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Il Settecento, verso la nascita di un nuovo mondo
In Italia, i libri di storia dell’arte fanno generalmente coincidere la fine della grande stagione artistica italiana, inaugurata da Giotto, con il luminismo di Giovan Battista Tiepolo o con la raffinata eleganza neoclassica di Antonio Canova (1757-1822).
Di fatto, nel XVIII secolo l’Italia perde gradualmente quel ruolo di propulsore culturale che l’aveva vista per secoli al centro della vita europea. Così Roma, pur conservando il fascino della «città eterna», di culla della civiltà dell’Occidente, della bellezza perenne dell’«antico», da secoli capitale della cultura, erede della tradizione greco-romana, cede la sua egemonia culturale a Parigi, metropoli internazionale sempre più in grado di catalizzare le forze vive del tempo.
In un periodo contrassegnato da una serie di profonde trasformazioni politiche e sociali, se da un lato il Settecento segna il trionfo della monarchia, dall’altro ne vede la caduta con la Rivoluzione francese del 1789. Se poi il secolo XIX continua con l’ascesa di Napoleone, nel 1815 il Congresso di Vienna restaura le monarchie, «stordite» dal mutamento dei tempi, caratterizzato dalla vittoria di una borghesia ricca, intraprendente e culturalmente laica.
Nel XVIII secolo, con l’affermarsi dell’Illuminismo, il clima culturale, spirituale e filosofico sta cambiando radicalmente rispetto a un mondo continuamente caratterizzato da problematiche religiose che avevano portato profonde divisioni tra gli Stati europei. La religione, messa in discussione come fonte di errori e di superstizioni, è ora guardata con sospetto. Anche dal punto di vista teologico si assiste a un cambiamento radicale nella riflessione su Dio. Certo, Dio è sempre considerato origine delle cose, si parla spesso di lui come del «grande architetto» dell’universo, di un «eterno geometra», come scrive Voltaire, ma egli non è più la «causa finale» di ogni realtà, meta verso cui ogni cosa tende come fine. Dio è una «causa efficiente», indifferente di fronte alle sorti del mondo, al dolore degli uomini. La splendida immagine di Andrea Pozzo nella volta della chiesa di Sant’Ignazio a Roma, per cui la Santissima Trinità attrae a sé ogni cosa come un magnete, sovvertendo le leggi della natura, appare definitivamente tramontata. Il mondo naturale non è più rivelazione di un Dio creatore che si prende cura dell’uomo e del creato, ma lo spazio in cui si svolge la storia di un’umanità che ha raggiunto la propria autonomia nei confronti di Dio. Si afferma sempre più una religiosità «laica», secondo la quale Dio non interviene nelle vicende umane, ma lascia che la vita segua il suo corso.
Roma, capitale del neoclassicismo
Durante il XVIII secolo, anche i soggetti rappresentati dagli artisti cambiano gradualmente. Alle tradizionali iconografie religiose commissionate dalla Chiesa cattolica si preferisce ora anteporre temi profani o i miti dell’antichità, attraverso i quali la ricca e prospera borghesia intende esaltare sé stessa, quasi ne fosse l’ideale erede, capace di tramandarne i valori spirituali e morali, come appare evidente nei dipinti del pittore francese Jacques-Louis David (1748-1825). Grazie ad Antonio Canova, e al suo grande «rivale» danese Bertel Thorvaldsen (1770-1844), Roma diventa crocevia europeo per formulare una rilettura del mondo classico. Le figure mitologiche di Dedalo e Icaro, delle tre Grazie, di Amore e Psiche, di Venere, di Adone, di Ebe, di Ercole e di Lica rivivono in questo modo nell’immaginario occidentale, alimentando sogni e aspirazioni, nostalgie e desideri di rinnovare quel mondo mitico glorioso, da sempre amato e vagheggiato. L’antichità è evocata e riletta attraverso i temi classici del percorso sfuggente della giovinezza, dell’incanto e dello stupore della bellezza, delle lusinghe e delle delusioni dell’amore, dell’ineluttabilità tragica della morte. Così, la nobiltà severa e l’essenzialità solenne e monumentale dell’architettura neoclassica, la nostalgia dell’antico e il desiderio di riviverne la grandezza si fanno manifestazione della potenza e della gloria dei nuovi Stati nazionali che si affermano in maniera definitiva nel XIX secolo, fino a configurare gli assetti geopolitici di oggi.
