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«Con cuore di padre […] Giuseppe ha amato Gesù»: così esordisce la Lettera apostolica Patris corde, che fa memoria di un anniversario di 150 anni fa. L’8 dicembre 1870, Pio IX ha proclamato san Giuseppe «Patrono della Chiesa universale», per dare risalto al «suo ruolo centrale nella storia della salvezza»[1].
Papa Francesco esprime «ciò che nel suo cuore sovrabbonda». In questo tempo di crisi e di pandemia, le nostre vite sono sostenute da persone comuni che non compaiono nei titoli dei giornali, eppure segnano la nostra vita: «medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose, e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo. […] Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare la crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera». Tutte le persone che lavorano, pregano e soffrono per il bene comune «possono trovare in San Giuseppe un intercessore, l’uomo che passa inosservato, l’uomo della presenza quotidiana, discreta e nascosta, un sostegno e una guida. […] A tutti loro va una parola di riconoscimento e di gratitudine»[2].
Nello svolgimento della Lettera il Papa ci confida anche la rilevanza quotidiana che ha per lui il santo. Ogni giorno, da 40 anni, egli conclude la recita delle Lodi con una preghiera: «Glorioso Patriarca San Giuseppe, il cui potere sa rendere possibili le cose impossibili, vieni in mio aiuto in questi momenti di angoscia e difficoltà. […] Mio amato Padre, tutta la mia fiducia è riposta in te. Che non si dica che ti abbia invocato invano, e poiché tu puoi tutto presso Gesù e Maria, mostrami che la tua bontà è grande quanto il tuo potere. Amen»[3]. La preghiera esprime fiducia, ma anche una certa sfida a san Giuseppe, che può chiedere anche l’impossibile a Gesù e a Maria. È nota, anche da altri particolari, la devozione di Francesco: prima da vescovo, poi da cardinale, e infine da pontefice, ha inserito nel proprio stemma il nardo, simbolo di san Giuseppe; inoltre egli ha iniziato il ministero petrino proprio il 19 marzo del 2013, giorno della solennità; sulla scrivania ha una statuetta del santo «dormiente», sotto la quale depone foglietti con i problemi difficili da affrontare, invocando il suo aiuto. Infine egli ha aggiunto, sia pure per volontà di Benedetto XVI, accanto a quello di Maria il nome di «Giuseppe, suo sposo», nelle preghiere eucaristiche del Messale, come era già presente da tempo nel Canone Romano.
La paternità
San Giuseppe è stato lo sposo di Maria e il padre di Gesù: sono i due dati fondamentali che emergono dalla Scrittura. Nel Vangelo di Matteo, Giuseppe è chiamato lo «sposo di Maria» (1,16.19) ed è definito «uomo giusto» (1,19). In tutti e quattro i Vangeli è detto «padre di Gesù» (Lc 4,22; Gv 6,42; cfr Mt 13,55 e Mc 6,3), e ha assunto la sua paternità legale dando al Bambino il nome rivelato dall’angelo (cfr Mt 1,21). Dare il nome è segno di appartenenza e indica anche l’identità e la vocazione di una persona. «Gesù» in ebraico significa «Salvatore»: «Egli infatti salverà il popolo dai suoi peccati».
«Sposo» e «padre» definiscono la missione affidata a Giuseppe dalla Provvidenza. Egli «ha avuto il coraggio di assumere la paternità legale di Gesù»[4]. Si tratta del problema principale della biografia del santo, che definisce il ruolo niente affatto marginale da lui svolto nella storia. Nella società ebraica, chi non ha padre, e quindi un nome, ed è nato al di fuori di un vincolo matrimoniale, non ha diritto di parola in pubblico ed è escluso dalla vita sociale. Senza la paternità di Giuseppe, Gesù non avrebbe potuto annunciare il Vangelo e svolgere la sua missione[5]. Per noi moderni «padre» è chi ha dato la vita, non chi ha adottato un bimbo, mentre nell’Antico Testamento il padre legale è il vero padre. Quindi la genealogia di Giuseppe determina l’identità di Gesù: nel Vangelo è messo in rilievo sia dai racconti dell’infanzia[6], sia dai passi che denotano il concepimento verginale di Maria[7].
