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Lo schema della Commissione dottrinale preparatoria
Il 23 novembre 1962, mentre l’Assemblea conciliare iniziava a discutere il testo sui mezzi di comunicazione sociale, fu distribuito l’atteso schema De ecclesia, che per un gran numero di vescovi rappresentava la ragion d’essere del Concilio. Molti erano, infatti, coloro che pensavano che il Concilio dovesse innanzitutto completare la dottrina sulla Chiesa ed equilibrare la Costituzione del Vaticano I Pastor aeternus, tutta incentrata sulle prerogative e sui poteri del Papa, in particolare sulla dottrina del primato e dell’infallibilità pontificia.
Quel Concilio, convocato l’8 dicembre 1869, pur avendo elaborato uno schema ecclesiologico completo, aveva deciso di trattare soltanto questa parte, ritenuta in quel momento la più urgente e controversa, in quanto oggetto di attacchi da parte sia del mondo laico sia di alcuni settori interni della Chiesa strettamente legati agli Stati nazionali. In ogni caso il Vaticano I, a causa della guerra franco-prussiana, fu interrotto e aggiornato sine die all’estate del 1870. Ecco perché, quasi un secolo dopo, molti Padri interpretarono la convocazione di un nuovo Concilio come la continuazione di quello precedente. Questo, però, non era il progetto di Giovanni XXIII, il quale, nell’allocuzione di apertura Gaudet mater ecclesia, si mosse in ben altra direzione, sollecitando un Concilio di aggiornamento, aperto al mondo, pastorale e, soprattutto, libero dalle pesanti ipoteche del passato.
Il De ecclesia arrivò in Concilio dopo che erano stati discussi in Assemblea due importanti schemi: quello sulla liturgia, che in qualche modo proponeva una nuova immagine di Chiesa, e quello sulle fonti della Rivelazione, che aveva ricevuto molte critiche e aveva mostrato l’incongruenza degli schemi redatti nella fase preparatoria, ben lontani dalle direttive affidate dal Papa al Concilio. Nel frattempo i Padri erano maturati nella consapevolezza del proprio ruolo, cioè di non essere stati convocati semplicemente per approvare testi già confezionati dalle Commissioni romane, ma per diventare protagonisti attivi della vita del Concilio e per aiutare la Chiesa nella sua missione di aggiornamento e di rinnovato annuncio del Vangelo, secondo lo spirito dei tempi.
Lo schema sulla Chiesa era stato approntato dalla Commissione teologica preparatoria, presieduta dal card. Alfredo Ottaviani, assistito, nella carica di segretario, dal gesuita p. Sebastian Tromp. Essa si attribuiva il ruolo di Supercommissione, incaricata di redigere i testi più importanti – quelli dottrinali, appunto – da portare in Concilio. Molti dei suoi componenti sostenevano infatti che soltanto tale Commissione avesse il diritto di trattare in esclusiva questi argomenti.
Lo schema sulla Chiesa fu redatto da una Sottocommissione, della quale facevano parte i maggiori esperti della materia. Ottaviani affidò al domenicano p. Rosario Gagnebet la direzione del gruppo incaricato della redazione dell’importante testo. La stesura fu portata avanti con il contributo di molti teologi, quasi tutti provenienti dall’ambiente delle università romane, primo fra tutti il professore della Pontificia Università Lateranense don Ugo Emilio Lattanzi. Gli unici due redattori che non facevano parte della «scuola romana» erano il teologo milanese mons. Carlo Colombo (che divenne successivamente teologo di fiducia di Paolo VI) e il professore dell’università di Lovanio mons. Gérard Philips, uomo di fiducia del card. Léon-Joseph Suenens.
Il testo approntato dalla Commissione preparatoria era molto prolisso e si articolava in undici capitoli. Questo schema, nonostante l’impostazione ancora sostanzialmente post-tridentina e scolastica, non soltanto presentava considerevoli innovazioni in ambito ecclesiologico, ma anticipava già alcuni temi – come ad esempio quello della sacramentalità dell’episcopato e il concetto di collegialità – che poi sarebbero stati debitamente sviluppati e armonizzati, nel testo definitivo, in un sistema ben coerente e articolato. Nonostante gli effettivi limiti dottrinali, il testo non meritava e non merita un giudizio così negativo e perentorio come a volte ha ricevuto in sede storica[1].
Particolare attenzione deve essere riservata ai primi capitoli dello schema, perché appaiono come i più coerenti dal punto di vista ecclesiologico e perché «annunciano» le novità e le aperture a cui abbiamo in precedenza accennato.
