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Il nome di Georges Cottier è legato a una riflessione teologica che ha accompagnato il pontificato di san Giovanni Paolo II. Da lui fu nominato teologo della Casa Pontificia nel dicembre del 1989 e poi elevato alla dignità cardinalizia nel concistoro del 21 ottobre 2003. La sua formazione è complessa e ricca. Si è laureato in Lettere classiche all’Università di Ginevra nel 1944, e subito dopo è entrato nel noviziato dei padri domenicani. Ha conseguito una laurea in teologia nel 1952 all’Angelicum di Roma, l’Università dei Frati predicatori. L’anno precedente era stato ordinato sacerdote. Tornato a Ginevra, nel 1959, ha lavorato al dottorato sull’ateismo del giovane Karl Marx. Dal 1971 ha insegnato ininterrottamente fino al 1990 a Ginevra e a Friburgo.
Segretario generale della Commissione Teologica Internazionale dal 1989 al 2003, fu molto vicino all’allora cardinale Joseph Ratzinger, negli anni in cui presiedette la Commissione. Fu proprio Benedetto XVI a rinnovare l’incarico di «teologo pontificio», conferitogli dal suo predecessore. Cottier ha ricoperto tale carica fino al 1º dicembre 2005. Ha scritto una ventina di volumi, a partire da L’athéisme du jeune Marx, e a seguire titoli quali Église et pauvreté (1965), Horizons de l’athéisme (1969), La mort des idéologies et l’espérance (1970), Défis éthiques (1996), Le désir de Dieu, sur les traces de saint Thomas (2002), Humaine raison (2011), La mémoire des sources (2014), solo per citarne alcuni.
Il cardinal Cottier ha un modo pacato, limpido di articolare il suo pensiero. Nelle sue frasi si avverte una profondità di pensiero che è aliena da polemiche, ma sempre attenta alla finezza dei problemi posti. È un uomo del dialogo, aperto alla storia, proprio perché legato alla tradizione della Chiesa. Il suo parlare raccolto gli permette di guardare negli occhi l’interlocutore solamente quando è riuscito ad articolare le sue riflessioni. Veterum sapientia!, ha commentato un suo confratello a cui ho fatto leggere in anteprima il risultato della nostra conversazione. Al centro della sua attenzione è il mysterium lunae, che è la Chiesa. Essa è responsabile della luce di Cristo che è chiamata a riflettere, e quella luce non va oscurata. La Chiesa deve riverberare quel riflesso, mai rischiare di appannarlo. Come fa la luna durante la notte, deve diffondere la luce di Cristo nella notte del mondo, che, lasciato a se stesso, rimarrebbe nell’ombra della morte. Per questo egli sente che l’Anno della Misericordia, voluto da Papa Francesco, è un’opportunità straordinaria data alla Chiesa per scoprire meglio se stessa e la sua missione. Su questo tema prende avvio la nostra conversazione.
Eminenza, Papa Francesco invita la Chiesa a vivere un Anno di Misericordia. Lei ha avuto modo di conoscere bene il pensiero teologico del Papa polacco. La misericordia era un suo tema chiave?
Certamente lo è stato. Il 30 aprile del 2000, durante la cerimonia di canonizzazione di suor Faustina Kowalska, san Giovanni Paolo II ha proclamato la seconda domenica di Pasqua «Domenica della divina misericordia». Nel 1980 egli aveva dedicato alla misericordia la sua seconda enciclica, Dives in misericordia. In questo modo ha richiamato il popolo di Dio a una verità che sta al centro del mistero cristiano e costituisce la risposta della fede all’azione del male nella storia. La misericordia è dottrina. È il cuore della dottrina cristiana. Solamente una mentalità ristretta può difendere il legalismo e immaginare misericordia e dottrina come due cose distinte. In questo senso la Chiesa, ai nostri giorni, ha compreso che nessuno, qualunque sia la sua posizione, può essere lasciato solo. Dobbiamo accompagnare le persone, giusti e peccatori.
