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Il prossimo 6 luglio le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si pronunceranno sulla questione della esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche delle scuole pubbliche italiane. Occorre dire subito che la questione – che muove da un caso particolare – non va posta in termini generali di «sì o no al crocifisso», quanto piuttosto di delicato bilanciamento fra i diversi aspetti della libertà religiosa.
La questione del crocifisso è stata oggetto di dibattiti e riflessioni già da molti anni e se ne è parlato ampiamente in passato su questa rivista[1]. Evidentemente ciò è collegato al profondo cambiamento culturale in atto, alla diminuzione della diffusione – in passato assai prevalente – della fede cristiana nella società italiana, all’accresciuto pluralismo delle posizioni religiose, filosofiche, ideologiche, e all’adeguamento di comportamenti e normative alla nuova situazione e alla maggiore sensibilità sul tema dei diritti umani. Bisogna essere consapevoli che non solo in Italia, ma in tutta Europa, e si può dire in tutto il mondo, il tema dell’esposizione dei simboli religiosi – non solo cristiani, ma ovviamente anche delle altre religioni – è divenuto di grande attualità negli anni recenti, sia per quanto riguarda quelli presenti negli edifici pubblici, sia per quanto riguarda quelli personali visibili e indossati in spazi pubblici o di lavoro. Corti di ogni livello, anche internazionali o sovranazionali, se ne stanno occupando.
Discussioni e sentenze sul crocifisso nelle aule scolastiche
Ripercorriamo brevemente le tappe principali delle due vicende di maggiore risonanza relative al crocifisso in Italia, limitandoci, per semplicità, alla scuola, anche se la questione è stata pure sollevata a proposito delle aule giudiziarie e dei seggi elettorali.
Nel 2002 una signora italiana di origine finlandese, Soile Lautsi Albertin, presentò un ricorso al Tar del Veneto contro la delibera con la quale il Consiglio di Istituto della scuola «Vittorino da Feltre» di Abano Terme (Pd), frequentata da due suoi figli minorenni, aveva respinto la proposta, da lei presentata, di «escludere tutte le immagini e i simboli di carattere religioso negli ambienti scolastici in ossequio al principio della laicità dello Stato». Il Tar sospese il giudizio e rimise alla Corte Costituzionale la valutazione della legittimità delle norme in forza delle quali il crocifisso era presente nella aule scolastiche. La Corte Costituzionale dichiarò inammissibile tale richiesta, poiché si trattava di norme regolamentari e non legislative e quindi non sottoponibili alla valutazione di legittimità costituzionale. Il Tar nel 2005 rigettò il ricorso della signora Lautsi. Questa si rivolse al Consiglio di Stato, che il 13 gennaio 2006 giudicò a sua volta infondato il ricorso. La signora Lautsi si rivolse quindi alla Corte europea dei diritti dell’uomo[2]. Il 3 novembre 2009 una Camera della Corte emise una sentenza favorevole alla ricorrente. La sentenza suscitò molte discussioni e reazioni. Il governo italiano ricorse – e fu in ciò appoggiato da diversi altri Stati europei in misura fino allora mai avvenuta e da diverse organizzazioni non governative –, chiedendo di fare esaminare il caso dalla Grande Chambre, l’organismo della Corte europea di livello più elevato, composto da 17 giudici, invece che da 7 come nelle Sezioni normali. Ciò avvenne il 18 marzo 2011, e la nuova sentenza, con il consenso di ben 15 giudici contro 2, ribaltò nettamente la prima. Si trattò di un cambiamento di orientamento clamoroso.