Il primo capitolo era dedicato alla natura della Chiesa militante, che, sebbene fosse designata come Corpo mistico, veniva descritta in termini giuridico-societari. Essa – si legge nel testo – si presentava nella storia umana non come «plebe» dispersa, ma come «schiera compatta», nell’unità della fede, nella comunione dei sacramenti, nella fedeltà ai vescovi e, in particolare, al successore di Pietro, che Cristo aveva voluto come capo visibile della Chiesa. Il testo poi si impegnava ad analizzare gli elementi costitutivi di tale Corpo mistico, debitamente ordinato e saldamente governato: visibilità della Chiesa; connessione tra le sue membra gerarchicamente ordinate; vitalità della Chiesa, secondo l’analogia evangelica della vite e i tralci; unità mistica della Chiesa in Cristo (che ne è il vero capo) e sua indefettibile santità[2].
Il secondo capitolo trattava dei membri della Chiesa militante. Nessuno – veniva affermato – poteva salvarsi se non era membro della Chiesa di Cristo o se non era ordinato ad essa con il desiderio (ordinatur voto). Anche se – sottolineava il testo – soltanto i battezzati che professavano la fede della Chiesa cattolica, riconoscevano l’autorità del Papa e non si erano separati dal suo Corpo mistico con peccati gravi erano considerati suoi veri e propri membri. In realtà, la posizione espressa nello schema della Commissione preparatoria era quella presente nell’enciclica Mystici corporis di Pio XII, che ammetteva soltanto una ordinatio, cioè una finalizzazione dei cristiani non cattolici alla Chiesa di Gesù Cristo, per cui essi venivano di fatto equiparati a quegli uomini che cercano Dio con cuore sincero, cioè ai non cristiani.
Il terzo capitolo era dedicato alla natura sacramentale dell’episcopato. Questo certamente era uno dei passaggi più importanti dello schema e rappresentava un progresso significativo rispetto all’ecclesiologia post-tridentina.
Il quarto capitolo affermava che l’ordinazione attribuiva ai vescovi, oltre all’ufficio di santificare, anche quelli di insegnare e di governare, aggiungendo che questi esercizi dipendevano dalla missione ricevuta «dal supremo governo della Chiesa». Trattando poi del rapporto dei vescovi residenziali con la Chiesa universale, lo schema dichiarava che i vescovi rappresentavano, a livello di Chiesa particolare, il fondamento e il principio dell’unità e che a partire da essi veniva a costituirsi l’unità stessa della Chiesa universale, di cui il Papa era il capo.
A questo riguardo, il testo faceva riferimento anche all’esistenza di un «collegio episcopale», che succedeva a quello apostolico e che «noi crediamo essere assieme al suo capo, il Romano Pontefice, e mai senza questo capo, l’unico soggetto di piena e suprema potestà in tutta la Chiesa»[3]. Si trattava di una potestà ordinaria, che però veniva esercitata saltuariamente (come, ad esempio, nei Concili ecumenici) e in ogni caso in subordinazione al Papa, e nei limiti da lui ritenuti necessari e opportuni per il bene della Chiesa.
Nello schema erano contenute alcune intuizioni importanti, che però in questa fase si trovavano ancora «scollegate». Da un lato, si parlava della sacramentalità dell’episcopato, e si riconosceva al collegio episcopale anche la «suprema potestà su tutta la Chiesa»; dall’altro, non si affermava esplicitamente che l’ordinazione episcopale rappresentava la premessa necessaria per l’incorporazione nel collegio dei vescovi[4]. Il compito del vescovo era visto ancora in modo troppo individualistico, poiché egli era considerato il capo della Chiesa particolare, come il Papa lo era di quella universale; inoltre, egli riceveva dal Papa, e non dall’ordinazione, il potere di giurisdizione, necessario per svolgere le sue funzioni.
La cultura teologica che fondava la struttura del testo era ancora fortemente improntata a una mentalità giuridico-istituzionale, ispirata alla teoria bellarminiana della Chiesa come societas perfecta, al pari delle organizzazioni statali, e, sebbene si parlasse di collegio apostolico, era il principio gerarchico che teneva insieme il Corpo mistico e ne articolava le singole funzioni.