Ecco, è questo che mi colpisce: il ruolo storico, e direi anche in qualche modo «politico», della misericordia in un secolo, quello passato, che ha visto due guerre mondiali e poi una eclissi del sacro…
Si tratta di un problema scottante per la nostra epoca. Il sacrificio redentore di Cristo, espressione della divina misericordia, chiarisce in qualche modo l’irruzione del male. La forza del male sembra sommergere la ragione, ridotta all’impotenza. Ma la sapienza della Croce, che certo non ha l’apparenza della forza che si impone, è fonte di esperienza e di certezza della vittoria del Bene. Per chi ha il coraggio di strappare i veli dell’illusione, la sconfitta di fronte alla virulenza del male rappresenta la grande tentazione. Intendo parlare qui della ragione secolarizzata, che è la componente più rilevante della cultura moderna e costituisce la sfida principale contro la missione della Chiesa.
Quindi la misericordia ha a che fare intrinsecamente con la missione della Chiesa…
Lo Spirito Santo, con una insistenza che merita tutta la nostra attenzione, ha indotto la Chiesa a prendere sempre più coscienza della sua missione prioritaria di annunciare al mondo la forza sovrana della divina misericordia. Lo ha fatto in modi diversi nella storia. Pensiamo ad alcune figure, santi canonizzati, di cui la Chiesa ha riconosciuto l’autenticità del messaggio, come Margherita Maria Alacoque, e più recentemente suor Faustina Kowalska, senza dimenticare Teresa del Bambino Gesù, dottore della Chiesa, tanto cara anche a Papa Francesco. Da questo richiamo a una dimensione che caratterizza la vita della Chiesa nei tempi moderni dobbiamo trarre una prima conclusione: la divina misericordia deve segnare con il suo sigillo tutte le iniziative pastorali della Chiesa. È necessario che questo messaggio raggiunga proprio tutti; Dio, nostro Salvatore, «vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità», come leggiamo nella Prima lettera a Timoteo.
Ma non c’è il rischio — dicono alcuni — di interpretare la misericordia in maniera troppo umana, cioè come una sorta di condiscendenza a un modo di vedere «troppo umano», mondano?
La misericordia che la Chiesa ha la missione di far incontrare è la misericordia divina, suggellata dal dono di Gesù sulla Croce, e non è quindi solamente una specie di empatia nei confronti della sofferenza umana. La Chiesa — che non è «del» mondo — deve esercitare il suo ministero nel mondo, nella storia. Dunque il rischio di interpretare le cose divine in maniera umana c’è sempre.
Il richiamo alla misericordia, allora, deve sempre essere coniugato con la realizzazione della propria esistenza cristiana, quella che noi chiamiamo «vocazione alla santità»…
Sì, non si può tener separato il richiamo alla misericordia dall’insegnamento del Concilio sulla vocazione universale alla santità, come leggiamo nella Lumen gentium: tutti i credenti in Cristo sono chiamati alla pienezza della vita cristiana. Il cammino della santità è proposto a ogni persona. San Giovanni Paolo II ne ha parlato nella Lettera apostolica Novo Millennio Ineunte. Le vie della santità sono molteplici e adeguate alla vocazione di ciascuno. Il cammino della santità è proposto a ogni persona. È questa la ragione per cui le iniziative di «misericordia», assunte a favore di coloro che vivono in situazioni dolorose, apparentemente senza via di uscita, debbono, con la compassione e il sollievo, aiutare il sofferente ad aprire il suo cuore alla fiducia nel Padre della misericordia.
Papa Francesco parla, citando Joseph Malègue, della «classe media della santità», di una santità per tutti e non solamente per gli «eroi»…
Questa precisazione mi sembra necessaria, perché in molti persiste ancora un’idea, che si è imposta da tempo, secondo la quale la santità è riservata a un numero ristretto, generalmente a coloro che vivono nei conventi e nei monasteri. La grande massa dei cristiani dovrebbe tendere a una vita onesta, in cui le virtù umane sarebbero più importanti delle virtù teologali. Noi siamo peccatori chiamati alla santità, dono gratuito della grazia che ci guarisce per introdurci nella santità di Dio: è questo il paradosso del cristianesimo. Ciò suppone da parte nostra il pentimento e la domanda di perdono, perché da noi stessi non abbiamo la forza di cancellare il peccato che abbiamo commesso. Così pure, dobbiamo chiederci quale sia la percezione del peccato all’interno di una mentalità plasmata dalla secolarizzazione. Tocchiamo qui quello che mi sembra essere il cuore della crisi spirituale del nostro tempo.
