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La pubblicazione, nel 2007, del corposo volume A Secular Age1 («Un’epoca laica») è l’ulteriore conferma della brillante carriera di Charles Taylor sia come filosofo morale sia come interprete del cambiamento culturale. Nato in Canada nel 1931, Taylor è considerato uno tra i maggiori pensatori di lingua inglese nonché uno dei più importanti intellettuali cattolici contemporanei. L’accoglienza al suo ultimo libro è stata largamente positiva e — benché alcuni recensori ne abbiano criticato l’eccessiva lunghezza (896 pagine) e una certa complessità dello stile — si tratta senza dubbio sia di un’importante sintesi del suo lavoro precedente sia di uno sviluppo significativo nell’ambito di nuovi settori. In questo articolo ci proponiamo di offrire una sintesi di un argomento estremamente ricco. Di conseguenza, alcuni degli orizzonti esplorati da Taylor non verranno citati. Il criterio su cui si basa la nostra selezione è di natura religiosa: cercheremo quindi di riassumere il modo in cui questo libro getta luce sulla nostra storia e sull’attuale contesto culturale nel quale viene a trovarsi la fede.
Al centro di A Secular Age c’è una domanda chiave, che Taylor pone all’inizio del primo capitolo: «Perché era praticamente impossibile non credere in Dio, ad esempio, nella società occidentale del 1500, mentre nel 2000 molti lo ritengono non solo facile, ma addirittura inevitabile?» (p. 25). Taylor analizza questo tema sia come storico della cultura, sia come filosofo sia, anche, come credente, avendo assunto, con il passare degli anni, una posizione più esplicita rispetto al suo impegno di cattolico. Tale impegno ha trovato nutrimento sin dall’epoca in cui, studente universitario, leggeva le opere di vari teologi francesi, come de Lubac, Daniélou e Congar: «[Tale lettura] dava un senso a ciò che provavo […] a ciò in cui volevo credere […], con mio grande stupore, divenne poi la storia ufficiale del Vaticano II!» 2. E, più avanti nel suo nuovo libro, Taylor rileva che questi teologi hanno aiutato la Chiesa a ripensare i nessi tra la teologia, la vita spirituale e «l’esperienza vissuta del nostro tempo» (p. 848). Questo commento è indicativo del suo intento di collegare il mondo delle idee con i più sottili mutamenti di sensibilità nella vita di tutti i giorni.
Dalla messa a fuoco sociologica a quella culturale
L’intento primario di Taylor è fornire una rilettura della storia e del significato della secolarizzazione. A suo parere, una precedente tesi in materia — che interpretava tale processo come un prodotto inevitabile della modernità e dell’urbanizzazione — si è dimostrata storicamente inesatta: se si eccettua l’Europa occidentale, il mondo, pur se con diverse sfumature, rimane in buona parte religioso. Il libro delinea tre interpretazioni principali della secolarizzazione: critica le prime due in quanto vere soltanto in superficie e troppo sociologiche, e propone poi un’altra versione, ritenuta più conforme alla complessità del mutamento culturale.
Un primo significato della secolarizzazione riguarda l’indebolimento del ruolo e del potere della religione nella vita pubblica, un fatto che spesso viene attribuito all’impatto di «scienza, tecnologia e razionalità» (p. 574). Un secondo significato è legato al declino delle credenze e dell’appartenenza religiosa istituzionale: «Le persone abbandonano Dio e non aderiscono più alla Chiesa». Ambedue sono ciò che Taylor definisce teorie della «sottrazione», nel senso che esse presumono che la religione perda inevitabilmente terreno con l’arrivo della nuova complessità sociale della modernità. La terza interpretazione, quella sostenuta da Taylor, considera la secolarizzazione come qualcosa che comporta un contesto radicalmente trasformato con il quale la religione deve confrontarsi, dove la chiave del cambiamento si trova al livello dell’«immaginario sociale» collettivo.