Tuttavia, il tratto più originale della Lettera è forse il rilievo che il Papa dà allo spessore spirituale del santo. Finora l’accento era posto, oltre che sulla paternità, sul mestiere di Giuseppe, il falegname. Francesco invece pone in primo piano alcune qualifiche, per lo più lasciate in sordina: «Padre amato, Padre nella tenerezza, Padre nell’obbedienza, Padre nell’accoglienza, Padre dal coraggio creativo» (nn. 1-5). Sono i tratti dell’animo di Giuseppe e della sua spiritualità, ma anche i valori che fanno sentire il santo più vicino a noi, quasi sul nostro stesso piano.
Padre amato
San Giuseppe è un Padre amato dal popolo cristiano. Francesco cita in proposito san Giovanni Crisostomo, che elogia il suo mettersi «al servizio dell’intero disegno salvifico» (n. 1), e san Paolo VI, che ribadisce il ruolo della paternità: essa consiste «nell’aver fatto della sua vita un servizio, un sacrificio, al mistero dell’incarnazione e alla missione redentrice che vi è congiunta; nell’aver usato dell’autorità legale, che a lui spettava sulla sacra Famiglia, per farle totale dono di sé, della sua vita, del suo lavoro; nell’aver convertito la sua umana vocazione all’amore domestico nella sovrumana oblazione di sé, del suo cuore e di ogni capacità, nell’amore posto a servizio del Messia germinato nella sua casa» (ivi). Non a caso a Giuseppe sono state dedicate numerose chiese in tutto il mondo; a lui si riferiscono molti Istituti religiosi, confraternite, gruppi ecclesiali, che recano il suo nome e lo onorano con la spiritualità e la testimonianza[8].
Padre nella tenerezza
«Gesù – mentre cresceva in sapienza, età e grazia – ha visto la tenerezza di Dio in Giuseppe» (n. 2). Come Dio ha fatto con Israele, così Giuseppe ha insegnato a Gesù «a camminare, tenendolo per mano: era per lui come il padre che solleva un bimbo alla sua guancia, si chinava su di lui per dargli da mangiare» (ivi).
Originale è qui il rapporto tra tenerezza e debolezza umana, che Francesco riprende dall’Evangelii gaudium: la storia della salvezza si compie anche attraverso le nostre debolezze e fragilità, che spesso è difficilissimo accettare[9]. Ma se questa è la prospettiva salvifica, «dobbiamo imparare ad accogliere la nostra debolezza con profonda tenerezza» (ivi). Così agisce in noi lo Spirito di Dio: mentre il maligno giudica e condanna le nostre debolezze, lo Spirito le tocca con affetto, le porta alla luce con dolcezza, fino a farci sperimentare la misericordia divina.
Proprio attraverso le angustie di Giuseppe passa il progetto salvifico, dove aver fede significa credere che il Signore possa realizzare il suo piano anche attraverso le nostre fragilità: «In mezzo alle tempeste della vita, non dobbiamo temere di lasciare a Dio il timone della nostra barca. A volte noi vorremmo controllare tutto, ma Lui ha sempre uno sguardo più grande» (ivi).
Padre nell’obbedienza
Quando Giuseppe viene a sapere che la sposa è incinta, il dramma si staglia sulla giovane coppia. Egli decide di rimandare in segreto Maria, non solo per non creare scandalo, ma perché, essendo «uomo giusto», vuole rispettare il piano di Dio. Nel sogno, Giuseppe riceve la sua annunciazione: «Non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» (Mt 1,20). «Con l’obbedienza egli superò il suo dramma e salvò Maria» (n. 3).
