Una catastrofe può condizionare il modo di pensare di una generazione. Lo sanno i bambini che nascono dopo un conflitto bellico, le madri che vedono i loro figli fuggire dalla miseria e i milioni di rifugiati che oggi ci sono nel mondo. Nella storia dell’umanità guerre, pandemie e carestie, in quanto fenomeni ricorrenti, richiedono un’adeguata comprensione delle cause e delle conseguenze, pena il rischio elevato di ripetere gli errori, smarrire la rotta e naufragare di nuovo.
Nel caso specifico delle pandemie, le ripercussioni possono rivelarsi ancora più deleterie, perché il colpevole non è il vicino aggressivo o l’assenza di pioggia: il flagello, oltre che invisibile, lo abbiamo addirittura dentro di noi. Se è difficile curarlo, lo è ancora di più comprenderlo. Come esempio di pandemia, i libri di storia[1] citano per lo più la peste nera del 1348[2]. Ma è opportuno sottolineare che questo tipo di calamità non appartiene soltanto al vituperato Medioevo: basti citare il vaiolo nel XVI secolo, il colera nel XIX o la cosiddetta (impropriamente) «influenza spagnola» di circa un secolo fa.
Virus e batteri non si intendono di economia. Eppure i gruppi più presi di mira sono sempre stati quelli dei poveri e di chi cercava di soccorrerli. Quando la popolazione veniva decimata, si producevano movimenti demografici, penuria di alimenti e impennate dei prezzi che nel giro di pochi mesi alteravano l’ordine sociale. E forse l’ambito in cui l’impatto si rivelava più forte era quello religioso ed esistenziale. Quei nostri antenati non disponevano, ovviamente, della nostra tecnologia. Ogni generazione cercava di rispondere agli interrogativi che sorgevano con gli strumenti che aveva, e tra le cause addotte quella del castigo divino era la preferita. Soprattutto veniva alterato il modo di intendere il mondo, al punto che nel giro di pochi anni poteva cambiare la percezione di Dio e dell’uomo, della morte e, pertanto, della vita. A volte la realtà supera la fantasia, e le pandemie possono trasformarsi in veri e propri momenti di svolta[3].
Diversamente da quanto era accaduto con altre pandemie, questa crisi ci ha fatto versare fiumi di inchiostro sui postumi fisici e psicologici. Per numerosi pazienti sopravvissuti al Covid-19 la vicenda personale non si è risolta in una storiella da raccontare ai nipoti o nell’ormai classica perdita dei capelli. Sul fisico possono rimanere gravi conseguenze: fra le altre, l’alterata coagulazione o la fibrosi polmonare. Non c’è da scherzare. E lo stesso vale per le conseguenze psicologiche, come lo stress post-traumatico di coloro che hanno trascorso settimane in terapia intensiva, o la tendenza alla depressione durante l’isolamento, per non parlare della dipendenza dalle reti sociali e dei disturbi alimentari negli adolescenti. E, sapendo per esperienza com’è questa pandemia e come sono state quelle precedenti, sorge opportuna questa domanda: quali sono i postumi spirituali del Covid-19?
Presto le cifre dei morti, le sirene delle ambulanze e la preoccupazione per i nostri cari verranno a presentarci il conto: tutto ciò ci ricorda che non siamo macchine. Ma su questo punto conviene andare più a fondo, perché l’ambito spirituale non coincide con quello psicologico, per quanto a volte facciamo fatica a distinguerli. Ci sono aspetti in comune, e tuttavia ripetiamo che non sono la stessa cosa. Non è come emozionarsi per una bella canzone, godersi un tramonto sul mare o essere in ansia per un esame. La spiritualità attiene al nostro rapporto con la trascendenza; pertanto è una relazione, contempla un’alterità. Ed è in funzione di questo vincolo che ci mettiamo in rapporto con la nostra realtà – gli altri, il contesto, la natura, il tempo, lo spazio, la società e la cultura – e con noi stessi. Tutto è collegato, e i cambiamenti ci colpiscono così intimamente proprio perché mettono in discussione il nostro modo di stare nel mondo e di percepire la nostra identità, la nostra libertà e la nostra esistenza.