Di conseguenza, Taylor cerca di spostare il dibattito sulla secolarizzazione dal piano dei cambiamenti visibili e misurabili nella pratica sociale a quello dei movimenti più profondi della sensibilità spirituale. Essa comporta una contrazione dei desideri e degli orizzonti dell’io. Perciò il fuoco non è sui fattori esterni dell’indebolimento dell’influenza religiosa nella cultura occidentale, bensì sulle condizioni interiori che hanno reso credibile, coerente e moralmente valido un modo alternativo laico di vita. Questo significa più che una emarginazione sociale della religione. È indubbio che l’emergere di un contesto «moderno», con l’urbanizzazione e l’emigrazione, ha avuto un impatto sulle precedenti forme comunitarie e quindi sulle forme tradizionali di appartenenza religiosa. Ma non bisognerebbe identificare questi sviluppi con l’atrofia automatica della motivazione religiosa. I vecchi linguaggi della fede sono stati sì stravolti, ma un tale nuovo «terreno di scelta», secondo Taylor, può diventare «l’occasione per la ricomposizione della vita spirituale in nuove forme e per nuovi modi di esistere sia all’interno sia all’esterno del rapporto con Dio» (p. 437).
Egli si propone di raccontare una storia complessa dell’evoluzione di una visione di immanenza nei singoli individui e nelle società. Ciò che emerge è che la secolarizzazione, in tutti i suoi significati, mette in crisi alcune forme di fede, ma non necessariamente la fede stessa. Questo processo destabilizza i precedenti linguaggi tradizionali della religione, ma non necessariamente soffoca la fame di spiritualità nel cuore dell’essere. Già nel 1965, Bernard Lonergan aveva diagnosticato «una crisi non della fede, ma della cultura» 3. Taylor, pur non facendo mai riferimento a questo collega pensatore cattolico canadese, la pensa allo stesso modo. Per Taylor, la sfida consiste nel creare nuove incarnazioni di fede e spiritualità, che siano consone alla consapevolezza culturale emergente. In queste pagine, la sua attenzione costante è volta ad approfondire le tematiche relative alla secolarizzazione e alla fede, per dare spazio a una più sofisticata lettura della storia. A Secular Age è un libro complesso con un nucleo semplice, mirato a smantellare varie interpretazioni semplicistiche della modernità, intesa come automaticamente irreligiosa. Egli riassume la sua interpretazione in queste parole: «Gli sviluppi della modernità occidentale hanno destabilizzato e reso effettivamente insostenibili le precedenti forme di vita religiosa, ma nuove forme hanno preso piede» (p. 594).
Taylor commenta senza mezzi termini la teoria dominante «della sottrazione»: «A me sembra sbagliata. La vera storia è molto più interessante» (p. 91) e richiede «una narrazione a zig-zag, ricca di conseguenze imprevedibili» (p. 95). Per questo egli esplora aree che le consuete interpretazioni della secolarizzazione non prendono in considerazione. Ad esempio, partendo dalla spiritualità del tardo Medioevo, Taylor sottolinea l’importanza della devozione a una rappresentazione più umana del Cristo sofferente, incoraggiata in particolar modo dai francescani. Quello che lo interessa, più di ogni storia esteriore riguardante la diminuzione dell’influenza della Chiesa nella società, è l’emergere graduale, nell’essere umano, di una nuova immagine di sé. Ciò che, in ultima istanza, è diventato «umanesimo esclusivo» o «immanenza limitata» (espressioni che si ritrovano spesso nel libro) comporta molti sottili sviluppi a livello della sensibilità.
Un resoconto più approfondito del cambiamento
Taylor intende mostrare come, nell’immagine che la gente ha di sé, sia emersa una nuova interpretazione dell’etica e della vita positiva, e come tale immagine di sé si sia gradualmente separata dalle radici religiose. Questo approfondimento naturalmente è collegato con alcuni dei suoi scritti più importanti dei decenni precedenti, in particolare con il suo libro più famoso, Sources of the Self («Radici dell’io»). In A Secular Age, Taylor rivisita il nesso tra una ragione svincolata (disengaged) e un io svincolato in quanto caratteristico dell’immagine dell’uomo che divenne dominante nell’Illuminismo. Egli considera la nascita dell’ateismo più legata a una complessa trasformazione della sensibilità morale che a una crisi della conoscenza. Una delle sue espressioni preferite è «il fiorire dell’uomo», nel senso di un ideale di pienezza della vita, e a questo proposito una domanda chiave che si pone è come la gente comune — e non solo le élites intellettuali — sia giunta a immaginare possibile la realizzazione dell’uomo senza Dio. Taylor insiste nel voler ampliare l’orizzonte dal mondo delle idee a quello dell’immaginazione, dove i presupposti vengono attuati nelle «pratiche» o stili di vita. D’accordo con l’analisi teologica proposta dal gesuita americano Michael J. Buckley, Taylor individua un punto di svolta fondamentale nella crescente tendenza deista diffusa tra i sostenitori dell’esistenza di Dio. La loro apologetica ha cercato di utilizzare gli strumenti del nuovo empirismo, ma il risultato è stato che, inconsapevolmente, hanno preparato la strada per il rifiuto di un Dio lontano. Buckley aveva già diagnosticato in questa tendenza una «autoalienazione della religione», laddove «il cristianesimo, per difendere il suo dio, si trasformava in teismo» e, quindi, abbandonava in silenzio la rivelazione cristologica e ogni riferimento «all’esperienza religiosa o a qualsiasi evento, storia o testimonianza personale» 4.