Lei parla di secolarizzazione. Che cos’è? Qual è il suo effetto principale?
La secolarizzazione è uno dei tratti salienti delle nostre società; può essere cosciente e deliberata, o subita passivamente e inconsciamente. Dipende da essa l’idea che ci si forma del male e del peccato, come pure della libertà e della sua responsabilità. Molti dei nostri contemporanei considerano la libertà come parte essenziale dell’Io individuale. La rivelazione dell’Antico Testamento, portata a compimento dalla Legge nuova, riconosce che è da Dio, dalla sua sapienza e dalla sua volontà che noi ricaviamo la distinzione del bene dal male. E il primo comandamento è quello dell’amore di Dio; il secondo, che gli è simile, verte sull’amore del prossimo. Ogni essere umano è creato a immagine e somiglianza di Dio; è una persona amata da Lui in se stessa. La fraternità umana ritrova la sua causa e la sua ispirazione in questo amore del Padre. Ora, il pensiero secolarizzato ignora o elimina questa relazione fondante con Dio. Gli sviluppi più recenti del pensiero filosofico hanno portato a teorie radicali. Ogni riferimento alla verità viene eliminato, in quanto la libertà autonoma è creatrice di valori. Poiché essa ne è l’unica causa, nella sua evoluzione nel tempo può anche mutarli. I valori non hanno nessuna stabilità definitiva. Tutto è relativo. Si giunge addirittura a questo paradosso: si considera l’assurdo come una specie di categoria positiva.
Ma l’assurdo in realtà è il male che scuote le nostre coscienze, e le ha scosse nel secolo che si è chiuso da poco alle nostre spalle…
Per gli eredi dell’Illuminismo, liberati dai pregiudizi derivati da secoli di oscurantismo, i crimini commessi dai regimi totalitari del XX secolo hanno rappresentato un vero e proprio cataclisma. Il dominio di sé dell’uomo civilizzato, con la sua versione morale, si è trovato disarmato. Il trauma spirituale fu tanto più profondo in quanto non c’era modo di attribuire alla natura crimini così ben calcolati e sistematicamente realizzati. La loro causa si trovava nella stessa libertà umana, che si rivelava all’improvviso come un abisso di irrazionalità. Di fronte a questo ritorno massiccio del peccato, la tentazione più ovvia è quella del nichilismo e della disperazione. L’ottimismo razionalista ha ricevuto un colpo mortale. Lo smarrimento è percepibile al fondo di diverse spiegazioni. Alcuni, spinti dal risentimento, accusano Dio di non aver trattenuto la mano dell’uomo. Vi sono anche teologi che, ispirati dal filosofo Jonas, parlano di «impotenza» di Dio di fronte al male. A mio avviso, questa è una concezione che va in rotta di collisione con il messaggio della fede. Rischia di disconoscere la profondità del mistero della redenzione e di ricadere, di fatto, nel vecchio dualismo manicheo.
Ma le ideologie totalitarie, soprattutto il comunismo, hanno sedotto un certo numero di intellettuali che sono vissuti nelle democrazie occidentali…
Oggi si pone un problema per quanto riguarda la salute intellettuale della nostra società. Da un punto di vista etico e culturale, non è segno di buona salute il fatto che la maggior parte dei vecchi aderenti a questi partiti non si siano sottoposti a un serio esame critico. La facilità con cui si sono adattati alla società dei consumi lascia intravedere un oblio deliberato. Le nostre società non hanno saldato veramente i conti con il fenomeno totalitario che ha avuto le sue origini nella nostra stessa cultura occidentale. Senza questa katharsis il nostro inconscio spirituale sarà turbato da un diffuso senso di colpa, e ciò non è segno di buona salute. Tanto più che lo spirito totalitario può risorgere in forme nuove. Ecco perché l’annuncio della misericordia divina si impone con urgenza. Questa risposta al mistero di iniquità è l’unica che sia vera e adeguata ed è una risposta di fede.
Dove trovare ispirazione, a suo giudizio, per le scelte pastorali?