Lo stesso accade quando Giuseppe deve fuggire in Egitto, quando gli viene ordinato di tornare indietro, quando occorre stabilirsi a Nazaret. Come Maria nell’annunciazione, Giuseppe ha saputo pronunciare il suo fiat. E insegna anche a Gesù a fare altrettanto, cioè a essere sottomesso ai suoi genitori (cfr Lc 2,51).
In Israele, il ruolo del padre nella famiglia ha una tradizione specifica per l’educazione dei figli. Scrive uno storico dell’Antico Testamento: «Dopo la prima istruzione ad opera della madre (cfr Pr 1,8; 6,20), il dovere di educare passava al padre. Questa educazione non comprendeva soltanto l’avvio a leggere e a scrivere e la formazione professionale, ma anche l’istruzione morale e religiosa»[10]. Giuseppe dunque insegna a Gesù a onorare il padre e la madre, secondo il comandamento divino di Es 20,12.
Nel nascondimento di Nazaret, per quanto possa sembrare paradossale, Gesù impara da Giuseppe a compiere la volontà del Padre. «Tale volontà divenne suo cibo quotidiano (cfr Gv 4,34). Anche nel momento più difficile della sua vita, vissuto nel Getsemani, [Gesù] preferì fare la volontà del Padre e non la propria e si fece “obbediente fino alla morte […] di croce” (Fil 2,8). Per questo l’autore della Lettera agli Ebrei (Eb 5,8) conclude che Gesù “imparò l’obbedienza da ciò che patì”» (n. 3).
Padre nell’accoglienza
Francesco sottolinea il modo originale in cui «Giuseppe accoglie Maria senza mettere condizioni preventive» (n. 4) e fidandosi delle parole dell’angelo. Qui il Papa inserisce una nota di drammatica attualità: «La nobiltà del suo cuore gli fa subordinare alla carità quanto ha imparato per legge; e oggi, in questo mondo nel quale la violenza psicologica, verbale e fisica sulla donna è evidente, Giuseppe si presenta come figura di uomo rispettoso, delicato che, pur non possedendo tutte le informazioni, si decide per la reputazione, la dignità e la vita di Maria. E nel suo dubbio su come agire nel modo migliore, Dio lo ha aiutato a scegliere illuminando il suo giudizio» (ivi)[11].
La vita che Giuseppe ci mostra non è «una via che spiega, ma una via che accoglie» (ivi). Tale accoglienza lascia intuire una profonda interiorità, che non a caso potrebbe richiamare il dramma di Giobbe, quando la moglie lo spinge a ribellarsi a Dio per il male che lo ha colpito: «Se da Dio accettiamo il bene, – egli risponde – perché non dovremmo accettare il male?» (Gb 2,10). L’accoglienza è il modo con cui nella vita si nota il dono della fortezza che viene dallo Spirito Santo e induce a dare spazio anche alla «parte contraddittoria, inaspettata, deludente dell’esistenza» (n. 4).
Le parole dell’angelo a Giuseppe insegnano ad accogliere non con rassegnazione, ma con fortezza colma di speranza ciò che dobbiamo affrontare e non abbiamo scelto. In tale contesto, è essenziale seguire il Vangelo là dove tutto pare rivoltarcisi contro. Anche se alcuni fatti della vita sembrano aver preso una piega «sbagliata» e sono irreversibili, «Dio può far germogliare fiori tra le rocce» (ivi). Il realismo cristiano non butta via nulla di ciò che esiste. La realtà, nelle sue misteriose irriducibilità e complessità, è portatrice di un significato dell’esistenza con le sue luci e ombre. Giuseppe «non cerca scorciatoie, ma affronta “ad occhi aperti” [la realtà]» (ivi) e ci insegna ad accogliere gli altri così come sono, ma avendo una predilezione per i deboli, perché Dio sceglie ciò che è debole (cfr 1 Cor 1,27), è padre degli orfani e delle vedove (cfr Sal 68,6), e comanda di amare lo straniero[12].