Taylor condivide la posizione di Buckley e studia i vari cambiamenti antropologici che hanno contribuito a dare un’immagine impersonale di Dio nell’ambito di una cultura sempre più impersonale. Uno di essi viene da lui definito «l’eclissi della grazia» (p. 222), nel senso che l’accento è stato spostato dall’amore inteso come dono di Dio alla bontà umana intesa come ideale dell’essere umano. Questo comporta un graduale immanentismo delle speranze umane e una percezione ridotta del rapporto con il mistero di Dio. Di conseguenza, la sensibilità vissuta di una moralità immanente ha aperto la strada al successo degli attacchi intellettuali a un dio subcristiano. Quindi il deismo non rappresentava soltanto la tendenza teoretica dei filosofi, bensì l’immagine diffusa tra i credenti di un Dio indifferente. In questo senso «il deismo può essere considerato a metà strada sulla via dell’ateismo contemporaneo» (p. 270).
È interessante che Taylor noti lo sviluppo, in questi stessi secoli «moderni», di un movimento di riforma all’interno della Chiesa contro una religiosità meramente fredda: questo spazia dalla spiritualità di sant’Ignazio di Loyola o san Francesco di Sales sino alla nascita della devozione al Sacro Cuore. Ma anche questi sviluppi creativi sono stati spesso interpretati nel contesto volontaristico dell’azione (agency) umana. Nella vita di tutti i giorni, la corrente culturale principale del deismo era più forte: «La religione e l’apologetica più limitate della prima parte del diciottesimo secolo si adattano bene a una concezione dell’io compresso e a un’interpretazione della provvidenza modellata sull’ordine morale moderno» (p. 228) 5. Questa nuova percezione dell’io ha determinato una sensazione di padronanza di sé, razionalità, superiorità o distanza da ogni «superstizione». Poteva rimanere cristiana o almeno religiosa in un mondo in gran parte immanente, senza particolare attenzione alla rivelazione o a un rapporto con Dio. Così è emersa una forma di sensibilità laicista anche tra i credenti.
Taylor suggerisce alcuni interessanti confronti con il movimento romantico, che nacque in parte come ribellione contro la meccanizzazione del mondo e contro un io genericamente svincolato e impersonale, che proponeva un senso immanente del sublime. Una precedente percezione del mistero trascendente venne ricollocata «dentro di noi» in qualità di «profondità antropologica» (p. 356). Nello stesso tempo, il romanticismo cercò di rompere con un «malessere di immanenza» ripiegato su se stesso (p. 309) e di immaginare «finalità più ampie» per «autentici io» (p. 338). Una tendenza dei poeti fu evocare l’unione esaltante con la natura, un’altra esplorare la parte oscura e dimenticata dell’esistenza, dando origine a un «contro Illuminismo» antiumanista (p. 372), collegato a Nietzsche. Ma in ambedue le direzioni un rapporto cristiano interpersonale con Dio divenne culturalmente emarginato.