Antonio Canova, alla ricerca dell’antico
In questo clima ricco di nuovi fermenti, Antonio Canova nasce a Possagno da una famiglia agiata di scalpellini, abili nella pratica della lavorazione della pietra e nell’attività architettonica. La sua attenzione, sin dagli inizi della sua formazione, da quando studia i calchi in gesso di statue antiche e moderne, è rivolta alla cultura antica. Sin dalle prime opere, in cui si esercita rappresentando canestri di frutta o miti antichi, come quello di Orfeo ed Euridice (1773) per la famiglia veneziana dei Falier, il suo successo è segnato. In modo particolare, la scultura di Dedalo e Icaro (1779)[2], notevole per il ritmato impianto compositivo e per gli effetti chiaroscurali, lo consacra nel mondo artistico veneziano: Canova è eletto a membro della prestigiosa Accademia di Venezia.
Dopo questi primi riconoscimenti, per perfezionare la propria arte e per approfondire una preparazione di carattere sostanzialmente pratico, il giovane scultore veneto si reca a Roma (1779-80), tappa obbligata per qualsiasi artista che si accinga ad approfondire i temi dell’«antico». Come scrive nei suoi diari, nella Città eterna egli scopre un nuovo mondo fatto «di statue, di colossi, di templi, di terme, di circhi, di anfiteatri, di archi di trionfo, di tombe, di stucchi, di affreschi, di bassorilievi». Il mondo antico si dischiude al suo sguardo attraverso le testimonianze di una civiltà gloriosa. Canova impara l’inglese e il francese, legge i classici greci e latini, apprende la mitologia greco-romana, stringe numerose amicizie con le personalità artistiche e culturali più influenti del momento, come Pompeo Batoni o Raphael Mengs. Si lascia rapidamente affascinare dall’ideale neoclassico di Johann Joachim Winckelmann (1717-68), convinto assertore della superiorità della civiltà greca rispetto a quella romana e promotore di quell’ideale classico di un’arte basata sul senso dell’armonia, su una «nobile semplicità e quieta grandezza». La statua antica forse più ammirata del Settecento, l’Apollo del Belvedere, è per lui una sorta di rivelazione.
Intanto, i viaggi continuano. A Napoli, Canova resta colpito dalla Cappella Sansevero, in modo particolare dal Cristo Velato del Sanmartino e dalla Pudicizia del Corradini. Scrive: «Napoli, 2 feb.ro 1780. […] questa capella è ripiena di statue, vi è anco la statua velata fatta dal Corradini con l’iscrizione […] in queste parole: “Antonio Corradino Veneto Scultori Cesareo et appositi simulacri vel ipsis grecis invidendi Autori qui dura reliquia hujus Templi ornamententa meditabatur obit A. MDCCLII”»[3]. L’artista studia la collezione Farnese nella Reggia di Capodimonte, allora in costruzione, e scopre i siti di Pompei, di Ercolano e di Paestum, maturando sempre più le istanze neoclassiche. La statua di Teseo vincente sul Minotauro (1781-83), realizzata su consiglio dell’artista e collezionista Gavin Hamilton, è il manifesto di un’arte che cerca sempre più di esprimere quella bellezza ideale che è la chiave di lettura del neoclassicismo.
I monumenti funerari: il classicismo, in una dialettica tra vita e morte
Nel 1783 Canova riceve la commissione per il sepolcro di papa Clemente XIV per la basilica dei Santi XII Apostoli (1783-87), a Roma. Mettendo da parte il modello classico della stele o del monumento funerario romano, l’artista veneto parte dalla struttura compositiva adottata dal Bernini per il sepolcro di papa Alessandro VII Chigi a San Pietro, in Vaticano, ma lo decanta, lo purifica e lo trasfigura in una calma e assorta meditazione sulla morte. Sotto la statua del pontefice, collocato alla sommità della struttura, con il braccio destro sollevato, sono poste le allegorie della Temperanza, china sul sarcofago con il volto quieto e rassegnato, e dell’Umiltà che, con il capo chino e le braccia intrecciate sul grembo, riflette sul destino dell’umanità. Al centro, si dischiude la porta misteriosa dell’oltretomba.
