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Sotto casa a Milano, in via Morozzo della Rocca 1, la notte tra l’11 e il 12 luglio del 1979, l’avvocato Giorgio Ambrosoli veniva assassinato da un sicario. Pagò con la vita la difesa della legalità. Per questo dopo 30 anni il suo esempio coraggioso è un vivo insegnamento per tutti.
La Banca d’Italia, nel 1974, lo aveva nominato liquidatore unico della Banca Privata di Sindona, viste le gravissime irregolarità e il «profondo buco» di bilancio. Dietro alle falsificazioni contabili si celavano: bilanci gonfiati con partite di giro intra-gruppo, l’esportazione illegale di valuta, il riciclaggio di denaro sporco per conto di «Cosa Nostra», speculazioni finanziarie e, soprattutto, l’acquisto di banche e la costituzione di società con i depositi degli ignari risparmiatori, corruzione di diversi politici ecc. Ambrosoli non si accontentò di fare il suo lavoro nel rispetto delle formalità, senza pestare i piedi a nessuno nel mondo politico di allora, e alla criminalità mafiosa e finanziaria. L’avvocato milanese cercò di estirpare dal sistema finanziario nazionale e internazionale un cancro, promuovendo l’incriminazione penale del bancarottiere, nonostante le minacce. Impedì che l’impero finanziario di Sindona fosse salvato con i soldi dei contribuenti. Capiva che, senza agire alla radice e senza assicurare la giusta pena, le regole diventano un optional e l’illegalità cultura e sistema.
Fu lasciato solo dalle istituzioni politiche, ma Ambrosoli non lavorò da solo. Fece squadra con validi magistrati, anche statunitensi, e con un gruppo di «fiamme gialle» guidate dal maresciallo Silvio Novembre, sotto la supervisione dei governatori della Banca d’Italia Guido Carli e, poi, Paolo Baffi. La vicenda umana esemplare di Baffi, che mise al centro del suo mandato una vigilanza bancaria attenta e indipendente, si legò a quella di Ambrosoli. Il 24 marzo 1979, il Governatore fu incriminato, senza fondamento, per favoreggiamento e interesse privato. Vista l’età, gli fu risparmiato l’arresto, al quale fu invece sottoposto il direttore generale della Banca d’Italia, Mario Sarcinelli. L’attacco era funzionale anche a indebolire la posizione di Ambrosoli e a provocarne le dimissioni.
Il 14 luglio 1979 Baffi partecipò al funerale di Ambrosoli, assieme ai giudici Guido Viola e Olivio Urbisci — le uniche autorità presenti —, e si premurò affinché il mantenimento e l’educazione dei tre orfani dell’avvocato fossero a carico dell’Istituto di via Nazionale. Il 16 agosto 1979, Baffi si dimise da governatore per rispetto alla carica. Fu scagionato soltanto nel 1981. Gli succedette Carlo Azeglio Ciampi, che ha curato la presentazione del volume in esame.
La vicenda di Ambrosoli è già stata narrata nel 1991 da Corrado Stajano nel libro-inchiesta Un eroe borghese[1], nel 1995 con il film omonimo diretto da Michele Placido e in una raccolta di contribuiti[2]. Il testo che presentiamo aggiunge le parole del suo terzogenito Umberto, anch’egli avvocato[3]. Il figlio racconta ai suoi tre bambini i propri ricordi d’infanzia e quelli di amici, familiari e collaboratori del padre. Ogni volta la ricostruzione documentata delle vicende del nonno è introdotta dalla descrizione del contesto socio-politico nazionale. Il figlio contempla l’alta coscienza che il padre aveva del suo ufficio e della propria libertà e dignità. Nonostante le intimidazioni, la scelta di perseguire l’illegalità era un’alternativa praticabile anche se nessuno glielo imponeva.
Le parole del titolo, Qualunque cosa succeda, sono tratte dal «testamento educativo» consegnato alla moglie nel 1975. Giorgio Ambrosoli intuì che «fare politica in nome dello Stato e non di un partito» poteva comportare rischi mortali. Il libro è struggente, così come la vita della vedova, Annalori, colpita nel settembre 2009 dalla morte improvvisa del secondogenito Filippo. Lo ricordo, da compagno di classe e amico: un artista fine, un uomo buono, «esperto nel soffrire».
«Qualunque cosa succeda — scriveva di nascosto alla moglie —, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto […]. Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il paese, si chiami Italia o si chiami Europa. Riuscirai benissimo, ne sono certo, perché sei molto brava e perché i ragazzi sono uno meglio dell’altro […]. Sarà per te una vita dura, ma sei una ragazza talmente brava che te la caverai sempre e farai come sempre il tuo dovere costi quel che costi. Hai degli amici […] che ti potranno aiutare: sul piano economico non sarà facile […]»[4].