Nella grazia di Dio, nell’energia del Vangelo. È molto importante la relazione tra la grazia e la natura, nella loro distinzione e nella loro simbiosi. La grazia presuppone, permea, sostiene la natura. La guarisce in quanto ferita dal peccato. Papa Francesco ha parlato più volte della tentazione del pelagianesimo, cioè della tentazione di assicurarsi da soli la propria salvezza, in virtù delle forze della natura umana. Questa eresia può ripresentarsi sotto diverse forme. Misconosce la necessità della grazia. La gratia sanans designa un aspetto essenziale dell’azione della grazia sulla nostra natura che, senza essere corrotta, è ferita dal peccato e ha bisogno di essere guarita e corretta. Dove la luce e l’energia del Vangelo hanno forgiato la cultura, la natura è stata restituita nella sua rettitudine, a seconda dell’intensità di questa influenza. Ma la logica della secolarizzazione porta, al contrario, al loro allontanamento e al loro divorzio. Maritain, già nel 1938, constatava l’emergere di un «capovolgimento evangelico dei valori». Molti uomini di buona volontà avevano ritenuto da tempo che la questione pratica più importante fosse che le cose umane debbano proteggere le cose divine. Ciò resta vero. I mezzi umani contribuiscono, sì, alla propagazione del Vangelo e all’espansione del Regno di Dio. Tuttavia sono convinto che oggi in modo particolare spetti alle cose divine proteggere le cose umane e vivificarle. Invece di trincerarsi dietro le loro opere fortificate, i cristiani dovrebbero entrare nel più profondo del mondo, contando sulla forza di Dio, che è la forza dell’amore e della verità. Sono le cose divine che salveranno le cose umane. I mezzi umani di difesa della civiltà diventano sempre più inadeguati nei confronti della gravità della crisi della cultura.
Ma veniamo allora alla crisi del matrimonio. Questa crisi riguarda la Chiesa, ma anche la società…
Sembra che la gente oggi non senta più il bisogno del matrimonio, lo slancio dell’impegno pubblico a vita. Il vivere in coppia sembra ormai un fatto privato, sempre aperto al possibile cambiamento. Dal punto di vista cristiano, bisogna formarsi un’idea corretta della relazione che intercorre tra l’istituzione naturale e il sacramento. Si tratta dell’elevazione di un’istituzione naturale alla dignità di sacramento. Essa non indica che si aggiunga una modalità soprannaturale a una realtà che resta sostanzialmente naturale; significa invece che la sacramentalità conferisce a questa realtà, che si presenta quindi come causa materiale, una forma nuova, un’essenza, un’identità nuova. Ci si può chiedere se alcuni rappresentanti dell’autorità ecclesiale non abbiano agito sotto l’influenza di quella prima concezione, come se ciò a cui si dovesse badare in primo luogo fosse il sostegno che si ritiene che le strutture legislative della società temporale debbano fornire ai cristiani nella loro fedeltà propriamente ecclesiale. Ciò che mi preoccupa di più è il fatto che non si è intrapreso nulla che sia veramente innovativo a livello propriamente ecclesiale, per attuare una pastorale nuova di preparazione al sacramento del matrimonio che risponda alla gravità della crisi, mentre la pratica attuale è divenuta insufficiente, e spesso ha più l’apparenza di una formalità che di un’educazione a un impegno che duri tutta la vita.
Bisogna forse qui spendere una parola sul problema dei cosiddetti «divorziati risposati», non crede?
Sì, dice bene. La formula «divorziati risposati», di natura canonica, infatti, non è felice; è troppo generica e si applica a situazioni fondamentalmente diverse. Indica il fatto che una o più persone, divorziate da un matrimonio sacramentale, indissolubile, hanno contratto un matrimonio civile. Questo secondo matrimonio non annulla il primo, né si sostituisce a quello, che resta l’unico matrimonio e che la Chiesa non ha il potere di sciogliere. Il giudizio pastorale non può ignorare l’origine di ciascuna di queste due unioni. È una questione di semplice equità.