Padre dal coraggio creativo
Papa Francesco, accanto al prodigio dell’accoglienza, rileva il coraggio della creatività. E lo inserisce dopo aver fatto l’elogio dell’obbedienza di Giuseppe, che non è un’obbedienza passiva, preoccupata di eseguire il comando ricevuto, ma quella di chi usa la propria intelligenza, l’esperienza di vita, la sapienza che gli è stata tramandata. Il Papa ricorda le peripezie della fuga in Egitto, in cui Giuseppe «non esitò ad obbedire, senza farsi domande sulle difficoltà a cui sarebbe andato incontro» (n. 3). E sulla via del ritorno, quando ha saputo che nella Giudea regnava Archelao, ha avuto paura di tornarvi e ha deciso di recarsi a Nazaret (cfr Mt 2,21-23). Ecco il coraggio creativo, che non è in contrasto con l’obbedienza, e tuttavia rivela la responsabilità di fronte alle circostanze nuove che si sono create.
Questo coraggio è dato dalle forze che si trovano in noi per affrontare difficoltà impreviste o ostacoli che appaiono insormontabili. Ma davanti alle difficoltà, se non si getta la spugna, ci si può ingegnare: proprio le difficoltà fanno emergere in noi risorse impensabili, rivelano ricchezze inesauste. I Vangeli dell’infanzia presentano Gesù che sembra essere in balìa dei forti e dei dominatori: quante volte siamo tentati di chiederci perché Dio non intervenga! Eppure Dio realizza il suo piano di salvezza: «Giuseppe è il vero “miracolo” con cui Dio salva il Bambino e sua madre» (n. 5), perché il Signore salva sempre ciò che conta. In questo modo Giuseppe ci insegna a saper trasformare un problema in un’opportunità creatrice, perché sa mettere davanti a tutto la fiducia nella Provvidenza. «Se certe volte Dio sembra non aiutarci, ciò non significa che ci abbia abbandonati, ma che si fida di noi, di quello che possiamo progettare, inventare, trovare» (ivi).
Interessante qui il cenno a san Giuseppe «patrono dei migranti», di quanti sono costretti a lasciare la propria terra a causa della carestia, delle guerre, delle persecuzioni, della miseria.
Il Figlio e la Madre
In tale contesto Francesco riprende una preziosa indicazione del Vaticano II: «Nel piano della salvezza non si può separare il Figlio dalla Madre, da colei che “avanzò nella peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce”» (n. 5)[13]. Giuseppe, proteggendo il Bambino e sua madre – l’immagine della Chiesa –, ne diviene il «custode»[14]: «Il Figlio dell’Onnipotente viene nel mondo assumendo una condizione di grande debolezza. Si fa bisognoso di Giuseppe per essere difeso, protetto, accudito. Dio si fida di quest’uomo, così come fa Maria, che in Giuseppe trova colui che non solo vuole salvarle la vita, ma che provvederà sempre a lei e al Bambino. In questo senso il santo non può non essere il Custode della Chiesa, perché la Chiesa è il prolungamento del Corpo di Cristo nella storia, e nello stesso tempo nella maternità della Chiesa è adombrata la maternità di Maria[15]. Continuando a proteggere la Chiesa, Giuseppe protegge il Bambino e sua madre, e anche noi amando la Chiesa continuiamo ad amare il Bambino e sua madre» (ivi). Qui, in maniera originale, viene inserita la citazione di Mt 25,40: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». Con la conclusione: «Così ogni bisognoso, ogni povero, ogni sofferente, ogni moribondo, ogni forestiero, ogni carcerato, ogni malato sono “il Bambino” che Giuseppe continua a custodire. Ecco perché San Giuseppe è invocato come protettore dei miseri, dei bisognosi, degli esuli, degli afflitti, dei poveri, dei moribondi» (n. 5). E questa è anche la missione fondamentale della Chiesa: amare gli ultimi, gli abbandonati, gli scarti della società. In ognuna di queste persone è presente il Signore. Ce lo insegna Giuseppe: amare il Bambino e sua madre, cioè i sacramenti e la carità, la Chiesa e i poveri.