Il libro è concepito come strumento pedagogico di un padre ai figli — e ai lettori con loro — perché conoscano e amino il nonno profondamente. Umberto, da orfano ma senza vittimismo, dà voce anche alla sua indignazione verso alcuni personaggi influenti degli anni Settanta: alti esponenti della Democrazia Cristiana, il presidente di Mediobanca, Enrico Cuccia, il quale non avvertì Ambrosoli dell’imminenza del suo probabile assassinio.
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La vita giovanile, familiare e professionale di Giorgio Ambrosoli condensa aspetti fondamentali dell’impresa e dell’arte educativa[5]. Ne ricordo cinque.
Primo: i testimoni, i leader e i maestri esemplari continuano a insegnare. Sono «patrimonio» della comunità politica, sono «gli amici» a cui tutti noi — l’intera comunità educante nazionale — possiamo fare riferimento per attingere alla «tradizione», viva e sperimentalmente vera, dei valori umani. Umberto Ambrosoli racconta anche le vicende di altri avvocati, giornalisti, magistrati, politici, sindacalisti, docenti universitari, esponenti delle forze dell’ordine, studenti: vittime innocenti negli «anni di piombo» perché facevano bene il loro lavoro.
Secondo: la relazione educativa si fonda su un’alleanza egualitaria tra persone, ma è un rapporto asimmetrico, paterno e generativo, che consolida fiducia e speranza nella società. Una tale sfida coinvolge vari attori educativi, in primo luogo i genitori e la scuola, ma poi gli amici, la comunità cristiana… Il libro narra anche l’impegno di Giorgio e Annalori Ambrosoli nel partecipare alla vita delle scuole a cui affidavano i figli, a credere nello scoutismo, nella vita parrocchiale, nelle famiglie amiche.
Terzo: la pusillanimità, la presunzione intellettuale, la ricerca di piaceri e tranquillità borghesi o narcisisti, la protervia del potere, l’avidità di guadagno, la vita nel sottobosco dei poteri occulti sono patologie dell’anima. I giovani, invece — ricordano le vicende di Giorgio Ambrosoli da studente universitario e le parole del nuovo beato milanese don Carlo Gnocchi — «sono fatti per l’eroismo», sono fatti per la profezia (cfr Gl 2,28; At 2,17). I giovani sono cioè «creati» per l’onestà, per un’analisi profonda della realtà storica e sociale, per una prassi da cittadini coerenti nel perseguimento del bene comune. È la vita virtuosa nel quotidiano a donare la felicità, non sono i gesti plateali o i successi mass-mediali.
Quarto: la vita professionalmente onesta e creativa (o addirittura eroica) richiede di essere integrata in una scelta di vita matrimoniale, se le circostanze personali non lo impediscono o non si accoglie una vocazione di speciale consacrazione religiosa o artistico/professionale. Tuttavia, non si può prescindere dall’etica familiare. I figli degli altri sono nostri «fratelli e sorelle». È l’amore della vita a sostenere la passione per la giustizia sociale.
Quinto: la formazione alla libertà consapevole e responsabile è esperienza sentimentale diretta, è educazione affettiva. Un amico del papà confidava a Umberto Ambrosoli: «Non credere che tuo padre fosse come un soldatino che deve fare le cose e quindi le fa, come per obbedire a un dovere imposto da altri, o a priori, da se stesso. O che ritenesse di dover fare quello che ha fatto per semplice onestà. No, Giorgio era una persona che aveva la capacità di cercare e ascoltare l’essenza delle cose, la loro natura, le emozioni che i fatti, le circostanze, gli ambienti e i documenti emanano. Ascoltandoli — come quasi soltanto i poeti hanno la sensibilità di fare — lui ne capiva il significato profondo. Pensa alla lettera che ha scritto a tua madre. Più di quattro anni prima di morire; quattro anni prima delle minacce, in assenza di qualsiasi avvisaglia di un pericolo. Eppure lui lo aveva già capito. Aveva saputo ascoltare le emozioni: così ha potuto avere quello che è un vero e proprio presagio.
«E da allora ogni giorno ha potuto confrontarsi, sperimentare quotidianamente la forza del proprio credo, dei valori che maggiormente gli appartenevano in maniera talmente intima e profonda che era la ragione stessa dell’unione con tua madre. Non la semplice disapprovazione per la disonestà, non l’interpretare e l’incarnare un ruolo senza possibilità di scelta. No, lui ogni giorno ha scelto di essere se stesso»[6]. Quel se stesso che volle diventare.
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[1] Cfr C. Stajano, Un eroe borghese, Torino, Einaudi, 1991.
[2] Cfr Ambrosoli. Nel rispetto di quei valori, Novara, Interlinea, 1997.
[3] Cfr U. Ambrosoli, Qualunque cosa succeda, Milano, Sironi, 2009, 317.
[4] Ivi, 317.
[5] Cfr Comitato per il progetto culturale della Conferenza episcopale Italiana, La sfida educativa, Roma – Bari, Laterza, 2009, 3-24.
[6] U. Ambrosoli, Qualunque cosa succeda, cit., 311 s.