La formula «divorziati risposati» ricopre situazioni che sono irriducibilmente diverse…
Sì, ad esempio, una persona è abbandonata dal proprio coniuge e conserva l’affidamento dei figli; il suo compito è arduo e incontra una compagnia che gli presta aiuto e sicurezza e con cui contrae un matrimonio civile. Oppure una persona è sposata con figli già adolescenti, e l’altra persona è impegnata in attività parrocchiali; incontra una persona più giovane e brillante, si lascia trasportare dalla passione, abbandona la propria famiglia, divorzia e contrae un matrimonio civile; forma una nuova famiglia, con la quale si inserisce in una vita parrocchiale… Sono casi differenti. Nel secondo c’è uno «scandalo», nel primo invece si percepisce il peso della solitudine, la difficoltà di andare avanti, la debolezza, una necessità, persino, di una compagnia. Ma in linea generale, per ogni situazione la giustizia richiede che si tenga conto di alcuni fattori importanti.
Quali sono?
Innanzitutto il dovere nei confronti del primo coniuge abbandonato e che spesso resta fedele al suo impegno sacramentale. Ha dei diritti che vanno rispettati. In genere, il giudice civile fissa un assegno da versare. L’esperienza rivela che spesso questo diritto non è rispettato o lo è in maniera molto imperfetta. Altrettanto essenziali sono i diritti dei figli nati dal primo e legittimo matrimonio. Essi sono vittime del divorzio dei genitori; ne soffrono per tutta la vita. È strano che questo aspetto abbia attratto così poco l’attenzione del Sinodo del 2014, almeno nella misura in cui ne hanno parlato i media. Oltre alle ferite reali di cui soffrono, non è raro che questi figli debbano subire privazioni che creano una disuguaglianza economica ed educativa rispetto ai loro fratellastri e sorellastre, nati dalla nuova unione del loro padre o della loro madre. In ogni caso sarebbe un errore di metodo considerare le unioni ricomposte, che producono una certa stabilità e obblighi nuovi nei confronti dei figli nati dalla nuova unione, soltanto come un dato di fatto, senza tenere presente la storia precedente, che comporta spesso ingiustizie e mancanze che hanno lasciato disattesa una quantità di doveri che devono essere onorati. Vi è il pericolo di confondere le esigenze della giustizia evangelica con una sorta di onorabilità ecclesiastica che ha origini troppo umane.
Siamo quindi di fronte a un problema di metodo. Le classificazioni generiche sacrificano un buon numero di aspetti concreti che sono tuttavia determinanti per formulare un giudizio equo.
Quella di san Tommaso è una morale della prudenza, che applica in maniera esistenziale il giudizio retto al dinamismo affettivo che essa orienta. Ogni giudizio di prudenza è unico. Da un lato perché ogni azione è singola, e dall’altro perché unico è il soggetto che compie questa azione. Io sono impegnato personalmente nelle mie scelte, esse sono mie. Un’azione singola non è la ripetizione di un’azione simile che io ho compiuto in un altro momento o che un altro ha compiuto. Il giudizio di prudenza deve tener conto delle circostanze dell’atto da compiere. E in questa considerazione oggettiva non vi è nessuna traccia di relativismo o di «morale della situazione». Il giudizio prudenziale impegna la persona nella sua unicità, è un giudizio oggettivo, nel senso che si riferisce a norme oggettive. Sottolineare la soggettività dell’atto morale non significa per nulla cedere al soggettivismo. Così, nel recente dibattito sul possibile accostamento all’Eucaristia dei «divorziati risposati», una generalizzazione semplificatrice, che ha posto tra parentesi la diversità delle situazioni, ha ostacolato conclusioni sagge e ponderate.
Da chi potrebbe giungere un giudizio di prudenza?
Credo che la soluzione di alcuni problemi dovrebbe provenire dal giudizio prudenziale del vescovo. Lo dico non senza esitazione e dubbi, vista la divisione dei vescovi. Questo mio giudizio si applica prima di tutto a certe situazioni dove c’è una seria probabilità di nullità del primo matrimonio, ma per la quale è difficile fornire prove canoniche.