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In tale occasione, in qualità di Direttore della Sala Stampa della Santa Sede, rilasciammo la seguente dichiarazione: «Si riconosce […], ad un livello giuridico autorevolissimo ed internazionale, che la cultura dei diritti dell’uomo non deve essere posta in contraddizione con i fondamenti religiosi della civiltà europea, a cui il cristianesimo ha dato un contributo essenziale. Si riconosce inoltre che, secondo il principio di sussidiarietà, è doveroso garantire ad ogni Paese un margine di apprezzamento quanto al valore dei simboli religiosi nella propria storia culturale e identità nazionale, e quanto al luogo della loro esposizione […]. In caso contrario, in nome della libertà religiosa si tenderebbe paradossalmente invece a limitare o persino a negare questa libertà, finendo per escluderne dallo spazio pubblico ogni espressione. E così facendo si violerebbe la libertà stessa, oscurando le specifiche e legittime identità. La Corte dice quindi che l’esposizione del crocifisso non è indottrinamento, ma espressione dell’identità culturale e religiosa dei Paesi di tradizione cristiana. La nuova sentenza della Grande Chambre è benvenuta anche perché contribuisce a ristabilire la fiducia nella Corte Europea dei diritti dell’uomo da parte di una gran parte degli europei, convinti e consapevoli del ruolo determinante dei valori cristiani nella loro propria storia, ma anche nella costruzione unitaria europea e nella sua cultura di diritto e di libertà»[3]. Ma l’«assoluzione» del governo italiano lasciava aperta la questione della sua esposizione o meno nell’ambito dei diversi ordinamenti degli Stati europei.
La questione è stata risollevata sotto un diverso profilo – appunto in Italia – da un altro procedimento. Questa volta non si trattava di genitori e alunni, ma di un insegnante, il prof. Franco Coppoli, allora docente dell’Istituto professionale di Stato «Alessandro Casagrande» di Terni, che nel febbraio del 2009 era stato sanzionato con sospensione di 30 giorni dall’Ufficio Scolastico Provinciale perché aveva sistematicamente rimosso, durante le sue lezioni, un crocifisso, la cui esposizione era stata decisa dall’assemblea degli studenti. Coppoli invocava per questo suo comportamento le libertà di insegnamento e di coscienza in materia religiosa, ma aveva altresì proferito frasi ingiuriose nei confronti del dirigente scolastico che pretendeva il rispetto delle disposizioni conformi al deliberato dell’assemblea di classe. Il Tribunale di Terni, nel 2009, aveva ritenuto legittima la sanzione disciplinare ed escluso il carattere discriminatorio attribuito da Coppoli al comportamento del dirigente. La Corte d’Appello di Perugia, nel 2014, aveva respinto il ricorso presentato da Coppoli contro la sentenza del Tribunale. Nel 2015 Coppoli ha quindi presentato ricorso in Cassazione. La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, esaminato il ricorso di Coppoli e le difese del Ministero (Miur) e dell’Istituto «Casagrande», data la complessità e la «particolare importanza» della problematica, nel luglio del 2020 ha ritenuto opportuno trasmettere gli atti al Primo Presidente della Corte per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite dell’esame del caso. È ciò che avverrà appunto all’inizio del prossimo mese di luglio.
Nelle riflessioni svolte dalla Sezione Lavoro vengono tenute presenti le diverse sentenze delle varie Corti sulla esposizione del crocifisso e gli argomenti da esse addotti, e si conclude che la questione della libertà del docente e della sua autotutela merita un ulteriore approfondimento nel complesso e delicato quadro d’insieme dell’argomento, per cercare un opportuno bilanciamento di tutti gli aspetti e valori in gioco. Mentre attendiamo con vivo interesse il risultato del nuovo esame della Corte, raccogliamo e proponiamo alcune considerazioni che riteniamo meritevoli di attenzione.
«Muri bianchi» e «neutralità»
Joseph H. H. Weiler, un giurista assai noto a livello internazionale, non cattolico ma ebreo credente[4], osserva anzitutto che la libertà religiosa comprende due aspetti: quello positivo, di vivere ed esprimere la propria religione, e quello negativo, di non subire coercizione in materia religiosa. E aggiunge: «In materia di simboli religiosi all’interno di spazi pubblici c’è una tensione strutturale tra libertà religiosa positiva e negativa: o si realizza pienamente la libertà religiosa del credente e si offende il laico; oppure si realizza interamente la libertà dalla religione del laico, offendendo così il credente. Il caso all’esame della Cassazione non è semplice, perché realizzare in modo pieno la libertà religiosa di una persona rischia di porre in pericolo la libertà dalla religione di un’altra persona, e viceversa»[5].