Si preparò così gradualmente il terreno per l’esplosione di un «umanesimo esclusivo». Secondo Taylor, il suo impatto non sarebbe stato possibile se si fosse trattato semplicemente di una teoria atea diffusa da una minoranza. Per trasformare in modo così radicale una sensibilità culturale, aveva bisogno di radici più profonde del dibattito intellettuale. Il nuovo laicismo doveva essere sperimentato come una «prospettiva spirituale percorribile» (p. 234); in altre parole non semplicemente come un rifiuto delle interpretazioni religiose dell’esistenza, ma capace di «attribuire un potere di benevolenza o di altruismo agli esseri umani» (p. 247). In questo modo, alcuni elementi del cristianesimo venivano mantenuti, ma, come è già stato detto, in una forma radicalmente immanente e morale. Ancora una volta possiamo vedere le implicazioni della critica rivolta da Taylor a una interpretazione più lineare del secolarismo, inteso soltanto come l’inevitabile prodotto di nuove condizioni sociali. Invece, secondo la sua visione, «l’umanesimo esclusivo comincia a diventare credibile a causa degli spostamenti antropologici» (p. 260) che trasformano l’immaginazione dell’uomo. Nello stesso momento fece la sua comparsa una nuova percezione dell’io «capace di controllo disciplinato e benevolenza» e con «il proprio senso di dignità e potere» (p. 262), ma senza alcuna nozione della grazia di Dio. Si tratta di una nuova etica o immagine di sé che ha reso l’umanità laica credibile ai propri occhi. Il fiorire dell’uomo, nel senso di una pienezza appagante, poteva gradualmente essere immaginato senza alcun desiderio di trascendenza. Persino il materialismo si dimostrò poco convincente fino a quando, nel diciannovesimo secolo, non si agganciò a tali considerazioni etiche.
Riconoscere la pedagogia di Dio
In sintesi, le idee hanno sì il loro ruolo nel mutamento culturale, ma non sono centrali quanto «la conoscenza irriflessiva e l’immaginazione morale» (p. 347). Come dice Taylor stesso del suo approccio, «ciò che mi interessa è come la nostra percezione delle cose, il nostro immaginario cosmico, in altre parole tutto il nostro retroterra percettivo e la nostra concezione del mondo siano stati trasformati» (p. 325). Secondo tale interpretazione, la secolarizzazione è più una graduale scomparsa della fede a livello dell’immaginazione che a quello più esplicito della filosofia, della sociologia o della politica. In tale ottica, il libro dedica una speciale attenzione al mondo delle arti, in quanto riflesso della graduale trasformazione della sensibilità, e in particolare perché in grado di offrire «una sorta di spiritualità indefinita» (p. 360) nell’epoca di una società impersonale e del graduale indebolimento delle radici religiose.
È tipico di Taylor non indulgere in alcun commento negativo superficiale nei confronti di tale spiritualità. La sua tendenza è piuttosto quella di cercare i suoi aspetti positivi, chiedendosi se non potrebbe diventare l’anticamera per la riscoperta della fede cristiana. A questo proposito cita alcune classiche storie di conversione, da sant’Ignazio di Loyola al benedettino Bede Griffiths. Egli interpreta il ben noto episodio della lettura fatta da sant’Ignazio durante la convalescenza — e della sua esperienza di due spiriti all’opera dentro di lui — come prova della «fiducia» negli «indizi» presenti in lui (p. 511), che successivamente lo condussero alla scoperta di Dio. Applicando questo al mondo spirituale contemporaneo, Taylor si guarda bene dal disprezzare la nuova sensibilità spirituale che può di primo acchito apparire distante dal Vangelo. Mentre cerca di percepire il tono della cultura contemporanea, Taylor ci offre una delle migliori sintesi del suo intero approccio: «Tutto questo libro è un tentativo di studiare la sorte della fede religiosa — in senso forte — nell’Occidente moderno. Questo senso forte si può definire con un doppio criterio: da un lato, la fede nella realtà trascendente e, dall’altro, l’aspirazione ad essa collegata a una trasformazione che vada al di là del normale fiorire dell’uomo» (p. 510).
Questa affermazione può essere collocata accanto a un’altra, di natura più personale, che si trova più avanti nel libro, dove Taylor critica i limiti della teoria dominante della secolarizzazione: «Nella nostra vita religiosa, noi rispondiamo a una realtà trascendente. Tutti ne abbiamo una certa consapevolezza, che emerge dalla nostra capacità di identificare e riconoscere alcune modalità di quella che ho definito pienezza, nonché dal nostro cercare di raggiungerla […]. Se io ho ragione e il nostro senso di pienezza è il riflesso della realtà trascendente (che per me è il Dio di Abramo) e tutte le persone possiedono un senso di pienezza, allora non c’è affatto un punto zero» (p.768 s).