I postumi spirituali hanno una caratteristica peculiare: si possono trasformare in opportunità. Ne troviamo un esempio significativo e ricorrente nell’esperienza di sant’Ignazio di Loyola[4]: la cannonata che gli ferì la gamba propiziò anche un cambiamento di vita e una conversione spirituale molto feconde. Pertanto ciascuna di queste conseguenze ha un lato positivo e, sebbene non sappiamo come, esse un giorno daranno frutto, come accade alla vite dopo ogni potatura.
L’immagine di Dio
Nella vita, le domande sono più importanti delle risposte, perché ci consentono di fare dei passi avanti. E si moltiplicano in modo esponenziale quando l’incertezza fa irruzione nel nostro cammino. Che ho fatto per meritarmi questo? Perché Dio lo consente? Ed è solo l’inizio. Sono domande lecite, che dobbiamo porci spesso, perché ci permetteranno di crescere anche nel caso in cui come risposta ci venga dato il silenzio. Il problema, invece, sorge quando attribuiamo tutto alla volontà di Dio, rendendolo responsabile di qualsiasi cosa accada al mondo, senza distinzione: delle cose buone come di quelle cattive. Allora otteniamo, sì, una risposta a tutte le nostre domande, ma questa ci conduce a un vicolo cieco: in quale Dio crediamo? In un Dio che vuole la nostra sofferenza?
Questo postumo della pandemia ha una parte teologica e pastorale, perché, se non lo si spiega bene, può condizionare il nostro modo di avvicinarci a Dio. Va detto forte e chiaro che egli non vuole mai il nostro male. Incolpare Dio può essere facile e frequente, ma non è né giusto né proficuo. Non è per un castigo di Dio[5], e nemmeno per una vendetta della natura, che un virus passa da un animale all’essere umano e si diffonde in tutto il mondo, prendendosi la vita di centinaia di migliaia di persone[6]. È tutto il contrario: Dio è con chi soffre in ogni letto di ospedale, accompagna nella solitudine, incoraggia il ricercatore e consola le famiglie. Qualsiasi deriva pastorale promuova l’immagine di un Dio castigatore può provocare un danno spirituale in chi ascolta, perché il modo di intendere Dio e di rapportarsi a lui cambia quando c’è di mezzo la paura.
Per comprendere questa dimensione teologica – e di conseguenza spirituale e pastorale – può aiutarci la figura di Giobbe, un uomo che nella sua estrema sofferenza si rese conto che il male non proveniva né da Dio né dalle azioni che egli stesso aveva compiuto. Si tratta di una sapienza che, attraverso la fede, cerca di avvicinarsi a Dio in maniera autentica. Dio non ci abbandona nel dolore, continua a rendere possibile l’incontro[7]. La salvezza passa soltanto attraverso di lui. Per quanto possano risuonarci nella testa milioni di domande, silenzi e dubbi, il dolore non ha l’ultima parola.
La «desacramentalizzazione» della fede
Non senza sollevare qualche polemica, in quasi tutti i Paesi del mondo il confinamento ha impedito a milioni di fedeli di celebrare l’Eucaristia, cosa che non era mai accaduta prima. Alcuni sacerdoti hanno celebrato la Messa in privato e l’hanno trasmessa tramite i social media, supportando la comunione spirituale con la parola e con l’immagine e mantenendo così certi vincoli comunitari. Ciò nonostante, per quanto ci si sia sforzati di minimizzare gli effetti del confinamento, il popolo di Dio ha dovuto sopravvivere spiritualmente senza la pratica abituale dei sacramenti, o per lo meno senza mantenerne la continuità. Qui non è in gioco soltanto la relazione con Dio, ma anche quella con la Chiesa, con la comunità e con se stessi.
Quando verranno meno tutte le attuali restrizioni, forse molti cristiani torneranno in chiesa rafforzati da una fede che si nutre dei sacramenti, e questo particolare digiuno sarà servito loro per rendersi conto di quanto i sacramenti siano importanti. Purtroppo, però, a qualche comunità cristiana questa «desacramentalizzazione» temporanea recherà problemi, e alcuni fedeli si perderanno per strada per il semplice fatto che la consuetudine forgia la virtù. Pensiamo a parrocchie con fedeli di salute cagionevole, per i quali uscire per strada e tra la gente può diventare rischioso. O a quei genitori che, avendo sperimentato una certa difficoltà a educare i figli alla fede, ora dovranno convincerli daccapo dell’importanza di partecipare alla Messa dopo vari mesi di assenza. E che dire delle comunità giovanili in formazione, alle quali sono venute meno le consuetudini che favoriscono la pratica sacramentale? O di quelle persone che – magari dubbiose sulla fede, o impaurite, o sovraccariche di lavoro – hanno perso la sana abitudine di celebrare ogni settimana i sacramenti, e ora mettono in dubbio la propria appartenenza alla Chiesa?
