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Cultura e società

LA TERRA DEGLI UOMINI ROSSI

Virgilio Fantuzzi

1 Novembre 2008

Quaderno 3801

a cura di V. FANTUZZI

La terra degli uomini rossi (Italia – Brasile, 2008). Regista: MARCO BECHIS. Interpreti principali: P. Abrisio Da Silva, A. Baitista Cabreira, A. Concianza Verga, A. Vilhalva, C. Santamaria, C. Caselli.

Brasile, Mato Grosso do Sul. I fazendeiros conducono un’esistenza ricca e annoiata. Possiedono campi di coltivazioni transgeniche estesi a vista d’occhio e trascorrono le serate in compagnia dei turisti giunti ad ammirare gli uccelli esotici. Ai confini delle loro proprietà vivono gli indios che di quelle terre erano in origine i legittimi proprietari. Costretti in riserve senza altra prospettiva se non quella di andare a lavorare in condizioni di semischiavitù nelle piantagioni di canna da zucchero, molti giovani si suicidano.

All’inizio del film La terra degli uomini rossi di Marco Bechis, il suicidio di due ragazze provoca la ribellione di un gruppo di guaranì-kaiowà che, guidati dal loro capo, Nadio, e da uno sciamano, vanno ad accamparsi ai confini di una estesa proprietà per reclamare la restituzione delle loro terre. Due mondi contrapposti si fronteggiano. La tensione che si sviluppa tra loro assomiglia a una guerra metaforica che può trasformarsi da un momento all’altro in guerra reale.

Prima di girare questo film, Bechis ha vissuto a lungo tra gli indios che ancora sopravvivono ai margini della foresta. Nei dintorni della città di Dourados ha conosciuto la comunità di Ambrósio (un indio che nel film interpreta il ruolo di Nadio), il quale gli ha raccontato la propria storia. Da questa esperienza nasce la sceneggiatura del film. Si trattava poi di convincere gli indios a recitare, cioè a comportarsi con naturalezza davanti alla macchina da presa. Senza la loro presenza viva il film non avrebbe potuto essere realizzato.

Entriamo nella foresta, o in quello che ne rimane, in compagnia di Osvaldo e Ireneu, due ragazzi che cercano invano di uccidere animali selvatici e, in assenza di questi, si rifanno su una mucca sottratta alla mandria del padrone bianco. Osvaldo si agita nel sonno in preda a sogni premonitori. Ireneu, che è suo amico, lo ammira per questo. Un giorno Ireneu, superando la propria timidezza, chiede a Mami, la bella del gruppo, se è disposta a sposarlo, ma la ragazza gli dice che è ancora troppo piccolo. Anche Nadio, suo padre, gli ripete la stessa cosa. «Ma io crescerò», insiste Ireneu. Un giorno accetta di andare a lavorare per i fazendeiros. Suo padre vorrebbe impedirglielo, ma non riesce a farlo perché ubriaco. Con i pochi soldi che guadagna, Ireneu si compra un paio di scarpe da tennis. Torna da suo padre con quelle ai piedi. Nadio lo insulta. Lo sciamano rimprovera Nadio: «Devi parlargli più dolcemente. È tuo figlio. Un giorno prenderà il tuo posto…». Il suggerimento giunge troppo tardi.

Portano a Nadio una scarpa di Ireneu, che si è impiccato nella foresta. Nadio lo seppellisce e dice di volerlo dimenticare. Non si devono piangere i morti che si sono suicidati. Lo spirito del male, che se li è portati via, potrebbe impadronirsi dei sopravvissuti. Osvaldo, pur facendosi forza, non riesce a reprimere il pianto che gli strozza la gola. Questa volta gli indios, ritenendo che la loro sopportazione sia giunta al colmo, si spogliano e si dipingono il volto. Imbracciano archi e frecce per fare la guerra ai bianchi che hanno invaso e distrutto il loro ambiente naturale. La situazione rischia di diventare pericolosa. Giunge dalla capitale un procuratore che invita gli indios ad aspettare che la giustizia si pronunci. I fazendeiros sono preoccupati. Temono di perdere i privilegi acquisiti con mezzi non legali. Per loro, gli indios sono come insetti che infestano la terra coltivata. «Per disperdere questo formicaio bisogna uccidere la regina», dice uno di loro. In questo modo viene decisa la morte di Nadio.

Ci penseranno i mercenari, guidati da un indio che, per denaro, accetta di tradire il suo capo. Osvaldo si dipinge di nero. Va a cercare il padrone che se la sta svignando. Lo accusa di aver fatto morire Nadio. Giura che un giorno farà giustizia. Approfitta dell’occasione per insultare sua figlia, come lui adolescente, che aveva incontrato più volte sulla riva del fiume, e con la quale stava per intrecciare un tenero rapporto. Emettendo grida selvagge, che esprimono rabbia e dolore, Osvaldo va nella foresta. Si arrampica su un albero stringendo fra le mani una fune munita di nodo scorsoio. Tutto lascia pensare che stia per impiccarsi come ha fatto il suo amico Ireneu. Non è così. Questa volta, lo spirito del male non ha il sopravvento. «Ho vinto io. Tu hai perso», dice Osvaldo scendendo dall’albero. Superate le prime difficoltà della vita, il ragazzo è pronto ad affrontare le lotte che ancora lo attendono, anche se non sarà facile, per lui e per i suoi, ottenere il riconoscimento dei propri diritti.

La scena centrale del film, dotata di un forte significato simbolico, è quella nella quale il fazendeiro bianco raccoglie una manciata di terra e mostrandola al capo degli indios dice: «Questa terra è mia da sessant’anni. Da tre generazioni la mia famiglia lavora questa terra per produrre cibo». Nadio lo ascolta, poi si china anche lui a raccogliere una manciata di terra, la porta alla bocca e la mangia.

Non è disponibile la versione digitale di questo articolo, è possibile leggerlo solo nella versione cartacea o e-book


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LA TERRA DEGLI UOMINI ROSSI

Virgilio Fantuzzi

Già scrittore de "La Civiltà Cattolica" (1937 - 2019).


1 Novembre 2008

Quaderno 3801

  • pag. 316
  • Anno 2008
  • Volume IV

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