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Diventato noto al grande pubblico con il film La città di Dio nel 2002, il regista brasiliano Fernando Meirelles ama la trasposizione cinematografica di opere letterarie. È ciò che ultimamente ha fatto adattando, con l’aiuto dell’autore stesso, l’opera teatrale The Pope di Anthony McCarten, autore pure de L’ anno dei due papi: Francesco, Benedetto e la rinuncia che ha scosso il mondo (1).
I due papi è una fiction che ha come protagonisti gli ultimi due papi della Chiesa cattolica. Ma piuttosto che realizzare un film facile sugli scandali e sui giochi di influenza, il regista ha voluto raccontare la storia di due uomini di fede di fronte a una decisione difficile (2).
Tutto parte da un’idea semplice: il cardinale Bergoglio pensa di andare in pensione; gli piacerebbe ritirarsi e diventare di nuovo parroco. Viene a Roma per sostenere la sua richiesta. Allo stesso tempo, Benedetto XVI, che era stato eletto papa nel precedente conclave, medita su una decisione importante e senza precedenti: dimettersi dalla sua carica di vescovo di Roma e ritirarsi ugualmente. Ed ecco che Jorge Bergoglio (Jonathan Pryce) (3) e Joseph Ratzinger (Anthony Hopkins) si incontrano e iniziano a discutere. È volutamente che i cognomi qui sono necessari, poiché è innanzitutto dell’incontro di due uomini in carne e ossa che lo sceneggiatore intende parlarci. Ma il film sfugge alle sottili insidie del teatro filmato, incorporando lunghe sequenze argentine, tratte dalla vita precedente di Jorge Mario Bergoglio.
Queste, girate in un bianco e nero esteticamente convincente, danno al film un dinamismo che le conversazioni vaticane da sole non potevano garantire. Questi flashback, incentrati esclusivamente sull’Argentina, rendono senza dubbio Bergoglio il personaggio principale, sebbene la formidabile prestazione di Anthony Hopkins renda anche Benedetto XVI molto presente. Da notare pure la bella musica del film, composta da Bryce Dessner, che aveva già lavorato a The Revenant (2015), per il quale era stato nominato agli Oscar.
I film che riguardano i papi, presenti e passati, corrono sempre il rischio di fermarsi allo sfarzo delle istituzioni e di trascurare l’umanità. Non è affatto il caso qui. Non che Castel Gandolfo non sia filmato magnificamente, come d’altronde la Cappella Sistina, ma lo sceneggiatore e il regista vogliono parlarci di altre cose. Che cos’è una decisione spirituale? Come si può impegnare la propria vita su un segno? Come invecchiare portando il peso delle proprie decisioni passate, pur aprendosi al futuro e a ciò che arriva? Che posto può avere la preghiera in una decisione e, in definitiva, in una vita di uomo chiamato a decidere e a governare? Poiché è proprio dell’incontro di due uomini di fede che si occupa il film. Le loro storie vocazionali, i loro percorsi di giovani sacerdoti e i loro profili intellettuali sono profondamente diversi. Eppure, entrambi si stimano e credono nel ruolo del papato nella Chiesa, nonché nella forza della preghiera e della confessione.
Pur ispirandosi a fatti noti a tutti – gli ultimi due conclavi, le immagini pubbliche dei due uomini –, il film non esita a creare. È davvero una fiction ispirata a persone reali, e la sfumatura è importante. Abbiamo accesso a momenti inventati e a conversazioni fittizie. Se l’atmosfera del film è rispettosa verso la Chiesa e la persona di questi due Papi, non può impedire talvolta qualche caricatura. Per le esigenze di un paragone mediatico così abituale che purtroppo vi ci si abitua facilmente – quello che oppone i «conservatori» ai «progressisti» – inasprisce un poco la personalità di Benedetto XVI. È così che la prima conversazione tra i due uomini è di una durezza senza dubbio eccessiva. Ma la limpida strategia narrativa del film si impone, perché mira a mostrare il progressivo riavvicinamento di due personalità molto diverse e la nascita di una vera amicizia tra due uomini che tutto sembra opporre. «Sembra», perché, in fondo, essi condividono l’essenziale, anche la cosa più importante: una profonda fede in un Dio con cui si parla, una consapevolezza dell’alta missione del sacerdote, un’anima in sostanza tranquillamente cattolica. C’è una dimensione di artificialità in questa costruzione, ma è al servizio di un’esplorazione del mistero della fede e delle decisioni che può ispirare.
Nella recensione pubblicata sul New York Times del 26 novembre 2019, il critico Anthony Oliver Scott evoca un «doppio ritratto sottile e accattivante, che tocca questioni complicate di fede, ambizione e responsabilità morale» (4). Aggiunge che, quando Ratzinger e Bergoglio sono insieme, «gli attori definiscono sia la dimensione spirituale sia quella psicologica dei loro personaggi». Ci associamo al giudizio di buona parte della critica internazionale e anche noi diciamo che il film è riuscito sul piano cinematografico ed è umanamente credibile.