Dal 1783 al 1792 Canova si dedica al monumento funerario di Clemente XIII per la basilica di San Pietro. La struttura compositiva si articola su tre livelli. Nel piano inferiore, due leoni proteggono l’accesso al sepolcro, mentre ai lati sono posti il genio della Religione e quello della Morte. Se al secondo livello è posto il sarcofago, al terzo è collocata la statua del pontefice inginocchiato obliquamente sul sarcofago, in preghiera, con la tiara poggiata a terra in segno d’umiltà. Canova non sembra attento alla simmetria della composizione, quanto piuttosto delinea un percorso simbolico di ascesa dal basso verso l’alto, dalla vita alla morte. Attraverso una porta aperta, siamo introdotti in una dimensione atemporale.
Sono questi gli anni drammatici delle conquiste napoleoniche, che vedono il 19 febbraio 1797 la firma del Trattato di Tolentino, in base al quale papa Pio IV è costretto a cedere manoscritti e opere d’arte, come le statue antiche del Laocoonte e dell’ Apollo del Belvedere. È un vero saccheggio, che lascia attonita e smarrita tutta la Penisola italiana, impotente di fronte agli eventi bellici. Intanto, tra il 1799 e il 1805, Canova esegue nella chiesa di Sant’Agostino, a Vienna, il grande sepolcro di Maria Cristina d’Austria, su commissione del duca Alberto di Sassonia-Teschen, marito della defunta. Il sepolcro si fa tema architettonico: tutto si fonda sulla forma geometrica della piramide, ancestrale simbolo mortuario. Il monumento si presenta come un piano luminoso, «trafitto» da una porta che suggerisce una profondità insondabile. Quell’apertura si presenta come soglia che si dischiude al mistero. La composizione è asimmetrica, il ritmo è pacato, pausato, ritmato. Tutto si risolve in un lento e malinconico incedere di figure allegoriche verso la soglia buia della morte, in una processione al cui termine è posto un uomo anziano che si regge su un bastone, cieco, guidato da una giovane donna. Le ceneri sono contenute in un’urna retta da un’altra donna con due fanciulle al suo fianco. Tutti i personaggi sono uniti tra loro da una ghirlanda di fiori che scende da un’urna. Tutti sono invitati a camminare su un telo leggero che, dispiegato sulla gradinata come un impalpabile e sottilissimo velo d’acqua, simboleggia la continuità tra la vita e la morte. L’umanità avanza inesorabilmente verso la morte, che chiama ogni essere umano a dirigersi verso quell’ingresso di tenebre. Alla destra campeggia un genio funerario alato, dai dolci lineamenti, appoggiato mollemente sul dorso di un leone accovacciato, silenzioso guardiano dell’ingresso. In alto, il corteo funebre è assistito dalla Felicità che, accompagnata da un putto alato in volo con una palma in mano, regge un medaglione su cui è scolpito il volto di Maria Cristina. Il simbolo di eternità è rappresentato dall’uroboro, serpente che, mordendosi la coda, incornicia il medaglione in cui è ritratta l’imperatrice.
Il classicismo di Canova si esprime qui in un’intensa dialettica tra vita e morte. Di fronte all’incedere della morte, la violenza delle passioni è placata, il lontano suono della storia è tenuto a distanza. È come se il sonno eterno avvolgesse con il suo manto ogni cosa. Di fatto, dal punto di vista plastico, il monumento a Maria Cristina corrisponde tematicamente al carme Dei Sepolcri del Foscolo, la cui redazione segue di due anni il monumento canoviano. Il tema della morte è qui riletto alla luce di una classicità perdutamente amata, fonte inesauribile di una bellezza lontana e inafferrabile, di una struggente e malinconica nostalgia. Canova, riflettendo ancora sulla morte, progetta poi un monumento per Tiziano, per la chiesa di Santa Maria Gloriosa dei Frari a Venezia, che non sarà mai realizzato. Come nel sepolcro di Maria Cristina, rispetto ai precedenti monumenti funebri, in esso scompaiono il sarcofago e la statua del defunto, sostituita da un medaglione portato da due angeli.