È bene inoltre tenere presente che la difficoltà non è limitata alla celebrazione dell’Eucaristia. L’attività pastorale richiede un grande investimento di tempo e di immaginazione, perché mira a creare processi nelle persone. Con la pandemia attuale questo lavoro probabilmente è rimasto interrotto, e in alcuni casi andrà ripreso da zero. Parimenti, bisognerà ripensare le liturgie, gli incontri e le celebrazioni senza il calore della folla – processioni, gruppi, ritiri, preghiere comunitarie, conferenze, Giornate mondiali della gioventù ecc. –, perché ancora per qualche tempo non si potranno tenere come si è sempre fatto.
Consapevoli che la nostra fede cattolica è imperniata su una vita sacramentale, ci troviamo nell’urgenza di ridisegnare nuove proposte pastorali che rispondano alla vita spirituale del popolo di Dio e possano tornare a tessere nuovi vincoli comunitari. Tutto ciò esige uno sforzo supplementare e creatività da parte di agenti pastorali che talvolta non sono in numero sufficiente. Questo già avviene in alcune parti del mondo dove mancano sacerdoti, e nell’attuale situazione si aggiunge il fatto che molte comunità debbono ricomporsi a ritmi forzati dopo vari mesi di assenza dalle celebrazioni fisicamente condivise. Per fortuna non mancano il tempo, i motivi e la creatività sufficienti per celebrare la vita.
La morte
Nel corso dei mesi abbiamo visto incrementarsi il numero dei decessi in quasi tutti i Paesi. Una tragedia tradotta in statistiche, ma non per questo meno dolorosa. Quella cultura globale che tende a nascondere la morte ha sbattuto la faccia contro cifre da conflitto bellico. Forse l’aspetto più crudele è che ci siamo abituati a questo fatto, offuscando la realtà che sta dietro quella curva asettica, ossia quella di migliaia di persone in agonia negli ospedali e di altrettante famiglie prostrate. Ne derivano conseguenze a tutti i livelli. La prossimità della morte ci ricorda i nostri limiti e la nostra vulnerabilità, sebbene il mondo dell’immagine insista nel proclamare l’opposto. La vita è un dono, e tuttavia non sappiamo quanto durerà. Anche se cerchiamo di guardare altrove, la morte fa parte della vita, riguarda la nostra esistenza e quindi la nostra spiritualità.
La morte genera dolore, senso di colpa e vulnerabilità, che non colpiscono soltanto i malati sopravvissuti al Covid-19 o quanti hanno perso un familiare. Ogni società deve piangere le perdite, accettare il dolore subìto ed elaborare un lutto necessario. E a noi cristiani spetta accompagnare questo percorso sul piano personale e su quello comunitario, stare accanto sia ai credenti sia ai non credenti. Anzitutto guardando al passato e dando spazio alla memoria, che con la sua sapienza è capace di includere nella vita di una comunità coloro che non ci sono più. In secondo luogo, nell’oggi: per ascoltare, riconciliare, celebrare i successi, servire e curare le ferite. E, infine, per invitare a guardare al domani, perché nella fede in Cristo troviamo la promessa della risurrezione e un futuro che dà speranza[8].
E questo postumo ha anche una parte positiva: la funzione catartica della morte. Affacciarci sulla fine della nostra vita ci interpella su come vogliamo vivere, e ci fa distinguere meglio ciò che è profondo da ciò che è superficiale, ciò che conta da ciò che è accessorio. Ragionava così sant’Ignazio di Loyola, quando negli Esercizi spirituali invitava l’esercitante a contemplare il suo ultimo giorno di vita, e a chiedersi come avrebbe desiderato comportarsi[9]. Il premio Nobel francese Albert Camus ha detto che «è quando scende la notte che si medita»[10]. Questo tempo di oscurità personale e comunitaria, nel quale abbiamo percepito con dolore i nostri limiti, va accompagnato con una riflessione capace di aiutarci a vivere assumendo maggiormente la prospettiva di Dio e a discernere che cosa è importante nella nostra vita e come vogliamo davvero trascorrerla.