Padre lavoratore
Nella Rerum novarum, la prima enciclica sociale, Leone XIII ha messo in evidenza il rapporto di san Giuseppe con il lavoro. Il santo era un carpentiere – in greco tektōn (Mt 13,55; Mc 6,3) –, termine che gli ha determinato diverse attribuzioni: «operaio», «falegname», «capomastro», e così via[16]. Il santo ha «lavorato onestamente per garantire il sostentamento della sua famiglia. Da lui Gesù ha imparato il valore, la dignità e la gioia di ciò che significa mangiare il frutto del proprio impiego» (n. 6). Francesco dà rilievo all’importanza del lavoro, che oggi rappresenta un’urgente questione sociale, dovuta alla mancanza di lavoro per i giovani: il lavoro dà dignità alla persona, e la disoccupazione è una piaga per la società.
Tuttavia il Papa ribadisce con insistenza che «il lavoro diventa partecipazione all’opera stessa della salvezza. […] Diventa occasione di realizzazione non solo per se stessi, ma soprattutto per quel nucleo originario della società che è la famiglia» (ivi). Una famiglia dove manca il lavoro è esposta inevitabilmente a conflitti e tensioni e alla «tentazione disperata e disperante del dissolvimento» (ivi). La crisi che oggi attanaglia la società non è solo economica, culturale e spirituale, ma è anche segno dell’esigenza di riscoprire il valore e la necessità del lavoro, per ricreare una «nuova normalità», in cui nessuno venga escluso. «Il lavoro di san Giuseppe ci ricorda che Dio stesso fatto uomo non ha disdegnato di lavorare» (ivi) e che Gesù ha lavorato fino all’età di 30 anni[17]. È fondamentale oggi che tutti, ma soprattutto i giovani, abbiano un lavoro (cfr ivi).
Padre nell’ombra
L’ultimo punto della Lettera ha un titolo misterioso: Padre nell’ombra. Fa riferimento a uno scrittore polacco che ha narrato in un romanzo la vita di Giuseppe come l’ombra del Padre Celeste sulla terra: questa lo segue, lo custodisce, lo protegge, non si stacca mai da lui per seguirlo nei suoi passi[18]. È il modo in cui Giuseppe ha esercitato la paternità lungo tutta la vita, sempre rimanendo nell’ombra, ma assumendosi i doveri di padre, poiché «padri» non si nasce, ma si diventa, e non tanto perché si è messo al mondo un figlio, ma perché si è responsabili nei suoi confronti e lo si ama (cfr n. 7).
Non manca un’osservazione di attualità: nella società di oggi, spesso i figli sembrano essere orfani, come se non avessero padri. Lo stesso accade anche nella Chiesa, dove si ha bisogno di padri, cioè di persone che introducano i figli all’esperienza della vita, alla realtà in cui devono vivere, perché sappiano affrontarla con libertà e responsabilità. A volte si dà il caso che un padre voglia quasi possedere il figlio, imprigionarlo, condizionarlo, anziché renderlo libero, capace di affrontare le scelte della vita e di percorrere autonomamente il proprio cammino.
Riguardo a san Giuseppe, la tradizione, accanto all’appellativo «padre», aggiunge l’aggettivo «castissimo»: non si tratta – afferma Francesco – di «un’indicazione meramente affettiva, ma la sintesi di un atteggiamento che esprime il contrario del possesso. La castità è la libertà dal possesso in tutti gli ambiti della vita. Solo quando un amore è casto, è veramente amore. L’amore che vuole possedere, alla fine diventa sempre pericoloso, imprigiona, soffoca, rende infelici» (ivi). Interessante la sottolineatura dell’amore casto, perché rispetta fino in fondo la libertà dell’altro. Dio ama l’uomo così, «lasciandolo libero anche di sbagliare e di mettersi contro di Lui. La logica dell’amore è sempre una logica di libertà» (ivi). San Giuseppe ha saputo amare così Maria e Gesù: non ha mai anteposto i propri interessi, ma ha sempre preferito il bene della sposa e del Figlio. Con una caratteristica che qualifica il suo agire: non lo ha fatto nella logica «del sacrificio di sé, ma del dono di sé» (ivi). Era la sua vocazione, poiché ogni vera vocazione nasce dal dono di sé.