«Amore e Psiche», «Adone e Venere» ed «Ercole e Lica»
Occorre far rinascere la perfezione degli antichi. Durante il suo viaggio in Italia, di fronte alla visione delle sculture dell’artista veneto, Goethe coglie l’intenzione di Canova: «Né l’occhio, né la mente bastano ad abbracciarle per intero […], la forma plastica non rappresenta la natura, la sublima». Questa perfezione è pienamente «rivelata» nella scultura di Amore e Psiche (1793)[4]. L’opera suscita una tale eco che d’ora in poi le commissioni si succederanno senza sosta. Canova realizza alcuni capolavori, come il gruppo di Adone e Venere (1798-95)[5], che rappresenta l’estremo saluto della dea dell’amore ad Adone, e quello di Ercole e Lica (1795-1815)[6], derivante da un’attenta rilettura dei modelli classici.
Commissionato dal principe russo Nikolaj Jusupov, il gruppo di Amore e Psiche[7], tra i più celebrati dell’artista, rappresenta l’istante che precede il bacio tra i due amanti, annunciato dalla posa degli sguardi che si contemplano nella dolcezza e nella tenerezza, in un trasporto contenuto, in attesa che le loro labbra si congiungano per baciarsi. Con grande raffinatezza e sottile sensualità, il dio Amore scende a svegliare Psiche, l’Anima. La bellissima Psiche, svegliata, cinge il capo del suo amato, come se lo potesse incoronare. Tutto si fa qui dolcezza e armonia. L’amore per la bellezza coincide con la bellezza dell’amore. Ogni elemento è articolato secondo un ritmo affine a quello poetico, grazie a un preciso gioco di spinte e di controspinte, di tensioni e di flessioni. Ogni singolo gesto sembra tradire la dinamica di un desiderio ancora trattenuto, in attesa che il movimento possa liberamente dispiegarsi. Tutto si presenta secondo un perfetto e calibrato equilibrio compositivo, che è possibile apprezzare pienamente girando attorno all’opera. Alla luce soffusa, la materia sembra perdere il proprio peso e la propria inerzia, per animarsi e per prendere vita. Il marmo appare trasfigurato, sublimato, leggero, trasparente. Certo, i corpi dei due amanti sono descritti nella loro perfezione anatomica, e tuttavia si presentano nella loro straordinaria bellezza idealizzata. In modo particolare, l’intersezione dei corpi dà vita alla forma di una X sinuosa, che sembra sollevare e innalzare l’opera nello spazio. Canova disegna un incrocio di linee curve. Se il primo arco procede dalla punta dell’ala sinistra di Amore per concludersi con l’estremità del suo piede, il secondo arco parte invece dall’ala destra per terminare nella punta del piede di Psiche[8]. Il punto di intersezione delle due direttrici, punto focale della composizione, emerge dal delicato abbraccio dei due giovani personaggi. Inoltre, le braccia dei due amanti, formando due cerchi intrecciati, sembrano dar forma a un magico tondo che incornicia i loro bellissimi volti.
Canova, le Accademie e la «Venere Italica»
Nel 1810 Canova è eletto accademico di San Luca, di cui diventa presidente dal 1810. È questo un ulteriore successo, che lo rende uno tra gli artisti più celebrati e richiesti dalle corti europee. Anche Napoleone Bonaparte gli richiede un ritratto, che l’artista realizzerà a Parigi nel 1801 nelle sembianze di Marte pacificatore, malgrado la propria riluttanza verso chi aveva tradito la Repubblica di Venezia, ceduta all’Austria con il Trattato di Campoformio (1797), dopo averne saccheggiato ricchezze e opere d’arte. L’ascesa di Canova continua senza sosta: diventa socio dell’Accademia milanese di Belle Arti e «ispettore generale di tutte le Belle Arti per Roma e lo Stato pontificio, con sovrintendenza ai musei Vaticano e Capitolino e all’Accademia di San Luca». Intanto, per supplire al trasferimento in Francia della Venere de’ Medici, collocata al Louvre a causa dei saccheggi napoleonici, Canova scolpisce per la città di Firenze la Venere Italica (1804-08), secondo l’iconografia per cui la dea è colta nell’atto di nascondersi dietro un velo, forse sorpresa dall’arrivo di qualcuno, interpretando il soggetto classico della Venus pudica. Posta nella Tribuna degli Uffizi[9], con essa Canova vuole rievocare lo spirito del modello greco-romano, attraverso la morbida tenerezza della carne, il dolce vibrare della statua nello spazio, evitando ogni forte chiaroscuro e articolando delicatamente il corpo attraverso raffinate sfumature.