Le sequenze che ci sono parse più belle e più toccanti sono quelle argentine. In effetti, non si tratta qui di una discussione sulla fede, sulla preghiera o sulle riforme della Chiesa, ma siamo davanti alla vita stessa. Ed è per questo che non dobbiamo dimenticare il terzo attore, l’argentino Juan Minujín, che rappresenta magistralmente il Bergoglio giovane.
E riconosciamo anche che è in queste sequenze che vi era il grande rischio di inventare troppo. In tre flashback, scopriamo tre momenti chiave della vita di Jorge Mario Bergoglio. Tre momenti che le sue biografie hanno analizzato a lungo e che sfuggiranno sempre a qualsiasi comprensione univoca, perché riguardano il mistero di un essere umano e della sua coscienza. Sono il momento del «sì» alla vocazione, quello del giovane provinciale di fronte alla dittatura, e infine quello dell’arcivescovo desideroso di unirsi sempre al popolo, gli umili del Signore, el pueblo fiel de Dios.
Come rendere conto di questa confessione decisiva? Conosciamo tutti a grandi linee la storia. Sebbene abbia già preso in considerazione la vocazione sacerdotale, il giovane Bergoglio propende verso il matrimonio e si prepara a fare un passo decisivo andando a un appuntamento con la sua fidanzata. Per strada, decide di entrare in una chiesa e va a confessarsi. Qui succede qualcosa di imprevisto, gli viene dato un «segno», che egli leggerà come una chiamata di Dio.
Il secondo momento è quando p. Bergoglio cerca di salvare i suoi compagni gesuiti esposti all’odio della dittatura, in particolare due di loro: Orlando Yorio e Francisco Jalics. Le sue esitazioni, la sua scelta di avere in pubblico un profilo basso per cercare di salvare il maggior numero di persone minacciate (tra cui molti attivisti non cattolici) sono ben rappresentate, come pure il peso interiore che questa decisione gli fa portare. Il fatto che più tardi Bergoglio abbia riconosciuto di aver avuto forse un atteggiamento un po’ troppo autoritario, essendo arrivato in giovane età alla carica di provinciale, è reso in modo credibile.
Il terzo momento ci descrive – dopo la fase di introspezione senza concessioni e di profondo contatto con il popolo dei fedeli vissuto a Córdoba – le sue attività di arcivescovo vicino alle baraccopoli e alle persone sofferenti. Questi tre momenti illuminano un uomo, preservandone il mistero.
Uno dei grandi successi del film è di riuscire a parlare proprio di due realtà molto sottili e spesso mal percepite: la preghiera e la confessione. I due personaggi parlano dei loro momenti di desolazione e di consolazione. In un certo senso, l’omelia in cui padre Jorge Mario parla dei suoi momenti di dubbio fa eco al momento di dubbio vissuto da Benedetto XVI prima che gli si imponga la decisione di dimettersi. La preghiera si evolve con l’età e con la vita: la presenza di Dio viene percepita più o meno facilmente.
Ma l’aspetto più originale del film è forse da ricercare nel modo in cui tratta della confessione. La sceneggiatura ha la capacità di far percepire la ricchezza della confessione, mostrando il suo inizio – le poche parole tra due esseri umani in cui la grazia di Dio può introdursi come terzo incluso – e, allo stesso tempo, rispettando davvero il suo segreto, sia interrompendo nel momento cruciale l’ascolto (questo vale per le confessioni di Bergoglio, come per quelle di Benedetto), sia separando le «parole» delle confessioni dai «volti» di coloro che si confessano (a Córdoba).
Da notare la singolare colonna sonora: Benedetto XVI suona al pianoforte musica classica tedesca di rara eleganza, mentre, quando entra in scena Bergoglio, si ascoltano musiche come Dancing Queen degli Abba, o un appassionato tango argentino.
Ci vuole una vita per fare un uomo; ci vuole forse anche tutta una vita per fare un sacerdote e, a maggior ragione, un papa. I papi si susseguono e non si assomigliano, e questa è una buona notizia. Sostenuto da una superba regia, da attori eccezionali, da una musica originale e ben scelta, questo film vince la sua scommessa.
Copyright © 2019 – La Civiltà Cattolica
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(1) Cfr A. McCarten, The Pope, London, Oberon Books, 2019; Id., L’ anno dei due papi: Francesco, Benedetto e la rinuncia che ha scosso il mondo, Milano, Mondadori, 2019.
(2) I due papi, un film (Netflix) di Fernando Meirelles, con Anthony Hopkins e Jonathan Pryce.
(3) Nelle scene che riguardano la gioventù di papa Francesco l’attore è Juan Minujín.
(4) A. O. Scott, «The Two Popes’ Review: Double Act at the Vatican», in The New York Times, 26 novembre 2019.
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“THE TWO POPES”, A FILM BY FERNANDO MEIRELLES