Molti ritengono che la tensione possa essere e vada superata grazie all’assenza completa di simboli religiosi dalle aule scolastiche, pensando che solo così si verifichi una vera «neutralità», che venga incontro alle esigenze delle diverse parti. Weiler mette in guardia da questa idea e sostiene che invece il «muro bianco» in realtà non è «neutrale», o almeno non lo è di più dell’esposizione del crocifisso. Per farlo capire, ricorre a un gustoso esempio: «Marco e Leonardo sono amici e si apprestano a iniziare ad andare a scuola. Leonardo va a trovare Marco a casa per la prima volta. Entra e nota un crocifisso sulla parete dell’ingresso. “Che cos’è?”, domanda. “Un crocifisso. Perché, tu non ce l’hai? Ogni casa dovrebbe averlo”. Leonardo ritorna a casa agitato. Sua madre con pazienza gli spiega: “Sono cattolici credenti. Noi rispettiamo loro e le loro credenze. Ma noi facciamo diversamente. Noi seguiamo le nostre convinzioni”. È una visione laica del mondo quella che la signora vuole insegnare ai suoi figli. Ora immaginiamo una visita di Marco a casa di Leonardo. “Wow – esclama –, nessun crocifisso? Una parete vuota?”. Ritorna a casa agitato. “Beh – spiega la madre –, sono una famiglia splendida, buoni, gentili e caritatevoli. Ma non condividono la nostra fede nel Salvatore. Noi li rispettiamo”. “Quindi possiamo togliere il nostro crocifisso?”. “Certo che no. Li rispettiamo, ma per noi è impensabile avere una casa senza crocifisso”. Il giorno seguente i due bambini vanno a scuola, per la prima volta. È una giornata emozionante. Immaginate che trovino una scuola col crocifisso. Leonardo ritorna a casa agitato: “La scuola è come casa di Marco. Sei sicura, mamma, che va bene non avere un crocifisso?”. È questa la sostanza della rimostranza della signora Lautsi. Ma immaginate anche che il primo giorno le pareti della scuola siano spoglie. Marco ritorna a casa agitato. “La scuola è come casa di Leonardo – grida –. Vedi, mamma, te lo avevo detto che non ci serve”. In sintesi: si pensi a due famiglie, una molto cattolica e l’altra molto laica. La famiglia cattolica ritiene che debba esserci un crocifisso in qualsiasi stanza, in ospedale come a scuola o a casa. La famiglia laica si opporrà al crocifisso, considerando la sua presenza una violazione della propria libertà di coscienza. Non esporre il crocifisso dà soddisfazione alle aspirazioni della famiglia laica, ma non è una scelta neutrale».
Nel suo intervento alla Grande Chambre, dove difendeva la legittimità dell’esposizione «italiana» del crocifisso, dopo questo apologo Weiler continuava: «Ancora più allarmante sarebbe una situazione in cui i crocifissi, che stavano sempre là sul muro, di colpo venissero rimossi. Non fate questo errore. Un muro denudato per mandato statale può suggerire agli alunni che lo Stato sta prendendo un atteggiamento antireligioso». E concludeva osservando che nei diversi contesti sono i programmi svolti in classe che devono insegnare ai bambini e ai ragazzi la tolleranza e il pluralismo, tanto in Francia dove non ci sono simboli religiosi esposti, quanto in Italia dove ci sono[6].
Commentando la sentenza della Corte di Strasburgo, Weiler mette in rilievo come essa abbia stabilito che, alla luce della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, «sono legittime tanto la disciplina francese, che proibisce l’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici, quanto quella italiana, che prevede invece la sua ostensione. Si tratta di due scelte legittime e uguali dal punto di vista della neutralità, nel senso che nessuna delle due è neutrale». Ma «né la scelta francese viola i diritti fondamentali alla libertà religiosa e alla libertà dalla religione, né li viola la scelta italiana». La Convenzione europea contempera infatti la decisa garanzia della libertà religiosa, in senso sia positivo sia negativo, con una grande libertà degli Stati membri quanto alla religione e all’eredità religiosa nell’identità collettiva della nazione e nella simbologia dello Stato. In Europa esiste una straordinaria varietà di relazioni fra Stato e Chiesa e anche questo fa parte dell’eredità di pluralismo, diversità e tolleranza che costituisce una caratteristica fondamentale e da salvaguardare di questo Continente.