Genesi di un nuovo schema sulla Chiesa
Fu il cardinale Suenens a chiedere al suo teologo di fiducia, mons. Gérard Philips, di «riprendere, completare e migliorare»[5] lo schema De ecclesia elaborato dalla Commissione preparatoria, di cui il teologo di Lovanio era stato membro. Sembra che sia stato lo stesso Segretario di Stato Amleto Cicognani a fare, in modo riservato, questa proposta al porporato belga[6]. Evidentemente egli desiderava che, oltre allo schema preparato dalla Commissione teologica – che secondo lui aveva poche possibilità di essere approvato nel Concilio –, ce ne fosse un altro alternativo, redatto da teologi in sintonia con le nuove tendenze della teologia contemporanea. Philips accettò di buon grado l’invito, e ne parlò anche con il card. Ottaviani, il quale lo autorizzò a portare avanti il lavoro. Tanto più che il card. Suenens, che considerava lo schema ufficiale inadeguato – e in qualche modo non emendabile – per una presentazione di una compiuta dottrina sulla Chiesa, si era dato da fare anche con altri vescovi – tra cui l’arcivescovo di Milano, card. Montini – per guadagnarli alla sua causa.
In ogni caso, il 18 ottobre 1962 Philips scriveva al teologo domenicano Yves Congar di essere stato incaricato da Suenens di riprendere e «migliorare» il De ecclesia, presentandogli le linee fondamentali di uno schema alternativo[7]. Il cardinale aveva scelto il teologo di Lovanio per questo importante lavoro, perché riteneva che lui, che godeva della stima di Ottaviani e di Tromp, fosse la persona più adatta a realizzare tale compito. Dal punto di vista teologico, infatti, Congar sosteneva posizioni moderate, vicine a quelle appoggiate da Suenens e da altri vescovi «progressisti».
Il 12 novembre Philips, che nel frattempo si era messo in contatto con numerosi teologi e aveva lavorato alacremente sul progetto affidatogli, inviava il nuovo testo a p. Tromp perché venisse sottoposto all’attenzione del card. Ottaviani. Nel frattempo Rahner e Schillebeeckx avevano composto e fatto circolare, tra i teologi e tra i Padri conciliari, alcune «osservazioni critiche» sul De ecclesia[8], molto dure e precise, che spingevano verso il suo completo rigetto. L’operazione Suenens-Philips ebbe il risultato di tenere in vita diverse parti dello schema preparatorio, e soprattutto «lo spirito che lo reggeva»[9].
Va sottolineato che in quel momento Philips presentò il suo lavoro semplicemente come «un insieme di suggerimenti» utili per «migliorare» lo schema ufficiale, e non come un testo alternativo ad esso. Il suo scritto (di cui esistono tre versioni, l’ultima delle quali è redatta in francese[10]) si presentava dunque come molto duttile, aperto a possibili variazioni. Era diviso in cinque capitoli: 1) la Chiesa come mistero; 2) l’appartenenza alla Chiesa; 3) i vescovi; 4) i laici; 5) i religiosi.
Per quanto riguardava il capitolo «laici», si rimandava allo schema ufficiale che Philips stesso aveva contribuito a redigere.
I capitoli più significativi erano i primi tre, che si rivelavano in grado di disegnare una nuova immagine di Chiesa, più vicina alla cultura e alla sensibilità moderna.
Il primo capitolo trattava della Chiesa, allargando il proprio orizzonte non soltanto a quella militante, ma a tutto il «mistero della Chiesa», dalla sua fase terrena fino a quella escatologica. Inoltre, a differenza dello schema ufficiale, era ricco di citazioni e di immagini tratte dalla Bibbia: la Chiesa non era soltanto Corpo di Cristo (secondo la prospettiva della Mystici corporis), ma anche sposa di Cristo e popolo di Dio in cammino nella storia.
Il secondo capitolo riprendeva sostanzialmente quello dello schema De ecclesia, con un significativo cambiamento: si evitava di qualificare l’appartenenza dei cristiani non cattolici alla Chiesa, indicandola con il termine «voto»[11]. Il che non era una semplice variazione semantica.
Il terzo capitolo rappresentava la vera novità del «testo Philips». A differenza dello schema preparatorio, si preoccupava di collegare l’episcopato all’istituzione dei Dodici come collegio apostolico. Non si limitava soltanto a sottolineare il carattere sacramentale dell’episcopato, ma faceva ruotare la concezione dei vescovi attorno al tema della «collegialità».