Giuseppe vive la propria paternità come dono: poiché ogni figlio è dono di Dio, e i doni sono una realtà da custodire, ma anche a loro volta da donare, da condividere, da liberare. Infatti, «ogni figlio porta sempre con sé anche un mistero, un inedito che può essere rivelato solo con l’aiuto di un padre che rispetta la sua libertà» (ivi). Nelle parole del Papa è chiaro il concetto di paternità come servizio spirituale, come missione capace di educare, di far maturare e lasciar andare liberi i figli, perché camminino da soli sui sentieri della vita. Giuseppe sapeva bene che quel Figlio non era suo, ma Figlio di una paternità più alta, Figlio di Dio: gli era stato solo affidato. Così si realizzava la parola del Vangelo: «Non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste» (Mt 23,9).
Desta meraviglia che di un santo così importante i Vangeli non riportino una sola parola. Giuseppe tace sempre, è davvero il «credente» silenzioso. Mentre di altri personaggi ci viene documentato quanto hanno detto nelle circostanze più diverse (Maria, Pietro e gli apostoli, Zaccaria ed Elisabetta, Simeone, e perfino Pilato, Erode, Anna), di Giuseppe non ci viene segnalato assolutamente nulla. Sembra che gli evangelisti tacciano intenzionalmente su di lui: silenzio a Nazaret, silenzio a Betlemme, silenzio nella fuga in Egitto, silenzio a Gerusalemme. Si tratta di un silenzio denso e corposo, ammantato di contemplazione e di mistero: perché la vita di Giuseppe si svolge tutta davanti al «Dio fatto carne» e davanti a Maria, che diviene madre per opera dello Spirito Santo (cfr Mt 1,20).
Per noi che spesso valutiamo il valore di una persona dalle parole e dai discorsi brillanti, e non dai fatti, c’è molto su cui riflettere. Nella vita contano i fatti, e tanto più se sono segnati dal silenzio interiore. Francesco commenta: «Tutti possono trovare in San Giuseppe, l’uomo che passa inosservato, l’uomo della presenza quotidiana, discreta e nascosta, un intercessore, un sostegno e una guida nei momenti di difficoltà. San Giuseppe ci ricorda che tutti coloro che stanno apparentemente nascosti o “in seconda linea” hanno un protagonismo senza pari nella storia della salvezza»[19].
Lo scopo della Lettera apostolica Patris corde è quello di accrescere l’amore verso san Giuseppe e impetrare la sua intercessione per la nostra conversione. Perciò Francesco ha indetto uno speciale Anno di san Giuseppe, dedicato al padre di Gesù, per comprendere il significato vero della paternità: è iniziato con la solennità dell’Immacolata Concezione e continuerà fino all’8 dicembre del 2021.
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JOSEPH LOVED JESUS WITH A FATHER’S HEART
Pope Francis’ Apostolic Letter Patris corde commemorates a 150th anniversary. On 8 December 1870, Pius IX proclaimed St. Joseph “Patron of the Universal Church,” for his central role in salvation history. The saint is the husband of Mary and the father of Jesus: this is fundamental for the evangelists. Here the role played by Joseph appears. If Jesus had not had a “legal” father, he would not have been able to proclaim the Gospel and carry out his mission. The originality of the Pope’s Letter lies in highlighting certain characteristics that reveal the spiritual depth of the saint, “Blessed Joseph, to us too, show yourself a father and guide us in the path of life. Obtain for us grace, mercy and courage, and defend us from every evil.”