La fiducia
Si narra che, mentre infuriava la «peste di Giustiniano» nel VI secolo, alcuni abitanti di Parigi tornarono a cercare conforto nelle loro antiche divinità. Nel giro di poche settimane il nostro mondo è andato in subbuglio, come sotto gli effetti di un terremoto. È sopraggiunta una crisi economica, sociale, politica e, soprattutto, sanitaria. In sostanza, si è disgregato quasi tutto ciò che ci ispirava fiducia, sicurezza, che dava stabilità alla nostra esistenza. Per contro, è dilagato l’opposto: una insicurezza nei confronti della vita che ci sprofonda nell’incertezza. La paura di vivere e la vertigine esistenziale sono sensazioni ancora più accentuate nelle persone che hanno patito il Covid-19 nella propria carne, perché hanno sentito sfuggire la vita dalle loro mani.
Non soltanto si sono sgretolati esistenze, famiglie, progetti e lavori: in alcuni casi, a entrare in crisi è stata anche la fede. La spiritualità ci mette in relazione con il nostro ambiente e, se tutto attorno a noi viene travolto, possiamo rimanere confusi e pensare che Dio – che guidava le nostre vite quando tutto andava bene – ci abbia abbandonato. Pensiamo alla disperazione di chi si trova sull’orlo della rovina, del politico impegnato a cercare soluzioni dappertutto o del familiare attaccato al telefono. Alla fin fine, fa parte della nostra logica umana chiederci, quando tutto crolla, se la roccia su cui avevamo fondato la nostra vita sia abbastanza salda, e questo ci aiuta a capire quei parigini del VI secolo: se sceglievano di tornare agli idoli nei quali in precedenza avevano riposto fiducia, era perché istintivamente, sulle prime, ciò che è tangibile sembra più sicuro.
Dobbiamo accettare che in alcune circostanze la nostra realtà sarà così complessa e instabile che potremo fare affidamento soltanto su Dio, com’è accaduto a Giobbe e a tanti malati di Covid-19. Se osserviamo la vita dei mistici, vediamo che le situazioni di abbandono sono momenti di donazione e di unione totale con Dio, in cui la disperazione abbraccia la fiducia più autentica[11]. Circostanze simili hanno attraversato, per citare solo alcuni esempi, san Giovanni della Croce, santa Teresa di Calcutta ed Etty Hillesum[12]. Non è dissimile il caso dei discepoli di Gesù sulla barca, mentre il mare è in tempesta[13]. E che dire dello stesso Gesù di Nazaret che prega nell’Orto degli ulivi[14] o abbandonato sulla croce[15]? Qui, nell’abisso di questa pandemia, possono aiutarci le parole ispirate di p. Pedro Arrupe[16]: «Il Signore ci era stato così vicino, forse come non mai; infatti non eravamo mai stati così insicuri».
La solitudine
Una delle peculiarità di questo virus è di aver trasformato profondamente il mondo delle nostre relazioni[17]. Nessuno, ormai, si azzarda più a dare un abbraccio o a tossire in pubblico. Il contatto fisico e la vicinanza sono passati dal ruolo di gesti affettuosi a quello di serio rischio per la salute collettiva, perché il miglior modo di frenare la pandemia è mantenere la distanza e l’isolamento sociale. Non è esagerato affermare che la solitudine costituisce uno dei postumi peggiori. Gli esempi sono numerosi: il malato in lotta per la vita lontano dai suoi cari, i figli da soli al cimitero, il sanitario travolto da un mare di emozioni, l’anziano confinato lontano dai familiari, e tante altre situazioni simili che mostrano la perdita di una dimensione che ci era naturale, la nostra maniera di relazionarci.
Va precisato che questo isolamento non può essere affatto confuso con l’allontanamento che ci autoimponiamo nel caso di un ritiro spirituale, con la sua parte più o meno grande di deserto. Questa solitudine è forzata e fa soffrire, dubitare; addirittura ci tormenta. Per quanto la cultura globale imperante propugni un individualismo esasperato, l’essere umano è un essere sociale, perché attraverso gli altri noi scopriamo chi siamo realmente. E anche questo coinvolge la nostra dimensione spirituale.