A proposito del significato del crocifisso nella scuola italiana
Non bisogna peraltro trascurare che, nel giungere alla sua conclusione nella sentenza sul crocifisso, è decisivo che la Corte lo abbia ritenuto un «simbolo passivo», a cui non si chiede di mostrare qualche forma di riverenza, cosa che effettivamente costituirebbe una coercizione in materia religiosa, e che abbia messo in rilievo che la ostensione del crocifisso debba essere «relativizzata», cioè inserita in un contesto complessivo di insegnamento dei valori della tolleranza e del rispetto per le diverse convinzioni. Inoltre è da notare che la Corte europea non ha ritenuto suo compito entrare in una riflessione sul significato o sui significati del simbolo del crocifisso e quindi delle ragioni che ne giustificano l’ostensione negli spazi pubblici, lasciando ciò alle istituzioni dei diversi Paesi.
Nelle sentenze italiane in merito sono stati messi in rilievo aspetti differenti, talora vi sono stati anche accenti discordanti. Ovviamente, a nostro avviso, è importante saper cogliere il rapporto positivo tra il significato cristiano del crocifisso e i valori fondamentali della società italiana, al cui rispetto e alla cui assimilazione la scuola deve formare. Ciò si riscontra, ad esempio, nella motivazione della sentenza del Tar del Veneto del 17 marzo 2005: «Si può sostenere che, nell’attuale realtà sociale, il crocifisso debba essere considerato non solo come simbolo di un’evoluzione storica e culturale, e quindi dell’identità del nostro popolo, ma quale simbolo altresì di un sistema di valori di libertà, eguaglianza, dignità umana e tolleranza religiosa e quindi anche della laicità dello Stato, principi questi che innervano la nostra Carta costituzionale. In altri termini, i principi costituzionali di libertà hanno molte radici, e una di queste indubbiamente è il cristianesimo, nella sua stessa essenza. Sarebbe quindi sottilmente paradossale escludere un segno cristiano da una struttura pubblica in nome di una laicità, che ha sicuramente una delle sue fonti lontane proprio nella religione cristiana. […] Doverosamente va rilevato che il simbolo del crocifisso, così inteso, assume oggi, con il richiamo ai valori di tolleranza, una valenza particolare nella considerazione che la scuola pubblica italiana risulta attualmente frequentata da numerosi allievi extracomunitari, ai quali risulta piuttosto importante trasmettere quei principi di apertura alla diversità e di rifiuto di ogni integralismo – religioso o laico che sia – che impregnano di sé il nostro ordinamento. Viviamo in un momento di tumultuoso incontro con altre culture e, per evitare che esso si trasformi in scontro, è indispensabile riaffermare anche simbolicamente la nostra identità, tanto più che essa si caratterizza proprio per i valori di rispetto per la dignità di ogni essere umano e di universalismo solidale». In direzione simile si esprime la motivazione della sentenza del Consiglio di Stato del 13 aprile del 2006.
La ricerca di un «accomodamento ragionevole»
Ma, come si è detto, anche queste sentenze e motivazioni non risolvono definitivamente i problemi. In Italia non vi è una normativa che obblighi ogni scuola pubblica superiore a esporre il crocifisso, né che lo proibisca. Come fare dunque per affrontare la ricerca di soluzione dei problemi e delle tensioni? Lo stesso Weiler suggerisce di riprendere le considerazioni di Marta Cartabia, già presidente della Corte Costituzionale italiana e ora ministro della Giustizia, che ha studiato più volte questi problemi, proponendo l’approccio dell’«accomodamento ragionevole», cioè di mirare a soluzioni intermedie che evitino le contrapposizioni e tendano ad accontentare le diverse parti nella misura del possibile[7]. La Cartabia concorda con Weiler nel ritenere che la «neutralità» dello Stato di fronte al fenomeno religioso, intesa nel senso della laicité alla francese, si sia dimostrata nell’esperienza storica «insufficiente e illusoria, poiché nei fatti non è in grado né di comporre i conflitti che attraversano le società frammentate e plurali, né di fornire soluzioni rispettose ad un tempo dei diritti dei credenti e dei non-credenti». Adduce due ragioni. Anzitutto, «l’approccio neutrale al fenomeno religioso in realtà genera un impatto differente sui diversi gruppi e, di conseguenza, produce effetti discriminatori». In secondo luogo, «sebbene sia avanzata come un fattore di promozione in uno spazio aperto a tutti, di fatto la “legislazione neutrale” è ancora una volta il prodotto della cultura dominante; anzi, talora può generare effetti, intenzionali o meno, non diversi da quelli prodotti a suo tempo dallo Stato confessionale». Appoggiandosi a diversi autori, la Cartabia afferma che «l’approccio neutrale applicato ai simboli religiosi personali semplicemente non può funzionare, perché comporta un’indebita restrizione alla libertà religiosa. In effetti, il problema di una neutralità secolare rigorosa è che diventa inospitale per i credenti». Aggiunge che «altri hanno sottolineato che la neutralità in ambito religioso, di fatto, avvantaggia una delle visioni in competizione, precisamente quella che fa a meno di Dio».
