Faust (Russia, 2011).
Regista: Alexandr Sokurov. Interpreti principali: J. Zeiler, A. Adasinskiy, I. Dychauk, G. Friedrich, H. Schygulla, A. Lewald, F. Brückner, S. Skulasson, M. Mehmet.
Gotico nella forma (ambientato in una cittadina nordica tra Medioevo e Rinascimento) ma barocco nello stile (acrobazie della steadicam in perpetuo movimento, uso delle lenti anamorfiche, immagini controllate dal «mago» della fotografia Bruno Delbonnel), mentre i costumi di Lidia Krukova fanno pensare a un XIX secolo idealmente proteso verso il XX, Faust di Alexandr Sokurov, Leone d’oro alla 68a Mostra di Venezia, propone l’ennesima variazione su un personaggio ambiguo (taumaturgo per alcuni, ciarlatano per altri) che ha affascinato artisti di ogni genere e rivive nell’opera immortale di Goethe.
Per chi conosce la storia, le sorprese non sono poche. Niente patto con il diavolo, niente ringiovanimento del vecchio negromante, niente viaggio fantastico, niente sabba romantico né, tanto meno, quello classico. Non c’è Dio né Diavolo. Paradiso e Inferno con conseguenti prospettive di salvezza e dannazione sono relegati in soffitta. L’anima non c’è. Medico figlio di un medico, Faust la cerca invano frugando tra le viscere di un cadavere che sta sezionando.
Nell’abbordare l’inevitabile con-fronto con il testo di Goethe (prima e seconda parte), Sokurov ha eliminato tutte le elucubrazioni filosofiche che fanno del protagonista un sapiente assillato dalla ricerca della verità. Il cinema non è uno strumento adatto per abbordare una materia così sofisticata. Sokurov lo sa, e per questo motivo, scavalcando a piè pari l’esuberante verbosità che fa del testo goethiano un concentrato di ragionamenti reciprocamente concatenati, è andato alla ricerca di un Faust umano, con i piedi per terra. Si è chiesto: chi sono i suoi genitori? Cosa mangia? Come vive? Quali sono gli impulsi che lo animano?
Con l’aiuto di un’abile scenografa (Elena Zhukova) il regista ricostruisce nei pressi di Praga la Cracovia del Faust «storico» e immerge lo spettatore in un ambiente dai colori cupi, dai sapori aspri, dagli odori sgradevoli, facendolo passare per straducole che si inerpicano tra muri scrostati, dentro case, bettole, studi, laboratori, officine, come se fosse ghermito da una macchina del tempo che, colta da un raptus di follia, non esita a mescolare tra loro elementi rubati a epoche diverse.
Facciamo così la conoscenza con il protagonista (Johannes Zeiler) in perenne movimento perché «l’attimo fuggente» non conosce soste, suo padre (Sigurdur Skulasson), più stregone che medico, il suo discepolo Wagner (Georg Friedrich) maldestro e pasticcione. Mefistofele riveste i panni di un vecchio usuraio defome e asessuato (Anton Adasinskiy). Hanna Schygulla, resa irriconoscibile da un’acconciatura che sembra fatta per strangolarla, è la moglie misconosciuta dell’usuraio. Valentino (Florian Brückner) muore per mano di Faust prima che questi abbia incontrato sua sorella Margherita (la quindicenne Isolda Dychauk, raggiante di bellezza). Ciò conferisce all’idillio, che si consuma rapidamente come ogni altra cosa nel film, un ibrido sapore di amore e morte.
Un Faust fuori dal mito? Sarebbe più corretto dire: fuori dalla mitologia. Un uomo, simbolo dell’umanità, che ha smarrito il senso di ciò che, prima di lui, univa il finito con l’infinito, il temporaneo con l’eterno, il contingente con l’assoluto, ed è pertanto costretto a caricarsi sulle spalle il peso enorme che consiste nel segnare con i propri mezzi il confine che separa la bontà dall’abiezione. In questo senso, il Faust di Sokurov tende a collegare l’eroe di Goethe con quello delineato nel 1947 da Thomas Mann nel romanzo Doctor Faustus. Si fa strada nel frattempo l’intenzione, manifestata dall’autore, di dare con questo film un epilogo alla precedente trilogia da lui dedicata a tre personaggi storici: Hitler (Moloch, 1999), Lenin (Taurus, 2001) e Hirohito (Il sole, 2005).
Un Hitler banale e quotidiano offre l’immagine del folle connubio tra orrore e ridicolo. Lenin, giunto al termine della vita, intuisce la fine deludente del sogno rivoluzionario di fronte alle ambizioni di Stalin. Hirohito è costretto a spogliarsi di ogni prerogativa divina. Tre grandi giocatori (orrendamente tristi) colti nel momento in cui stanno per perdere la partita. Dietro di loro, milioni di morti assurde. È questo il futuro che attende l’uomo simboleggiato da Faust. Qui la conclusione della trilogia si salda con le sue premesse, e la tetralogia che ne risulta, appare come un cerchio perfetto.