Su questa stessa linea, come conseguenza delle misure di protezione, abbiamo perduto molti dei nostri riti sociali, ossia manifestazioni che ci danno e ci aiutano più di quanto siamo soliti credere. E ci sono state ripercussioni simili anche nelle comunità cristiane che dovevano mantenersi unite nonostante il distanziamento, perché Dio è presente nella comunità, soprattutto quando essa è riunita[18]. Tuttavia, questo isolamento forzato ci ha fatto capire quanto ci siano necessari gli altri, il sentirci comunità e far parte di qualcosa di più grande di noi. Inoltre, la solitudine e la compassione hanno accentuato l’interesse per il prossimo e la ricerca di nuovi modi di stabilire relazioni e di appoggiarci gli uni agli altri. L’omaggio reso agli operatori sanitari, i progetti di aiuto ai più bisognosi o le telefonate alle persone sole, per citare soltanto alcuni casi, mostrano come la «cultura della cura» sia tutt’altro che impossibile[19].
Questo desiderio di essere con gli altri e di dare valore alla dimensione collettiva può aiutarci a collocarci all’interno di questa nuova crisi sociale che ancora non ha toccato il suo apice. In questo tempo di ricostruzione abbiamo un’opportunità per condividere la vita, ricostruire relazioni e rafforzare un nuovo tessuto sociale, perché così ci proteggeremo meglio dalle avversità. Papa Francesco lo spiega chiaramente nell’enciclica Fratelli tutti, quando sottolinea che dobbiamo recuperare nel nostro orizzonte la fraternità come atteggiamento vitale e cristiano. Non in quanto ideale classico, ma piuttosto come scelta concreta di condividere tempo, sforzo e beni, dal momento che ora più che mai si è dimostrato che non ci possiamo salvare da soli[20].
La nostalgia
Nel periodo dell’isolamento trascorso si sono manifestati tra le persone atteggiamenti di nostalgia. D’altra parte, è cresciuto il consumo di farmaci per combattere ansia, insonnia e depressione[21], come pure sono aumentate le consulenze psicologiche[22]. E aggiungiamo che molti hanno sperimentato momenti di desolazione[23] nella vita spirituale, provocata dalla stanchezza per una situazione a cui non ci si riesce ad abituare.
Ciò nonostante, quella di cullarsi nella nostalgia fino a sviluppare quasi una dipendenza non è una caratteristica soltanto di questo momento: il popolo di Israele rimpiangeva le cipolle d’Egitto[24], dimenticando che stava fuggendo da una situazione passata molto peggiore. Questa è un’ulteriore conferma del fatto che l’esperienza temporale influisce anche sulla spiritualità. Perciò a volte l’arte e la politica cercano ispirazione nel passato, quando considerano esaurito il presente e cercano punti di riferimento sui quali appoggiarsi. Nell’attuale pandemia, alla stanchezza, alla paura e alla solitudine vanno unite la stasi e l’impossibilità di intravedere un futuro chiaro, dato che qualsiasi progetto verrà sottomesso all’arbitrio di un virus che non riusciamo a contenere. Altrettanto difficile risulta sentirsi a proprio agio in un presente sgradevole e anonimo, per cui il ritorno con l’immaginazione agli idilliaci tempi passati ci si prospetta più logico e abituale di quanto non accada di solito, così come la domanda se davvero abbiamo scelto la strada giusta.
Ma un conto è essere tristi e stanchi, e un altro è perdersi d’animo, facendo della nostalgia uno stato abituale[25]. Anche se non si tratta di depressione, se cediamo a questo sentimento staremo molto male; perciò dobbiamo impiegare ogni mezzo per recuperare la gioia. Le cattive mozioni[26] vanno respinte, ma prima ancora dobbiamo renderci conto dello stato in cui ci troviamo e volerne uscire. Per cambiare questo stato d’animo[27] dovremo esaminare la nostra vita davanti a Dio e accettare la situazione. È una cosa semplicissima, ma al tempo stesso molto complicata. Certamente non si tratta di mettere in discussione decisioni passate o di fantasticare su vite parallele che non ci consentono di fare passi avanti, ma di recuperare la prospettiva del tempo e di riconoscere che anche il presente offre possibilità, e che il domani sarà buono, per la semplice ragione che appartiene a Dio. In definitiva, non vedere la fine del tunnel non significa che non ci sia un’uscita.