I due elementi, che nello schema preparatorio apparivano scollegati, perché inseriti in una ecclesiologia ispirata a un modello gerarchico-istituzionale, qui venivano ricomposti e raccordati in una nuova ecclesiologia di comunione, che diventerà la vera pietra angolare della Lumen gentium.
Il dibattito in Concilio sul «De ecclesia»
Il 1° dicembre iniziò, nell’Assemblea conciliare, la discussione dell’atteso schema sulla Chiesa. Essa durò quasi una settimana; la chiusura della prima sessione, infatti, era stata fissata per la festa dell’Immacolata. Il dibattito costituì uno dei momenti più alti della vita del Concilio, mostrando come la «coscienza conciliare» fosse maturata non poco nei due mesi di lavoro. L’Assemblea era così in grado di esprimere orientamenti consapevoli e di riconoscersi in autentici leader.
Sebbene lo schema sulla Chiesa fosse considerato uno dei migliori tra quelli elaborati nella fase preparatoria, diversi Padri sollevarono, in Assemblea plenaria, obiezioni di contenuto molto rilevanti. Era noto, infatti, che la formazione del testo era stata caratterizzata da un duro contrasto tra posizioni diverse circa la dottrina sulla Chiesa: non soltanto tra la Commissione teologica e il Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani (che ne denunciava sia l’impostazione eccessivamente giuridica sia l’assenza di sensibilità ecumenica), ma persino all’interno della stessa Commissione.
Il De ecclesia fu inaspettatamente presentato in Assemblea dallo stesso card. Ottaviani, il quale, dopo aver brevemente illustrato la formazione dello schema, preparato «da circa 70 persone veramente esperte», e dopo aver indicato i criteri che ne avevano guidato la redazione, disse, in tono un po’ provocatorio: «Dico questo perché mi aspetto di sentire le solite litanie dei Padri conciliari: non è ecumenico, non è scolastico, non è pastorale, è negativo, e altre cose del genere. Anzi, voglio farvi una confidenza: ritengo che sia io sia il relatore parleremo invano, giacché la cosa è già pregiudicata […]. Vi rivelo una cosa: prima che questo schema fosse distribuito […], già si preparava un altro schema da sostituire ad esso!»[12]. Il che era vero: oltre allo «schema Philips», già approntato, circolavano infatti, dentro e fuori l’aula conciliare, altri testi variamente abbozzati.
Dopo l’intervento di Ottaviani, che attirò l’attenzione dell’intera Assemblea, mons. Frane Franić presentò in modo sommario le linee generali dello schema. La discussione che ne seguì, e che durò sei giorni, vide schierati i rappresentanti delle due «tendenze». In favore dello schema parlarono i cardinali Ruffini, Siri, Spellman, Browne e altri vescovi, tra i quali mons. Lefebvre e mons. Carli. Alcuni di loro accusarono lo schema di essere troppo pastorale e poco dogmatico. A questo proposito, il card. Siri disse: «Ottimamente lo schema presenta la verità del Corpo mistico, ma la materia deve essere meglio ordinata ed esposta, in modo da far comprendere chiaramente anche la necessità della Chiesa visibile, giuridicamente costituita ecc. Al capitolo sul Magistero sarebbe bene premettere anche un’altra verità generale: la Chiesa visibile e per disposizione divina giuridicamente costituita è sempre viva allo stesso modo nel decorso dei secoli; ciò significa che anche il Magistero ha il medesimo valore nei primi secoli come oggi».
Mons. Marcel Lefebvre criticava l’eccessiva, a suo dire, pastoralità dello schema, essendo compito del Concilio emanare testi dogmatici «e inculcare ai futuri pastori la sana dottrina». E proponeva di redigere per ogni materia due documenti: «uno dogmatico, ad uso degli esperti; l’altro più pastorale, ad uso dei cattolici e dei non cattolici». Per molti di questi vescovi la pastoralità che, secondo l’allocuzione Gaudet mater ecclesia, doveva caratterizzare tutte le decisioni conciliari, riguardava non la natura della dottrina, ma semplicemente la sua messa in opera, cioè la sua «fase esecutiva».
Gli altri interventi furono più moderati e sostanzialmente di sostegno allo schema preparato dalla Commissione teologica. Il card. Francis Joseph Spellman propose che si insistesse maggiormente sulla condizione dei laici nella Chiesa, e che in particolare si potenziasse l’Azione Cattolica. Il card. Ernesto Ruffini lodò lo schema e richiese soltanto alcuni ritocchi circa i poteri dei vescovi e «delle assemblee episcopali».
