riprende una pagina di Basilio; cfr l’omelia In illud dictum, Destruam: PG 31, 268 C – 269 A.
[12]. Nel commento al Vangelo di Luca, Ambrogio fa una riflessione attuale: «Non si possono cacciare via tutti i banchieri [nummularii, che includono pure i cambiavalute], ce ne sono anche di buoni» (Exp. Ev. sec. Lucam 9,18).
[13]. Mt 25,35-36.40; Ambrogio, s., La storia di Nabot, 14,59.
[14]. Il concetto appartiene alla diatriba stoica: cfr Seneca, De vita beata, 22 e 26; Valerio Massimo, Dictorum factorumque memorabilia libri IX 9,4 ext. 1.
[15]. Cfr V. Paglia, Storia della povertà…, cit., 156.
[16]. Francesco, Omelia del 16 giugno 2014, in http://w2.vatican.va
[17]. Ivi.
[18]. Ivi.
[19]. Id., Omelia del 17 giugno 2014, in http://w2.vatican.va
[20]. Papa Francesco, durante gli Esercizi spirituali della Curia nella Quaresima del 2014, ha proposto la lettura del testo di Ambrogio La storia di Nabot, una storia infinita. Cfr B. Secondin, Profeti del Dio vivente. In cammino con Elia, Padova – Città del Vaticano, Messaggero – Libr. Ed. Vaticana, 2015, 107-116.
[21]. Francesco, Lettera enciclica Laudato si’, n. 204. La citazione iniziale è di Giovanni Paolo II, «Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1990», n. 1, in Acta Apostolicae Sedis 82 (1990) 147.
[22]. Cfr «Le dittature manipolano la comunicazione», in Oss. Rom., 18-19 giugno 2018, 8.
[23]. Ivi.
[24]. Ivi.
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THE PREPOTENT KING AND POOR NABOTH: AN INFINITE HISTORY
“The history of Naboth is as old as time, but it is also the story of today”: This is the way Ambrose begins the story of poor Naboth who was assassinated by King Ahab to take possession of his vineyard. The episode in the First Book of the Kings depicts King Ahab’s greed, who owns everything, and even wants Naboth’s small piece of land. But he cannot give it away, because it is his family’s holy heritage, given as a gift from God. Hence the false process and the stoning of poor Naboth. Biblical history is an infinite story: then and now. Ambrose refers to the latifundism in Milan at the end of the fourth century. The episode was taken up by Pope Francis, who in the homilies of Saint Marta and during a course of annual Exercises of the Curia, has repeatedly suggested the very current reading of Ambrose.