Torniamo alla coscienza: i suoi giudizi, dicevamo che hanno a che fare con le circostanze…
Nel loro complesso i giudizi a cui la coscienza presiede non sono omogenei, quanto alla loro generalità e alla loro forza vincolante. La Chiesa, mater et magistra, ne riceve alcuni da Dio stesso; la sua missione è quella di trasmetterli e di interpretarli fedelmente. Altri giudizi e altre direttive invece sono promulgati dalla Chiesa stessa. I giudizi di questo genere suppongono da parte della Chiesa il discernimento delle circostanze, che variano secondo i tempi e i luoghi. Alcune direttive si rivolgono a tutto il popolo di Dio, altre a comunità particolari. In questo ambito, l’uniformità non è sempre la soluzione più felice. In forza della sua missione pastorale, la Chiesa deve mantenersi sempre attenta ai mutamenti storici e all’evoluzione delle mentalità. Non certamente per sottomettervisi, ma per superare gli ostacoli che si possono opporre all’accoglienza dei suoi consigli e delle sue direttive.
L’obiettivo è un giudizio equo. Ne parlavo in una conversazione con il suo confratello domenicano p. Jean Miguel Garrigues, che ho intervistato per la nostra rivista…
Nel trattato sulla giustizia, san Tommaso spiega quale sia la funzione eminente dell’equità, che corrisponde all’epieikeia di Aristotele. Egli spiega quale sia la sua ragion d’essere: le leggi emanate dal legislatore sono per loro natura generali; hanno per oggetto gli atti umani, che sono singoli e contingenti, ed è impossibile che coprano l’infinità dei casi possibili. Può quindi accadere che l’osservanza della legge si trovi in contraddizione con la giustizia e il bene comune, che costituiscono il fine di questa legge. In tal caso, il bene consiste nel trascurare la lettera della legge per obbedire alle esigenze della giustizia. Questo aspetto del giudizio morale non va trascurato, sapendo che l’epieikeia non si applica alla legge divina, ma soltanto alle leggi umane.
Questo mi sembra molto importante, come lo è la gradualità, che indica il cammino della persona che procede passo dopo passo. E a volte il cammino può essere accidentato…
Certamente. Se esistono atti buoni o cattivi in sé, si devono sempre prendere in considerazione due dimensioni essenziali della vita morale. La prima è la legge della «crescita». In forza della grazia del battesimo, ognuno è chiamato alla santità. La vita cristiana è fondata su uno slancio che la trasforma in un cammino, una salita, verso la perfezione, in vista della quale essa deve vincere ostacoli e tentazioni e pentirsi delle cadute possibili. Per definire questo progresso, il Sinodo sulla famiglia, del 1980, ha usato l’espressione «legge di gradualità». San Giovanni Paolo II l’ha ripresa nella Familiaris consortio. Ovviamente non bisogna confondere la «legge della gradualità» con la «gradualità della legge». Qui per «gradualità» s’intende quella del progresso del soggetto verso la perfezione.
E la seconda dimensione?
È una dimensione della quale spesso non si tiene conto: la dottrina della connessione delle virtù, la cui anima è la carità e la cui guida è la prudenza. Sul piano della pastorale e della direzione spirituale, non si può sradicare una virtù particolare da questo intreccio. Si devono rispettare le coordinate esistenziali della vita spirituale delle persone. Nel rigorismo è insita una brutalità che è contraria alla delicatezza con cui Dio guida ogni persona.
Già, il rigorismo è una brutalità. Mi sembra che l’Anno della Misericordia serva anche a fugare questa brutalità…
Non vi è dubbio che l’Anno della Misericordia illuminerà i lavori del Sinodo del 2015 e ne impronterà lo stile. Ci sono persone rimaste scandalizzate dalla Chiesa, donne e uomini che, a causa di un giudizio negativo emesso in maniera impersonale e privo di anima, si sono sentiti allontanati, rigettati in maniera grave. Qui la responsabilità dei confessori è grande. Sempre e comunque, qualunque giudizio si esprima, esso deve essere presentato e spiegato in un linguaggio che faccia intendere chiaramente la sollecitudine materna della Chiesa. Papa Francesco insiste sulla bellezza e la gioia della vita cristiana che la Chiesa deve presentare. Attraverso la voce dei suoi pastori la Chiesa deve sempre lasciare intendere di essere guidata dalle esigenze della misericordia divina.