Molto più numerosi e consistenti nella sostanza furono gli interventi di quasi tutti i cardinali di lingua francese e tedesca – Liénart, König, Alfrink, Bea, Frings, Suenens –, nonché dell’arcivescovo di Milano e di altri vescovi.
Il primo a prendere la parola, dopo la sintetica esposizione dello schema, fu il cardinale di Lille Achille Liénart. Egli adottò un tono conciliante, non aggressivo, ma anche fermo: da un lato, apprezzò alcuni aspetti dello schema, in particolare la dottrina del Corpo mistico; dall’altro, sostenne che alla Chiesa appartenevano anche tutti quelli che erano incorporati a Cristo. «Perciò – egli disse – non si potrebbe affermare che i fratelli separati non appartengono in alcun modo al Corpo mistico. [È necessario] ritoccare, quindi, il testo in tal senso, anzi rivedere tutto lo schema, in modo da presentare la Chiesa di Cristo meno sotto l’aspetto giuridico e più nella sua natura mistica».
Anche il cardinale olandese Bernard Alfrink insistette su questo punto: «Ottimamente si parla della Chiesa come Corpo mistico, ma forse si insiste troppo sull’aspetto esteriore di questa immagine biblica, parlando in maniera insufficiente della vita interiore di tale organismo». Subito dopo il porporato venne al centro della questione ecclesiologica, affermando: «Perché restringere la trattazione ai soli vescovi residenziali (un buon terzo, in Concilio, non lo sono), e non parlare dell’episcopato in quanto tale? Ciò che [lo schema] dice del collegio episcopale, inoltre, è espresso in maniera piuttosto negativa e quasi restrittiva». Invitò quindi a considerare la materia in modo più organico e coerente.
Uno degli interventi più significativi non soltanto di quella memorabile giornata, ma dell’intero Concilio, fu quello di mons. Emiel-Jozef De Smedt, vescovo di Bruges, in Belgio, e autorevole esponente del Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani. Egli articolò il suo lungo discorso denunciando i tre «ismi» dello schema: trionfalismo, clericalismo e giuridicismo. Disse che il testo era scritto con uno stile pomposo, che rivelava uno spirito trionfalistico, che non aveva nulla in comune con la realtà della Chiesa come popolo di Dio. Denunciò inoltre la natura eccessivamente clericale del testo, dove tutto era organizzato in modo gerarchico e discendente. Fece notare che «anche il Papa e i vescovi sono prima di tutto fedeli, al cui sacro ministero gerarchico Cristo ha affidato il compito di servire, governare e santificare il popolo di Dio». Disse che bisognava approfondire l’antico concetto di Chiesa come madre, mentre nel testo c’è «un linguaggio soltanto giuridico e aprioristico, a base di sillogismi: gli altri [i non cattolici], quindi, non sono figli della Chiesa in senso proprio. Una madre non parlerebbe così».
Nei giorni successivi, altri cardinali appoggiarono posizioni già espresse dagli oppositori dello schema. Tra gli interventi più significativi ricordiamo quelli dei cardinali Léon-Joseph Suenens e Augustin Bea. L’arcivescovo di Malines-Bruxelles denunciò innanzitutto l’assenza, nel Concilio, di un vero e proprio piano di lavoro, «in modo da poter unificare i lavori futuri intorno a un tema centrale e direttivo, secondo il quale armonizzare, come parti di un tutto, i lavori delle diverse Commissioni». A tale proposito citò il radiomessaggio di Giovanni XXIII dell’11 settembre 1962, nel quale il Papa salutava il Concilio con le parole: Ecclesia Christi, lumen gentium.
«Sia questo – auspicava il porporato – il Concilio della Chiesa e abbia due aspetti: Ecclesia ad intra ed Ecclesia ad extra». Trattando del primo aspetto, disse che esso riguardava la Chiesa come mistero di Cristo che vive nel suo Corpo mistico: «Domandiamole: che cosa dici di te stessa?». E dopo aver trattato della natura della Chiesa, si deve considerare la sua azione in ordine alla missione, alla catechesi, ai sacramenti e alla liturgia: l’Ecclesia ad extra – continuava il cardinale – riguarda il suo «dialogo con il mondo, il quale attende che la Chiesa risponda ai suoi problemi» circa la vita della persona umana, la giustizia sociale, l’evangelizzazione dei poveri «e le condizioni richieste affinché il nostro messaggio giunga ad essi e sia accolto», circa la pace a livello internazionale e la guerra.