Tutti sulla stessa barca
Come dicevamo all’inizio, il fatto che l’intera umanità sia stata colpita dal Covid-19 non significa che tutti ne soffrano le conseguenze allo stesso modo. Non tutti ne avranno i medesimi esiti: questo dipende molto dalle singole persone, da come la malattia le ha raggiunte e dal contesto. Non è la stessa cosa trascorrere la pandemia in una casa confortevole nella periferia di una capitale europea oppure viverla in un quartiere povero dell’America Latina. Come pure affrontarla da giovani o da anziani, svolgere un telelavoro o trovarsi nella trincea di un ospedale, accettarla riponendo la fiducia in Dio o assecondare la superstizione più primitiva, per non parlare della differenza tra averla vissuta da sani o da malati. E di tante altre situazioni di cui non sappiamo nulla e che per chi le ha vissute si sono trasformate in un inferno. Pertanto è necessario essere attenti e preparati, affinché nessuno resti indietro.
Verrà il tempo in cui la società analizzerà retrospettivamente le conseguenze della pandemia, perché sorgeranno altri problemi – non soltanto spirituali – e anche altre soluzioni. Nell’attuale circostanza, come cristiani dobbiamo insistere sul fatto che questa pandemia è anche un’esperienza di crisi e di apprendimento, di potatura necessaria e di rinnovamento urgente, e soprattutto di speranza, perché certamente condizionerà il futuro dell’umanità nei prossimi anni.
In particolare, ci troviamo di fronte alla grande sfida di trasformare questa disgrazia in occasione per avvicinarci di più a Dio, in modo che ogni individuo – e ogni popolo – possa riconoscere la salvezza e la misericordia di Dio nella propria storia personale. Se riusciremo a far sì che questa relazione con Dio diventi più profonda, autentica e solida, si rafforzeranno anche i nostri vincoli con gli altri, con l’ambiente circostante, con la Chiesa e con noi stessi.
Il 27 marzo 2020, papa Francesco si rivolgeva così al mondo intero in una piazza San Pietro deserta: «Il Signore ci interpella e, in mezzo alla nostra tempesta, ci invita a risvegliare e attivare la solidarietà e la speranza capaci di dare solidità, sostegno e significato a queste ore in cui tutto sembra naufragare».
Ancora una volta, come cristiani, noi abbiamo il compito di accompagnare e servire l’umanità intera in questa difficile navigazione verso un porto sicuro, e ricordare che, se pure la tempesta sta infuriando, Dio continua a chiamarci, a guidarci e a sostenerci.
Copyright © La Civiltà Cattolica 2021
Riproduzione riservata
***
THE SPIRITUAL AFTERMATH OF COVID-19
Disasters carry serious consequences for the communities that suffer them and in some cases for their descendants. When they occur, the causes and consequences require a proper understanding, or else there is a high risk of repeating mistakes, going astray, and becoming shipwrecked once again. Much has been said about the consequences of Covid-19 at various levels, but little about those at the spiritual level. This article indicates certain consequences of Covid-19 in this regard, and an understanding of them can help accompany different peoples and people on their arduous journey.
***
[1]. Cfr E. Mitre Fernández, Fantasmas de la sociedad medieval: enfermedad, peste, muerte, Valladolid, Universidad de Valladolid, 2004. L’opera illustra l’impatto delle catastrofi sanitarie sulla mentalità medievale.
[2]. L’indice di mortalità è stato stimato tra il 40 e il 60%.
[3]. Cfr P. Rodríguez López, «Los jesuitas en las epidemias, entre la incertidumbre y la dificultad», in Manresa, vol. 92, 2020, 291-300. In questo articolo lo storico tratta delle pandemie come di momenti di svolta o cerniere della storia.
[4]. In questa e in altre occasioni faremo riferimento a lui per collocare meglio alcuni elementi caratteristici della spiritualità, in questo caso di quella ignaziana.
[5]. «Non voglio dire che si tratta di una sorta di castigo divino. E neppure basterebbe affermare che il danno causato alla natura alla fine chiede il conto dei nostri soprusi. È la realtà stessa che geme e si ribella» (Francesco, Fratelli tutti, n. 34).
[6]. Cfr Á. Cordovilla Pérez, «Teología en tiempos de pandemia», in Vida Nueva, n. 3178, 2020, 23-30.