La Cartabia tende perciò decisamente a cercare le soluzioni non sulla linea di nuove contrapposizioni, ma su quella del loro superamento dialogante e costruttivo. Pur riconoscendo che in casi estremi di conflitto tra affermazioni di diritti e convinzioni religiose può essere necessario ricorrere a esenzioni e obiezioni di coscienza, fa presente che questi strumenti vanno usati con cautela perché hanno ricadute negative: ad esempio, «alimentano la convinzione che la religione non sia compatibile con le democrazie liberali fondate sui diritti umani e sui principi antidiscriminazione», o «pongono il gruppo minoritario che ne beneficia in una condizione di separazione». Insomma, essi «devono rimanere possibilità di estremo rimedio, da applicare quando tutte le altre strade hanno fallito, ma non possono divenire il metodo ordinario di affrontare il dissenso». Invece – benché meno nota –, si dovrebbe valorizzare la linea dei «tentativi che varie Corti nel mondo stanno sperimentando per contrastare il clima di scontro, frammentazione, sospetto e sfiducia, che separa credenti e non credenti, nella ricerca di modalità di risoluzione delle tensioni che favoriscano un clima di costruzione, di comune appartenenza, di connessione e di coesione». La Cartabia cita le Corti tedesca, del Sudafrica e del Canada, che tendono a chiedere alle parti in conflitto di non spingere all’estremo le loro richieste di riconoscimento dei diritti, e aggiunge che «la stessa Corte Costituzionale italiana ha testualmente affermato che quando i diritti sono affermati in modo assoluto essi divengono “tiranni”, perciò occorre sempre procedere al loro reciproco bilanciamento (Sentenza n. 85 del 2013)».
Un esempio originale della creatività positiva nella ricerca dell’«accomodamento ragionevole» è stato sperimentato con pieno successo in Canada, dove al giovane sikh che si considera obbligato a portare con sé il pugnale rituale anche in classe questo non viene impedito, ma gli viene richiesto di tenerlo cucito all’interno della giacca, così da renderlo sicuramente innocuo. In conclusione, l’approccio proposto viene così descritto dalla Cartabia: «Tutti devono concedere qualcosa, ma nessuno deve “consegnarsi” totalmente o capitolare. L’accomodamento ragionevole si basa sull’idea che tutti vogliono vivere insieme: non è il risultato di un ragionamento a tavolino, ma può funzionare solo nella pratica, in un rapporto faccia a faccia. Esso richiede che si prendano in considerazione i dettagli specifici delle circostanze e l’atteggiamento delle parti. L’accomodamento ragionevole si basa sulla cooperazione e sulla presenza di un terzo imparziale che facilita la conciliazione delle posizioni in contrasto e aiuta a trovare un terreno comune. Non si sottolineerà mai abbastanza la potenza che l’incontro delle persone genera per congiungere tra loro mondi diversi. L’accomodamento ragionevole non è il regno degli assoluti, ma si esprime con parole come “bilanciamento, flessibilità, ragionevolezza” e, per dirla con Pierre Bosset, richiede “immaginazione pratica”. Per queste ragioni, l’accomodamento ragionevole non coincide con l’esenzione: dove l’esenzione è un approccio che si basa sull’aut aut, l’accomodamento fa leva sull’et et; dove l’esenzione tiene i gruppi a distanza tra loro, l’accomodamento unisce le persone; se l’esenzione può essere stabilita per legge, l’accomodamento richiede esercizio pratico e non può essere trattato come un modello da replicare, ma come una strada da percorrere ogni volta di nuovo».