In questa linea, il giorno successivo (5 dicembre) il card. Giovanni Battista Montini sottolineò la «somma importanza» del tema della Chiesa per il Concilio, affermando che «tutte le questioni da esaminare possono imperniarsi intorno a due punti: che cos’è; che cosa fa la Chiesa». Anche l’arcivescovo di Milano, come altri relatori, chiese che lo schema fosse riveduto dalle Commissioni competenti e dal Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani.
Il 6 dicembre, un messaggio del Papa fissava il programma del lavoro da svolgere nel lungo periodo di intersessione: si sottolineava la necessità di rispettare le finalità del Concilio, nonché di rivedere gli schemi secondo le indicazioni ricevute, e inoltre – aspetto non secondario – la necessità di semplificare e armonizzare la materia da sottoporre all’Assemblea plenaria.
Per venire incontro a queste istanze, Giovanni XXIII nominò una Commissione di coordinamento, presieduta dal Segretario di Stato. Di essa facevano parte sei cardinali: Confalonieri, Döpfner, Liénart, Spellman, Suenens e Urbani.
L’istituzione di tale Commissione fu interpretata come segno che non era indispensabile il voto dell’Assemblea sul De ecclesia. I Padri avevano fatto 77 interventi su quello schema, ed era chiaro ai più che, anche senza un voto finale, esso andava non soltanto ritoccato in alcune parti, ma addirittura ripensato e riscritto nel suo insieme[13].
Verso un nuovo schema sulla Chiesa
La Commissione dottrinale si riunì il 21 febbraio 1963, per riprendere i lavori a partire dalle indicazioni fornite dall’Assemblea conciliare. Per quanto riguarda il De ecclesia, fu istituita una Sottocommissione di sette membri (Léger, König, Parente, Charue, Garrone, Schröffer, Browne), ognuno dei quali poteva scegliere un proprio teologo di fiducia. Questa inattesa composizione della Sottocommissione dava certamente maggiore forza alla componente «maggioritaria»: cinque dei suoi membri, infatti, appartenevano a tale corrente, anche se Ottaviani aveva voluto che la presidenza fosse affidata a un suo sostenitore (il card. Browne).
La Sottocommissione iniziò i suoi lavori pochi giorni dopo, il 26 febbraio. In quella occasione fu letta una comunicazione (o voto) del Segretario di Stato card. Cicognani, che imponeva ai «sette» di non intraprendere la redazione di un nuovo schema (ne quid novi fieret), ma di lavorare su quello presentato in Concilio, emendandolo e riordinandone i capitoli. Ma questa indicazione, nonostante il tono tassativo, non fu presa in considerazione dalla Sottocommissione, che decise di lavorare liberamente, tenendo presenti soltanto le indicazioni del Concilio.
L’insoddisfazione per lo schema preparato dalla Commissione teologica preparatoria aveva fatto in modo che in quei pochi mesi venissero preparati altri testi alternativi sulla Chiesa, più o meno elaborati, oltre naturalmente lo «schema Philips» già pronto e già diffuso in diversi ambienti. Sul numero dei testi che circolavano in quel momento esistono diverse versioni[14]; in ogni caso, soltanto cinque erano in mano ai membri della Sottocommissione, e i membri della Commissione presero visione soltanto di essi.
Il primo testo era quello preparato da mons. Pietro Parente, stretto collaboratore di Ottaviani. Il secondo era uno schema in lingua tedesca redatto da un gruppo di teologi e discusso a Monaco di Baviera all’inizio di febbraio. Il terzo era un testo preparato da alcuni teologi francesi, ai quali i vescovi avevano chiesto ragguagli in merito al progetto ufficiale. Il quarto era il cosiddetto «testo cileno», preparato dai teologi latinoamericani, che valorizzava la categoria della Chiesa come popolo di Dio; era uno schema molto prolisso e ripetitivo (composto di 12 capitoli e lungo 89 pagine), e questo lo penalizzò molto. Il quinto era lo «schema Philips», fondato, come scrive p. Christoph Theobald, «sull’idea di compromesso»[15] e di mediazione e sostenuto da molti vescovi francofoni. Il 25 novembre 1962 esso era sostanzialmente terminato, e fu successivamente rivisto e completato il 12 gennaio 1963.