In un linguaggio più teologico, l’assenza di un «punto zero» implica l’azione universale dello Spirito, che opera nell’avventura della trascendenza umana. Essa implica anche la fede nell’Incarnazione, e infatti Taylor prende le distanze da ogni «tentativo di disincarnare la vita spirituale» (p. 771). Facendo riferimento alla teologia di sant’Ireneo, egli commenta che, malgrado intere culture possano cadere nella tentazione di vivere per qualcosa che sia meno di Dio, esiste un contro-movimento, che Taylor definisce «pedagogia di Dio»: «Dio sta educando lentamente l’umanità, convertendola lentamente e trasformandola dall’interno» (p. 668).
Il discernimento delle aspirazioni spirituali contemporanee
Taylor dedica un capitolo alla iniziale risposta cattolica all’emergere di nuovi contesti sociali nel XIX secolo, una fase che egli definisce «l’era della mobilitazione». La vita religiosa ricevette un forte impulso (novene, pellegrinaggi, missioni parrocchiali, riviste di devozione) e nello stesso modo ci si impegnò per proteggere l’identità religiosa (sindacati cattolici), spesso con una visione negativa dei «profani». A suo avviso, questa risposta pastorale alla secolarizzazione è fallita soltanto negli ultimi 50 anni, con la comparsa di quella che definisce «l’era dell’autenticità», ovvero la nuova «espressiva» immagine di sé collegata alla rivoluzione culturale degli anni Sessanta e Settanta, le cui radici vanno ricercate nel Romanticismo. Come nei suoi precedenti scritti su questo tema, Taylor riconosce la tendenza potenzialmente limitata e edonista del fine dell’autosoddisfazione, ma egli cerca di evitare un giudizio puramente negativo. Soltanto perché l’ideale di autenticità rischia di essere banalizzato o di trasformarsi in «relativismo debole» (p. 484), questo non significa che tale diffusa sensibilità sia sempre distante dalla fede religiosa. Essa impone un cambiamento nelle priorità pastorali: laddove prima il rapporto con Dio passava attraverso l’appartenenza religiosa, oggi «la vita o la pratica religiosa a cui faccio riferimento non deve essere soltanto una mia scelta, ma deve parlarmi, dev’essere percepita come significativa nei termini della mia crescita spirituale» (p. 486). Taylor afferma che esiste la necessità di un linguaggio spirituale più sottile, ma che «le Chiese trovano difficile parlare alla gente in tale contesto» (p. 493). Egli sostiene che ci troviamo in una nuova situazione, che mina i vecchi presupposti pastorali di un mondo tutto cristiano, ma è anche convinto che «l’aspirazione dell’uomo alla religione» sopravviva a ogni forma di secolarizzazione e che quindi abbiamo bisogno di «forme creative di pratica religiosa» (p. 515), in accordo con la sensibilità di oggi. Si potrebbe rimarcare che le conclusioni a cui Taylor arriva non sono affatto una sorpresa per chiunque abbia familiarità con la teologia contemporanea. Ma il principale contributo del suo libro va ricercato nel discernimento più culturale e filosofico delle complesse radici di questa «ricerca spirituale» (p. 532).
