a cura di V. FANTUZZI
Le luci della sera (Finlandia, 2006). Regista: AKI KAURISMÄKI. Interpreti principali: J. Hyytiäinen, M. Järvenhelmi, M. Heiskanen, I. Koivula.
Dotato di uno stile personale, degno di un maestro del cinema di altri tempi (Ozu, Bresson…), il regista finlandese Aki Kaurismäki racconta storie di perdenti: i coniugi disoccupati di Nuvole in viaggio (cfr Civ. Catt. 1997 II 329 s), lo smemorato de L’uomo senza passato (cfr ivi 2003 II 210 s) accolto in una comunità di sradicati come lui, che dormono in container arrugginiti. Nel suo film più recente, Le luci della sera, propone il caso di un uomo qualsiasi. La macchina da presa inquadra il volto di uno dei tanti individui che, privi di qualità particolari, non trattengono per più di pochi secondi lo sguardo di chi li incrocia lungo il marciapiede. Uno di quei volti anonimi che, visti una volta, sono presto dimenticati, tanto che, per essere ancora più sbrigativi, i più preferiscono non guardarli nemmeno, cancellandoli in questo modo dalla realtà.
Nasce così il primo dei paradossi che si accumulano in questa pellicola. Lo spettatore è obbligato a vedere sullo schermo ciò che normalmente non osserva nella vita. Ma, trattandosi di un film dotato, come si diceva, di uno stile originale, è opportuno partire dalle qualità delle immagini. L’inquadratura prima di tutto. Il modo in cui Kaurismäki isola dalla realtà circostante la porzione di mondo che entra a far parte del film assomiglia a un’operazione chirurgica. Ciò che è dentro l’immagine cinematografica è dentro. Ciò che è fuori è fuori. Kaurismäki appartiene a quei registi che hanno l’abitudine di far sentire la presenza della macchina da presa. Non è una questione che riguarda soltanto il modo di inquadrare, ma anche la durata delle immagini, il concatenamento tra immagine e immagine, e quindi il ritmo del film. Senza cessare di essere narrativo e descrittivo, il tono della pellicola si fa epico. Lo spettatore si rende conto di non essere invitato a seguire lo svolgersi di avvenimenti còlti nel loro rapido susseguirsi, ma a scoprire una dimensione nascosta delle cose, che sta al di là della loro apparenza fisica.
Il cinema di Kaurismäki si rifà a una maniera più interiore che esteriore di percepire la realtà, più segreta che palese, più spirituale che materiale. Eppure, e questo è un altro dei paradossi contenuti nel film, niente è più concreto di questo modo di far vedere e quasi toccare le cose per quello che effettivamente sono. Il simbolismo, al quale l’immagine cinematografica rinvia, non è frutto di un movimento che parte dal segno per andare alla ricerca di un senso lontano, ma nasce dall’interno della cosa rappresentata e aderisce alla sua materialità come a una seconda natura. Si vedano, per non fare che un esempio, le immagini scarne ed essenziali che il film dedica allo scorrere delle stagioni nei 12 mesi che il protagonista trascorre nel carcere di Helsinki.
Sorvegliante notturno, Koistinen, che non possiede nulla, veglia sui beni posseduti da altri. Ancora un paradosso, ma non è l’ultimo. Sopportato a malapena dai datori di lavoro e deriso dai colleghi, Koistinen si è chiuso sempre di più in se stesso. Osserva il mondo come se fosse uno spettatore. Eppure, non ha rinunciato a ogni ambizione. Sogna di mettere in piedi una società di vigilanza che faccia concorrenza a quella per cui lavora. La banca alla quale si rivolge per chiedere un prestito non gli fa credito. Detentore di un pesante mazzo di chiavi e di sofisticati codici di accesso, Koistinen attira suo malgrado l’attenzione di una banda di furfanti, i quali approfittano della sua ingenuità per svuotare le vetrine di una gioielleria posta sotto il suo controllo. Per abbindolarlo i malviventi si servono delle grazie di una bionda che fa breccia nel suo cuore e che Koistinen non tradisce nem-meno quando si accorge di essere da lei ingannato.
Nella determinazione con la quale protegge la donna, opponendo un impenetrabile silenzio alle do-mande dei poliziotti e dei giudici, Koistinen manifesta la stessa forza d’animo che ha dimostrato di avere nel prendere le difese di un cane abbandonato da tre forzuti balordi. I criminali che lo hanno circuito non si limitano a mandarlo in galera, ma lo fanno cacciare dal ristorante dove, dopo aver scontato la pena, ha ottenuto di poter lavorare come lavapiatti. Esasperato, Koistinen si lancia con un coltello affilato contro il boss della banda. Oltre che a vendicarsi dei torti subiti, pensa forse di riuscire in questo modo a liberare la bionda che gli ha fatto credere di amarlo.
Ognuna delle disavventure delle quali Koistinen è vittima si conclude con un pestaggio. L’ultimo rischia di avere per lui conseguenze letali. Come era già accaduto nei precedenti film di Kaurismäki, c’è però un punto nel quale chi cade arriva a toccare il fondo. Da lì non può partire che una risalita. È ciò che succede in precedenza a Koistinen. Lasciato mezzo morto dai suoi aggressori, è vegliato da un ragazzino di colore, dal cane che aveva tentato di proteggere e da una venditrice di salsicce, sinceramente innamorata di lui, della cui esistenza egli non si era mai accorto, così come gli altri non si erano accorti della sua, salvo che per umiliarlo e disfarsene dopo averlo sfruttato.