Dopo una lunga discussione, i «sette» decisero di abbandonare il testo ufficiale e di utilizzare come base per i successivi lavori lo «schema Philips», da integrare con altri testi, incluso quello di Parente. Occorre notare che i cinque schemi presentati in Sottocommissione non erano testi del tutto antitetici, ma avevano diversi elementi in comune: a volte, in alcune parti, essi si integravano tra loro[16]. Va anche ricordato che molti dei teologi che prepararono questi schemi si conoscevano e concordavano tra loro su diversi punti. Per cui lo schema francese – molto attento alla cosiddetta «ecclesiologia di comunione» – assunse larghi estratti di quello di Philips, mentre quello belga (il cui autore era in relazione con quasi tutti gli estensori dei testi) trasse diversi spunti da quello tedesco – ad esempio, il tema della dimensione sacramentale della Chiesa e della sua dimensione storica in quanto popolo di Dio[17] –, e viceversa.
In ogni caso, che la scelta dei «sette» si orientasse verso lo «schema Philips»[18], che da tempo circolava tra i vescovi e teologi transalpini, sembrava a molti cosa pacifica, sia per l’autorevolezza del suo autore, che contava sostenitori da ambedue i fronti (era infatti considerato un abile mediatore e un «pacificatore»), sia per la moderazione dello stesso schema, giudicato come una sorta di «via media», tra le posizioni sostenute dall’antico schema e quelle più progressiste avanzate dal «gruppo franco-tedesco», che aveva un notevole seguito nel Concilio[19].
Verso la «Lumen gentium»
Il 3 luglio 1963, dopo la morte di Giovanni XXIII e l’elezione di Paolo VI al soglio pontificio, la Commissione di coordinamento discusse sull’«ammissibilità» del nuovo schema. Esso incontrò il favore della maggioranza dei membri della Commissione; in particolare, il card. Suenens propose di modificare la ripartizione degli argomenti, e quindi di inserire tra il capitolo primo (quello sul mistero della Chiesa) e il secondo (quello sulla gerarchia) un nuovo capitolo sul «popolo di Dio». Alla fine, egli dispose la seguente formulazione dello «schema Philips»: 1) De ecclesiae mysterio; 2) De populo Dei in genere; 3) De constitutione hierarchica ecclesiae; 4) De laicis in specie; 5) De vocatione ad sanctitatem in ecclesia.
Questa ristrutturazione aveva un significato teologico ed ecclesiologico molto importante: poneva fine alla visione gerarchico-piramidale della Chiesa, e in particolare dimostrava che i vescovi, i laici e i religiosi facevano tutti parte del popolo di Dio, la cui trattazione aveva la precedenza sul capitolo dedicato alla gerarchia.
Come era prevedibile, per la Commissione non fu facile far accettare questa posizione; in ogni caso si decise di non apportare questa ultima modifica, perché non era stata discussa dalla Commissione teologica, e di «tenerla in serbo» per la seconda fase. E così avvenne.
Il Concilio, che continuava il suo cammino con Paolo VI, nella seconda sessione presentò dunque un nuovo schema sulla Chiesa, che iniziava con le parole profetiche Lumen gentium[20].
Come è noto, l’iter di questo schema nel Concilio non fu facile, anzi fu molto contrastato sotto diversi aspetti; ma ciò non rientra nell’oggetto del nostro studio. Alla fine lo schema, con ulteriori e importanti modifiche, riuscì a guadagnare il consenso della quasi totalità dei Padri conciliari, e nel terzo periodo del Concilio, il 21 novembre 1964, fu approvato con il 99% dei placet (2.151 voti favorevoli, e soltanto 5 contrari). Fu una grande vittoria per tutti e, come disse Paolo VI, una benedizione per la Chiesa, che ormai era entrata in sintonia con il mondo contemporaneo. Oggi, a più di mezzo secolo di distanza, ci è possibile cogliere appieno la portata e la grandezza di quell’evento.
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FROM «DE ECCLESIA» TO THE «LUMEN GENTIUM»
The formation of a Constitution on the Church was certainly one of the highest and most pressing moments of the Second Vatican Council. Using the interpretative category of the «event», which is actually concerned with historical research, reconstruction and critical evaluation of the facts, this article seeks to study, in its initial stage, the formation of the dogmatic Constitution on the Church Lumen gentium, particularly the «passage» from the De ecclesia, drafted by the preparatory doctrinal commission (1960-62), to the «Philips scheme», which will serve as a basis for the future Constitution.
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[1]. Cfr G. Alberigo (ed.), Storia del Concilio Vaticano II. Vol. 2. La formazione della coscienza conciliare (ottobre 1962 – settembre 1963), Lovanio – Bologna, Peeters – il Mulino, 1998, 313.