Sarebbe fuorviante dare l’impressione che il cattolicesimo di Taylor non sia presente con forza nei suoi 20 sostanziali capitoli. Anche se non dedica alcuna sezione a un’esplorazione dettagliata della prospettiva della fede, essa entra spesso in argomento in modo significativo. Ad esempio, a un certo punto respinge l’idea riduttiva, ma tipicamente «moderna», che «lo scopo principale della religione sia dare una risposta al bisogno che ha l’uomo di significato» (p. 718). Al contrario, per Taylor la religione è intimamente connessa con un’esperienza spirituale di «autentica pienezza» (p. 600), di trasfigurazione o totalità, radicata in un «rapporto personale di fiducia e confidenza con Dio, piuttosto che nelle nostre motivazioni per aver fatto questa scelta» (p. 550). Invece di dare priorità all’aspetto epistemologico, Taylor vuole sottolineare la dimensione spirituale e cristocentrica della fede. «L’iniziativa di Dio è di penetrare, in totale vulnerabilità, il cuore della resistenza, essere tra gli uomini, offrendo di partecipare alla vita divina» (p. 654). In questa luce «dobbiamo lottare per riscoprire il significato dell’Incarnazione» (p. 753). Più volte egli ribadisce «la grande trasformazione che offre la fede cristiana, l’elevarsi della vita umana al livello del divino (theiôsis)» (p. 737): la prospettiva di condivisione dell’agapè divina amplia l’orizzonte «al di là di quella che viene normalmente considerata la fioritura (flourishing) umana» (p. 430). Come possiamo noi oggi trovare incarnazioni feconde di tale rivelazione? Taylor sembra proporre una convergenza tra spirito e estetica (e anche qui non è lontano da alcune importanti riacquisizioni dei teologi moderni, tra cui Hans Urs von Balthasar, che non viene mai citato). Le testimonianze che Taylor adduce in proposito comprendono una lunga lista di poeti e personaggi letterari, tra i quali non credenti come Hardy, Arnold, Camus o Mallarmé e credenti come Flannery O’Connor, Péguy o Hopkins. Nel commento su Hopkins, troviamo una forte affermazione della sua personale visione religiosa: «Hopkins ritorna al nucleo primario per i cristiani, la comunione, come fine dell’azione di Dio nella creazione. Dio non ci ha creato soltanto perché potessimo vivere secondo le leggi della sua creazione, ma perché partecipassimo del suo amore» (p. 764).
È evidente che l’intento di questo libro ci conduce ben oltre i soliti dibattiti sulla secolarizzazione. Taylor offre una storia e un’analisi in profondità dell’interiorità religiosa e non religiosa. Come abbiamo visto, egli manifesta una certa impazienza nei confronti di ciò che definisce «gli incontestati assiomi della narrativa della sottrazione» (p. 590), secondo i quali la modernità comporta inevitabilmente la perdita della fede. Allo stesso modo non è convinto dalla «falsa» neutralità (p. 560) dell’immanenza laicista, che si presenta come la normalità culturale del mondo di oggi. A suo avviso, invece, «la nostra epoca è ben lontana dall’adagiarsi in un comodo scetticismo» (p. 727). La nuova cultura nata dalla modernità ha cambiato l’intero contesto della religione e quindi le condizioni della possibilità della fede. Ancora più importante, ha dato vita a una diversa sensibilità e a differenti linguaggi di spiritualità. Forse, egli suggerisce, «siamo soltanto all’inizio di una nuova era di ricerca religiosa, i cui esiti nessuno può prevedere» (p. 535). Alla luce di questo, Taylor insiste sulla necessità di nuove forme di impegno religioso, meno dipendenti dal «rituale collettivo» e al tempo stesso «più personali» e «più cristocentriche» (p. 541).
In sintesi, Taylor è convinto che la crisi di fede presente nel mondo di oggi richieda forme e linguaggi di fede rinnovati. Secondo la sua interpretazione della secolarizzazione culturale, è in declino un insieme di priorità ed espressioni ecclesiali adatte a un altro contesto culturale. Ciò di cui si ha bisogno è un discernimento creativo dei desideri sottesi alla situazione attuale, che all’apparenza è imbevuta di laicismo ma può spesso essere espressione di un desiderio spirituale di pienezza. Secondo Taylor, la sensibilità «espressiva» di oggi, che è spesso a rischio di narcisismo, può anche essere reinterpretata come una versione contemporanea di apertura nei confronti del Vangelo. Ciò che appare tanto laicista può dunque esprimere, in modo nascosto, come disse san Paolo agli ateniesi, segnali significativi della capacità di recepire la Buona Notizia di Cristo.
1 Cfr CH. TAYLOR, A Secular Age, Cambridge (Mass.), Belknap Press, 2007.
2 B. Rogers, «Charles Taylor Interviewed», in Prospect Magazine, February 2008 (consultabile online su www.prospect-magazine.co.uk).
3 B. Lonergan, Collection, in Id., Collected Works, vol. 4, Toronto, 1988, 244 (tratto da una conferenza intitolata «Dimensions of meaning»).
4 M. J. Buckley, At the Origins of Modern Atheism, New Haven, Yale, 1987, 341; 346; 362.
5 Taylor ha coniato l’espressione «io compresso» (buffered self) per suggerire una versione di identità umana non più aperta al mondo spirituale e tendente a un’immagine di sé chiusa e protetta. «Questo io può vedersi come invulnerabile, padrone del significato delle cose» (p. 38).