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[1]. Francesco, Lettera apostolica Patris corde (8 dicembre 2020), «Introduzione». In questo articolo, i numeri tra parentesi si riferiscono ai paragrafi della Lettera.
[2]. Ivi.
[3]. Ivi, nota 10.
[4]. Ivi, «Introduzione».
[5]. Cfr G. Magnani, Origini del cristianesimo. II. Gesù costruttore e maestro. L’ ambiente: nuove prospettive, Assisi (Pg), Cittadella, 1996, 225. Si veda il commento a Mt 1,16 in H. L. Strack – P. Billerbeck, Das Evangelium nach Matthäus erläutert aus Talmud und Midrasch, München, C. H. Beck, 1956, 35; 42 (per i figli illegittimi). La paternità legale, o putativa, era abbastanza comune in Oriente (cfr nella Bibbia la legge del «levirato»).
[6]. Cfr Mt 1,20: «Giuseppe, figlio di Davide»; la genealogia in Mt 1,1-17; e Rm 1,3-4.
[7]. Cfr J. P. Meier, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico. 1. Le radici del problema e delle persone, Brescia, Morcelliana, 2001, 212. Il problema dell’illegittimità di Gesù nasce verso al fine del II secolo con il filosofo Celso (cfr Origene, Contra Celsum) e sarebbe una parodia del racconto del concepimento verginale nel Vangelo di Matteo (cfr ivi, 227).
[8]. Il successo di san Giuseppe nella storia della Chiesa è molto più grande di quanto si possa pensare: tra il 1517 e il 1980 sono sorte 172 comunità religiose con il suo nome o a lui dedicate; di esse, 51 sono maschili e 121 femminili (cfr K. S. Frank, «Josef, Mann Marias. Religiöse Gemeinschaften», in Lexikon für Theologie und Kirche, vol. V, Freiburg – Basel – Rom – Wien, Herder, 1996, 1001-1003; T. Stramare, San Giuseppe. Fatto religioso e teologia, Camerata Picena [An], Shalom, 2018, 588-602).
[9]. Cfr Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium (24 novembre 2013), nn. 88; 288.
[10]. G. Fohrer, «ὑιóς», in Grande Lessico del Nuovo Testamento, XIV, Brescia, Paideia, 1984, 129 s. Molti sono i passi biblici che insistono su tale dovere paterno: Es 10,2; 12,26-27; 13,8; Dt 4,9; 6,7.20-21; 32,7.46.
[11]. La citazione è ripresa da Francesco, Omelia nella S. Messa con Beatificazioni, Villavicencio – Colombia (8 settembre 2017): cfr Acta Apostolicae Sedis 109 (2017) 1061.
[12]. Cfr Dt 10,19; Es 22,20-22; Lc 10,29-37.
[13]. Cfr Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 58.
[14]. Così lo ha definito san Giovanni Paolo II: cfr l’Esortazione apostolica Redemptoris custos, del 15 agosto 1989.
[15]. Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 1997, 963-970.
[16]. Il termine tektōn indica propriamente un «carpentiere», un «produttore», uno che fabbrica, un operaio edile (nel latino della Vulgata è reso con faber); non sarebbe però esatto tradurlo con «fabbro»: cfr H. Balz – G. Schneider, Dizionario esegetico del Nuovo Testamento, vol. II, Brescia, Paideia, 1998, 1587 s; il termine è alla radice del nostro «archi-tetto», cioè «capo costruttore, capomastro». Si veda anche G. Ravasi, Giuseppe. Il padre di Gesù, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2014, 57-65.
[17]. Cfr A. Spadaro – S. Sereni, «A partire da Gesù lavoratore», in Civ. Catt. 2020 III 18-31.
[18]. Cfr J. DobraczyŃski, L’ ombra del Padre. Il romanzo di Giuseppe, Brescia, Morcelliana, 2018.
[19]. Francesco, Lettera apostolica Patris corde, «Introduzione».