Tornando al caso concreto discusso dalla Cassazione, Weiler fa notare che, a suo avviso, il dirigente scolastico si era mosso su una linea di accomodamento ragionevole, in base all’esposizione del crocifisso scelta (o meno) dalla maggioranza degli studenti, che in fondo è la stessa linea che è stata scelta dalla Corte Costituzionale federale tedesca. In ogni caso, qualunque sia la scelta compiuta dagli studenti (positiva o negativa), il sistema educativo è tenuto a bilanciare le conseguenze dell’una o dell’altra, insegnando il rispetto, sia dei non credenti sia dei credenti.
Quanto poi al fatto se il docente non credente a cui si chiede di insegnare in un’aula col crocifisso sia di fatto discriminato, Weiler lo nega, facendo notare che il caso è simmetrico a quello di un credente (o un sacerdote) a cui si chieda di insegnare in un’aula senza crocifisso in seguito alla decisione degli studenti. Se quest’ultimo si rifiutasse di farlo, dovrebbe – secondo Weiler – essere sanzionato né più né meno del collega non credente. La discriminazione ci sarebbe se casi uguali fossero trattati in maniera ineguale, o casi differenti in maniera uguale. Per parte sua, Weiler ritiene non ammissibile che di fatto «l’insegnante affermi che il suo diritto alla libertà religiosa è più importante del diritto alla libertà religiosa degli alunni, sapendo che, se la maggioranza avesse votato per togliere il crocifisso, la decisione sarebbe stata egualmente rispettata», e afferma in modo netto che «la condotta dell’insegnante mira a reintrodurre uno Stato confessionale, la cui religione è la laicità imposta a tutti, allo stesso modo in cui un tempo s’imponeva la cristianità»[8].
Il servizio reciproco di fede e ragione
Oltre alle riflessioni dei due insigni giuristi citati, è opportuno ricordare brevemente anche le posizioni degli ultimi Papi sull’atteggiamento con cui porsi oggi da parte cattolica nei confronti di questi importanti dibattiti culturali, sociali, giuridici, politici, con il loro versante educativo.
Anzitutto ricordiamo che Giovanni Paolo II, nell’enciclica Redemptoris missio, affermava: «La Chiesa propone, non impone nulla: rispetta le persone e si ferma davanti al sacrario della coscienza» (n. 39). In questo spirito, vediamo nell’ostensione del crocifisso nelle aule una proposta, non un’imposizione. Ma ci pare da evocare in particolare il contributo profondo e ricco dato da Joseph Ratzinger/Benedetto XVI al tema del dialogo tra fede e ragione, Chiesa e società e Stato, nella consapevolezza della difficoltà delle sfide del tempo e nella convinzione della necessità urgente di una collaborazione per affrontarle adeguatamente. Egli è del tutto consapevole che le leggi civili saranno sempre imperfette e relative: ciò non deve però ingenerare sottovalutazione della loro importanza, ma al contrario impegno instancabile e costruttivo per la loro continua correzione in meglio. Nel suo famoso discorso nella Westminster Hall di Londra, il 17 settembre 2010, Benedetto XVI sottolineò che il rapporto tra fede e ragione, Stato e Chiesa, legge e religione, tra credenti e non credenti, può e deve divenire sempre più fruttuoso. Vi è «un ruolo correttivo della religione nei confronti della ragione» che può sostenere la ragione nella ricerca dei necessari princìpi morali; e, viceversa, vi è «un ruolo purificatore e strutturante della ragione all’interno della religione» che la libera dai fanatismi, dai settarismi e da ogni altra distorsione. «È un processo che funziona nel doppio senso […]. Il mondo della ragione e il mondo della fede, il mondo della secolarità razionale e il mondo del credo religioso hanno bisogno l’uno dell’altro e non dovrebbero avere timore di entrare in un profondo e continuo dialogo, per il bene della nostra civiltà».
Alla luce di queste parole, Marta Cartabia osserva: «Il tempo attuale offre un contesto favorevole per prendere atto che l’idea di laicità come pura “neutralità” dello Stato rispetto al fenomeno religioso è un falso mito che porta di fatto ad atteggiamenti odiosi nei confronti della religione. Il tempo attuale è, però, altrettanto favorevole ad una presa di coscienza che dalla legge civile non si può pretendere tutto e tanto meno la salvezza. Con il potere politico il cristiano è chiamato a collaborare, in una prospettiva di inesauribile correzione, evitando atteggiamenti di diffidenza e di rigida ostilità»[9].