[7]. «Supplicherà Dio e questi gli userà benevolenza, gli mostrerà con giubilo il suo volto, e di nuovo lo riconoscerà giusto» (Gb 33,26).
[8]. Cfr 1 Cor 15.
[9] . «Terza regola. Devo considerare, come se fossi in punto di morte, il criterio e la misura che allora vorrei aver tenuto nella presente elezione; e così regolandomi, prenderò fermamente la mia decisione» (Ignazio di Loyola, s., Esercizi spirituali, n. 186).
[10]. A. Camus, Lettres à un ami allemand, Paris, La Pléiade, 1965. La frase è riportata nella seconda lettera dell’autore a un ipotetico amico tedesco, pubblicata su un quotidiano francese. Questo filosofo, che si dichiarava non credente, ha utilizzato l’espressione «notte» per riferirsi a un’altra catastrofe globale, la Seconda guerra mondiale.
[11]. Cfr L. M. García Domínguez, «Tercera semana de Ejercicios y pandemia», in Manresa, vol. 92, 2020, 235-246.
[12]. Così Benedetto XVI si è riferito a Etty Hillesum nell’udienza generale del 13 febbraio 2013: «Nella sua vita dispersa e inquieta, ritrova Dio proprio in mezzo alla grande tragedia del Novecento, la Shoah».
[13]. Cfr Mc 4,27-41.
[14]. «E diceva: “Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu”» (Mc 14,36).
[15]. «Alle tre, Gesù gridò a gran voce: “Eloì, Eloì, lemà sabactàni?”, che significa: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”» (Mc 15,34).
[16]. P. Pedro Arrupe è stato Preposito generale della Compagnia di Gesù dal 1965 al 1983.
[17]. Cfr Á. Lobo Arranz, «Se nos había olvidado sufrir: claves ignacianas para acercarse a la crisis del Covid-19», in Manresa, vol. 92, 2020, 253-262.
[18]. «Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20).
[19]. «In questo quadro, insieme all’importanza dei piccoli gesti quotidiani, l’amore sociale ci spinge a pensare a grandi strategie che arrestino efficacemente il degrado ambientale e incoraggino una cultura della cura che impregni tutta la società. Quando qualcuno riconosce la vocazione di Dio a intervenire insieme con gli altri in queste dinamiche sociali, deve ricordare che ciò fa parte della sua spiritualità, che è esercizio della carità, e che in tal modo matura e si santifica» (Francesco, Laudato si’, n. 231).
[20]. «Se non riusciamo a recuperare la passione condivisa per una comunità di appartenenza e di solidarietà, alla quale destinare tempo, impegno e beni, l’illusione globale che ci inganna crollerà rovinosamente e lascerà molti in preda alla nausea e al vuoto» (Francesco, Fratelli tutti, n. 36).
[21]. Cfr E. de Benito, «El consumo de medicamentos para ansiedad, depresión y problemas de sueño subió un 4% durante la primera ola», in El País, 3 dicembre 2020.
[22]. Non ci addentriamo a esaminare i postumi psicologici, perché l’impatto sulla salute mentale richiede uno studio più approfondito.
[23]. «Si intende per desolazione tutto il contrario della terza regola, per esempio l’oscurità dell’anima, il turbamento interiore, lo stimolo verso le cose basse e terrene, l’inquietudine dovuta a diverse agitazioni e tentazioni: così l’anima s’inclina alla sfiducia, è senza speranza e senza amore, e si ritrova pigra, tiepida, triste e come separata dal suo Creatore e Signore» (Ignazio di Loyola, s., Esercizi spirituali, n. 317).
[24]. «Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cetrioli, dei cocomeri, dei porri, delle cipolle e dell’aglio» (Nm 11,5).
[25]. Cfr A. Cano Arenas, «Discernir en el dolor», in Manresa, vol. 92, 2020, 301-304.
[26]. Nel n. 319 degli Esercizi spirituali sant’Ignazio consiglia di insistere di più nella preghiera, di prolungare l’esame di coscienza e di fare penitenza.
[27]. «L’unico modo per non rimanere paralizzati […] è guardare in faccia la nostra debolezza. Oggi, diversamente dai tempi di Ignazio, non è da codardi dire e dirmi: “Ho paura di questo e di quest’altro”» (T. Catalá Carpintero, «No quedar atrapados por el miedo y por los ídolos», in Manresa, vol, 92, 2020, 215-226).