Per Canova si moltiplicano gli onori accademici: l’artista è riconosciuto dalle Accademie delle Belle Arti di Firenze (1791); di pittura e scultura di Stoccolma (1796); di pittura e scultura di Verona (1803); di Venezia (1804); di Siena (1805); di Lucca (1806). In Europa, lo scultore è accolto nell’Accademia di Pietroburgo (1804), in quella di Ginevra (1804), in quella danese (1805) e nelle Accademie di Graz (1812), di Marsiglia (1813), di Monaco (1814); inoltre, in quelle di New York (1817), di Anversa (1818), di Vilnius (1818) e di Philadelphia. Insomma, è lo scultore più riconosciuto e celebrato in tutta Europa.
Il ritratto di Paolina Borghese: l’amore per la perfezione
Canova accresce ulteriormente il suo prestigio con l’esecuzione del ritratto di Paolina Bonaparte, sorella di Napoleone e consorte del principe Scipione Borghese, rappresentata nelle sembianze di Venere vincitrice. La scultura, terminata nel 1808, mostra la donna adagiata su un’elegante agrippina – una sorta di chaise longue stile Impero, molto in voga all’epoca –, secondo la tipologia dell’urna etrusca, con il defunto sdraiato sul triclinio mentre partecipa al banchetto funebre. Paolina tiene in mano il pomo della vittoria: è la più bella tra le dee scelte da Paride. Il virtuosismo tecnico e la perfezione formale fanno assurgere Paolina alla dignità di una dea. È questo un ritratto ideale; anzi, Canova fa di Paolina, ben conosciuta e chiacchierata per il suo carattere libero e mondano e per la sua passione per le feste e lo sfarzo, l’icona del neoclassicismo.
L’artista veneto realizza la scultura dopo una lunga riflessione, testimoniata da numerosi disegni preparatori e dal gesso originale conservato nella Gypsotheca di Possagno, che mostra i numerosi «punti», vale a dire i riferimenti necessari per la realizzazione della scultura in marmo. Casanova lasciava infatti questa operazione ai suoi assistenti, riservando a sé stesso «l’ultima mano», ossia quella straordinaria levigatura, lunga e paziente, con abrasivi sempre più delicati, che portava all’effetto della «vera carne», esaltata nella visione dal lume di candela. È questo il segreto della sua arte, che si perfeziona in quella «rifinitura» con la quale egli calibra gli effetti luminosi. Secondo questo intento, è straordinaria la resa del materasso, che pare affondare morbidamente sotto il peso della donna. È questo un effetto che ricorda la delicatezza del materasso scolpito dal Bernini per la statua antica dell’Ermafrodito dormiente, appartenuto a Scipione Borghese, reinterpretato in maniera neoclassica e poi ceduto a Napoleone. Il ritratto di Paolina Borghese è forse uno tra i migliori esempi dell’estetica canoviana. Palpitante e piena di vita, la statua è ideata per essere vista girandovi attorno. Canova concepiva infatti le sue sculture per essere contemplate non solo da un punto di vista frontale, ma a 360 gradi. Per questo motivo, esse potevano anche ruotare su sé stesse per mezzo di piedistalli rotanti, mentre degli specchi, collocati nello spazio che le ospitava, permettevano una visione simultanea dei diversi lati.
Il metodo di lavoro dell’artista: il segreto di un’«équipe»
Canova accoglie un’impressionante quantità di commissioni, che richiedono una notevole capacità di progettazione e di organizzazione. In questo senso, è un vero promoter di sé stesso e un imprenditore che dà vita a un’équipe ben preparata e particolarmente efficiente, che segue un preciso programma di lavoro.
Per Canova, la realizzazione di un’opera si articola sostanzialmente in tre momenti: la fase iniziale dell’ideazione; quella del trasferimento del modello in gesso nella scultura di marmo; e quella finale, dove l’artista apporta gli ultimi interventi nei quali il processo creativo si risolve in una «sublimazione». Prima di compiere l’opera, Canova esegue rapidi schizzi o appunti su carta o su tela. In un secondo momento, prepara piccoli prototipi preparatori in argilla, utilizzando uno scheletro portante, costituito da un’asta in ferro della medesima altezza della scultura, legata a sua volta con piccole asticelle metalliche con crocette di legno alle estremità. Come scrive lo stesso Canova, questo metodo gli consente «di far reggere la creta anche in macchine grandi assai, e in figure fuori di piombo», permettendogli di valutare le proporzioni, le qualità luminose e il modo con cui la scultura vive e respira nello spazio.