In questo spirito, tentiamo di proporre alcune considerazioni conclusive. Ricordiamo anzitutto che non stiamo trattando dell’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche di un Paese di tradizione maggioritaria islamica, né di un Paese dove l’affermazione della laicité sia strettamente collegata alla storia dell’identità nazionale moderna come la Francia. Trattiamo della sua esposizione in un Paese di profonda e radicata tradizione cristiana cattolica come l’Italia e della partecipazione comune alla sfida, oggi veramente decisiva e difficilissima, di trasmettere, con l’educazione, princìpi morali, valori di riferimento, atteggiamenti, contenuti culturali preziosi per la formazione delle nuove generazioni che vivono e crescono in questo Paese. Oggi i giovani fin dalla più tenera età sono esposti agli influssi potentissimi connessi alla trasformazione antropologica del mondo digitale. In questo contesto, che ha aspetti avvincenti ma anche drammatici, c’è bisogno della partecipazione di tutti, compresi tutti coloro che si riconoscono nella tradizione cristiana.
È bene capire che il simbolo esposto del crocifisso rappresenta – seppur «passivamente», «relativizzato» e molto discreto! – la presenza e la partecipazione solidale e corresponsabile della tradizione cristiana e dei cristiani alla sfida storica dell’educazione delle nuove generazioni. Che cosa proponiamo loro, quando riescono a staccare gli occhi dai loro cellulari? Solo un muro bianco?
Trent’anni fa Natalia Ginzburg, che non apparteneva al mondo cattolico, scriveva parole che meritano tuttora attenzione: «Il crocifisso non genera alcuna discriminazione. Tace. È l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea dell’uguaglianza fra gli uomini fino allora assente. La rivoluzione cristiana ha cambiato il mondo. […] Sono quasi duemila anni che diciamo “prima di Cristo” e “dopo Cristo”. O vogliamo forse smettere di dire così? […]. Il crocifisso è il segno del dolore umano. […] La croce, che pensiamo alta in cima al monte, è il segno della solitudine della morte. Non conosco altri segni che diano con tanta forza il senso del nostro umano destino. Il crocifisso fa parte della storia del mondo. Per i cattolici, Gesù Cristo è il Figlio di Dio. Per i non cattolici, può essere semplicemente l’immagine di uno che è stato venduto, tradito, martoriato ed è morto sulla croce per amore di Dio e del prossimo. Chi è ateo cancella l’idea di Dio, ma conserva quella del prossimo. Si dirà che molti sono stati venduti, traditi e martoriati per la propria fede, per il prossimo, per le generazioni future, e di loro sui muri delle scuole non c’è immagine. È vero, ma il crocifisso li rappresenta tutti. Come mai li rappresenta tutti? Perché prima di Cristo nessuno aveva mai detto che gli uomini sono uguali e fratelli tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti, ebrei e non ebrei e neri e bianchi, e nessuno prima di lui aveva detto che nel centro della nostra esistenza dobbiamo situare la solidarietà fra gli uomini. […] A me sembra un bene che i ragazzi, i bambini, lo sappiano fin dai banchi di scuola»[10].
La Ginzburg ricorda che Cristo ha insegnato per primo che gli uomini sono «fratelli tutti». È esattamente il titolo dell’ultima grande enciclica di papa Francesco, di apertura assolutamente universale, al di là di ogni divisione e discriminazione, per qualsiasi motivo, a cominciare da una malintesa superiorità dovuta all’identità religiosa: «L’amore ci fa tendere verso la comunione universale. Nessuno matura né raggiunge la propria pienezza isolandosi. Per sua stessa dinamica, l’amore esige una progressiva apertura, maggiore capacità di accogliere gli altri, in un’avventura mai finita che fa convergere tutte le periferie verso un pieno senso di reciproca appartenenza. Gesù ci ha detto: “Voi siete tutti fratelli” (Mt 23,8). Questo bisogno di andare oltre i propri limiti vale anche per le varie regioni e i vari Paesi. Di fatto, il numero sempre crescente di interconnessioni e di comunicazioni che avviluppano il nostro pianeta rende più palpabile la consapevolezza dell’unità e della condivisione di un comune destino tra le Nazioni della terra. Nei dinamismi della storia, pur nella diversità delle etnie, delle società e delle culture, vediamo seminata così la vocazione a formare una comunità composta da fratelli che si accolgono reciprocamente, prendendosi cura gli uni degli altri»[11].