[2]. Cfr ivi, 314.
[3]. Testi citati in G. Alberigo (ed.), Storia del Concilio Vaticano II. Vol. 2…, cit., 315.
[4]. Cfr K. Schatz, Storia dei Concili. La Chiesa nei suoi punti focali, Bologna, EDB, 1997, 289.
[5]. Y. Congar, Mon Journal du Concile, I, Paris, Cerf, 2002, 119.
[6]. Cfr K. Schelkens, Carnets conciliaires de Mgr Gérard Philips, Secrétaire Adjoint de la Commission Doctrinale, Louven, Routhier – Schelkens, 2006, 38.
[7]. Cfr L. J. Suenens, Souvenirs et espérances, Paris, Fayard, 1991, 114.
[8] . Cfr J. W. O’Malley, Che cosa è successo nel Vaticano II, Milano, Vita e Pensiero, 2010, 156.
[9] . Ch. Theobald, La recezione del Vaticano II. Vol. 1. Tornare alla sorgente, Bologna, EDB, 2011, 266; cfr A. Acerbi, Due ecclesiologie. Ecclesiologia giuridica ed ecclesiologia di comunione nella «Lumen gentium», Bologna, Dehoniane, 1975.
[10]. Questo testo fu presentato in una conferenza del 26 novembre, tenutasi al Collegio belga di Roma, alla quale parteciparono diversi teologi, tra cui Rahner, Congar, Ratzinger e Daniélou. In quella occasione fu anche ventilata la possibilità che il testo potesse fungere da schema alternativo a quello ufficiale. Cfr G. Alberigo (ed.), Storia del Concilio Vaticano II. Vol. 2…, cit., 327, nota 26.
[11]. Sebbene «realmente (e in senso pieno) siano membri della Chiesa solo coloro i quali, oltre ad aver ricevuto il battesimo, conservano anche i legami della vera professione di fede e della comunione gerarchica», tuttavia «gli altri cristiani che vivono al di fuori della Chiesa e della comunità cattolica sono uniti ad essa con vari legami sacramentali, giuridici, anzi spirituali» (ivi, 328).
[12]. G. Caprile, Il Concilio Vaticano II. Primo periodo 1962-1963, Roma, La Civiltà Cattolica, 1968, 238. Tutti i testi citati in questo paragrafo sono tratti da questo volume (pp. 238-259).
[13]. Cfr W. O’Malley, Che cosa è successo nel Vaticano II, cit., 161.
[14]. Cfr U. Betti, «Cronistoria della Costituzione», in G. Baraúna (ed.), La Chiesa del Vaticano II, Firenze, Vallecchi, 1965, 136 s.
[15]. Ch. Theobald, La recezione del Vaticano II. Vol. 1. Tornare alla sorgente, cit., 262.
[16]. Cfr G. Alberigo (ed.), Storia del Concilio Vaticano II. Vol. 2…, cit., 432.
[17]. Cfr K. K. Schatz, Storia dei Concili. La Chiesa nei suoi punti focali, cit., 288.
[18]. La decisione presa dai «sette» di usare lo «schema Philips» come base di lavoro fu molto criticata dal card. Ottaviani e da p. Tromp. In una riunione della Commissione teologica del 5 marzo, essi affermarono che i «sette» avevano oltrepassato i limiti di competenza loro affidati e che non potevano abbandonare lo schema ufficiale, anche perché solo questo era stato approvato dal Papa. In realtà Giovanni XXIII non aveva approvato i progetti della Commissione preparatoria, ma semplicemente ne aveva autorizzato l’invio ai vescovi, il che non era la stessa cosa. Lo «schema Philips» inoltre fu accusato di essere pericoloso, pomposo e relativista dal punto di vista dottrinale, e non adatto, per il suo stile, a diventare un documento dottrinale. Alla fine esso fu accolto dalla plenaria della Commissione, e così divenne il nuovo testo di riferimento. Cfr G. Alberigo (ed.), Storia del Concilio Vaticano II. Vol. 2…, cit., 434 s.
[19]. Cfr J. Grootaers, «Le rôle de Mgr. G. Philips à Vatican II», in Ecclesia in Spiritu Sancto edocta. Lumen gentium 53, Duculot, Gembloux, 1970, 355.
[20]. Cfr G. Sale, «Paolo VI. Chiesa e dialogo con il mondo», in Civ. Catt. 2014 I 253-268.