Quando molti credenti in Cristo e le autorità della Chiesa che ne interpretano la fede, insieme a molte altre persone di diverse fedi e convinzioni, propongono che il crocifisso rimanga esposto nelle aule scolastiche (o in altri luoghi pubblici o sulle loro stesse persone), non mirano oggi in alcun modo a un’imposizione contraria alla libertà di qualcuno, ma all’offerta – attraverso questo simbolo unico – di quanto di più profondo e prezioso possono dare per la costruzione insieme agli altri di una società fraterna e per l’educazione dei giovani a essa.
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THE CRUCIFIX IN CLASSROOMS. A dialogue for education in freedom
In the first days of July, the Joint Sessions of the Italian Court of Appeals [Corte di Cassazione] will pronounce on issues concerning the display of the crucifix in school classrooms. The article recalls the previous stages of the debate on the crucifix issue. It then outlines the position of the well-known Jewish jurist Joseph Weiler on the tension between “positive” and “negative” religious freedom, and the “reasonable accommodation” approach proposed by Marta Cartabia [the Minister of Justice in the government of Prime Minister Mario Draghi since 2021.] Finally, recalling some indications of recent Popes, the positive significance of displaying the crucifix in the context of constructive dialogue between reason and faith, and of common collaboration in responding to today’s great educational challenges, is sustained.
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[1]. Il tema del crocifisso nelle scuole pubbliche italiane è stato trattato dalla nostra rivista negli Editoriali, in Civ. Catt. 2002 I 3-9; 2004 II 417-424; 2009 IV 425-428; 2010 II 529-532; e nelle Cronache di M. Simone, in Civ. Catt. 2005 I 180-186; 2006 I 496-501.
[2]. La Corte europea dei diritti dell’uomo, istituita nel 1959 a seguito della «Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali», ha sede a Strasburgo, e vi aderiscono i 47 Stati membri del Consiglio d’Europa.
[3]. «Dichiarazione del Direttore della Sala Stampa della Santa Sede, p. Federico Lombardi, sulla sentenza odierna della Grande Chambre della Corte Europea dei diritti dell’uomo», in Bollettino Sala Stampa Santa Sede, 18 marzo 2011.
[4]. Professore di Diritto presso la New York University e professore onorario presso la London University, Joseph Weiber ha rappresentato, nella discussione davanti alla Grande Chambre, i governi di Armenia, Bulgaria, Cipro, Lituania, Malta e Federazione Russa, in appoggio a quello italiano.
[5]. J. H. H. Weiler, «Verso il “Lautsi-bis”? Il crocifisso scolastico (di nuovo) a giudizio», in Forum di Quaderni costituzionali, n. 2, 2021; disponibile in www.forumcostituzionale.it
[6]. Cfr «Crucifix in the Classroom. Joseph Weiler before the European Court of Human Rights», in www.youtube.com/watch?v=ioyIyxM-gnM
[7]. Marta Cartabia, che era già intervenuta sul tema, vi è tornata nella sua relazione «La laicità positiva in J. Ratzinger/Benedetto XVI», che citiamo nell’originale italiano, ma è pubblicata in inglese negli Atti del Simposio organizzato dalla Fondazione Ratzinger e dalla Lumsa nel 2018: P. Azzaro – M. A. Glendon (edd.), Fundamental Rights and Conflicts among Rights, Steubenville, Franciscan University Press, 2020.
[8]. Anche se ciò non è rilevante dal punto di vista giuridico, possiamo osservare che sia la signora Lautsi sia il professore Coppoli aderiscono alla Uaar (Unione degli atei e agnostici razionalisti).
[9]. M. Cartabia, «La laicità positiva in J. Ratzinger/Benedetto XVI», cit.
[10]. N. Ginzburg, «Quella croce rappresenta tutti», in Unità, 22 marzo 1988.
[11]. Francesco, Enciclica Fratelli tutti, nn. 95-96.