Il complesso metodo di lavoro è riportato in un passo delle Mie memorie del pittore Francesco Hayez: «Il Canova faceva in creta il suo modello; poi gettatolo in gesso, affidava il blocco a’ suoi giovani studenti perché lo sbozzassero e allora cominciava l’opera del gran maestro. […] Essi portavano le opere del maestro a tal grado di finitezza che sì sarebbero dette terminate: ma dovevano lasciarvi ancora una piccola grossezza di marmo, la quale era poi lavorata da Canova più o meno secondo quello che questo illustre artista credeva dover fare. Lo studio si componeva di molti locali, tutti pieni di modelli e di statue, e qui era permessa a tutti l’entrata. Il Canova aveva una camera appartata, chiusa ai visitatori, nella quale non entravano che coloro che avessero ottenuto uno speciale permesso. Egli indossava una specie di veste da camera, portava sulla testa un berretto di carta: teneva sempre in mano il martello e lo scalpello anche quando riceveva le visite; parlava lavorando, e di tratto interrompeva il lavoro, rivolgendosi alle persone con cui discorreva».
Canova delega dunque la realizzazione dell’opera ai suoi collaboratori, traducendo il suo modello in marmo. Lo sviluppo è complesso e ben documentato. Se i suoi assistenti giungono alla preparazione della statua in marmo, come scrive lo scultore Leopoldo Cicognara nella sua Storia della scultura, Canova si riserva l’ultimo processo di rifinitura: «L’ultima mano […] forma il più interessante dell’arte, e precisamente ciò che spinge l’opera al suo più squisito perfezionamento, segnando l’ultima linea impermeabile che in questa estrema superficie sublimemente nasconde il più alto magistero, e dopo la bontà del concetto forma la vera eccellenza del lavoro».
Canova si preoccupa dunque di eliminare le possibili imperfezioni, completa la statua con gli ultimi e decisivi ritocchi, a cui segue l’intervento del lucidatore, che rende levigate le superfici, conferendo loro una diafana lucentezza, in modo da far restare affascinati dalla bellezza della materia. Canova stende infine sul marmo, come finitura, l’acqua di rota, ossia l’acqua usata per raffreddare i ferri mentre si arrotano sulla mola[10], che dà alla superficie una maggiore lucentezza. L’artista applica infine sulla pelle della statua una patina speciale, in modo da simulare il colore dell’incarnato, dando alle opere il calore della vita. Così restiamo colpiti dalla perfezione delle forme e al tempo stesso dalla sensualità che esse irradiano. Siamo ben lontani dalla fredda rigidità di tante sculture neoclassiche, algide e immobili nella loro didascalica interpretazione dell’antico.
Dall’intuizione iniziale dell’artista si giunge in questo modo alla contemplazione della forma pura finale. La relazione con il mondo classico non si limita dunque a una ripresa esteriore di motivi iconografici. L’antico costituisce un orizzonte di senso, un mondo d’insuperata perfezione, che l’artista rilegge, «risignificando» i sogni del tempo presente. La ripresa dell’antico non implica un lavoro meccanico di assemblaggio di elementi: occorre piuttosto entrare nello spirito dell’antichità, per cogliere il segreto di una bellezza amata e vagheggiata. Come scrive Canova, «vi vuol altro che rubbare qua e là da pezzi antichi e raccozzarli assieme senza giudizio, per darsi valore di grande artista. Conviene studiare dì e notte su’ greci esemplari, investirsi del loro stile, mandarselo in mente, farsene uno proprio coll’aver sempre sott’occhio la bella natura con leggervi le stesse massime».
Canova e le spoliazioni napoleoniche
Intanto Napoleone continua a imperversare nella Penisola con le sue conquiste. Nessuna resistenza all’invasione francese sembra possibile. Canova assiste impotente all’occupazione di Roma (1808), per cui lo Stato Pontificio è annesso all’Impero francese. Malgrado questo affronto, nel 1810 l’artista si reca a Parigi, dove il generale Duroc gli commissiona la statua dell’imperatrice Maria Luisa, futura duchessa di Parma. Ritornando in Italia, Canova si ferma a Milano, Bologna e Firenze, dove indirizza una lettera al critico d’arte e teorico dell’architettura Quatremère de Quincy (1755-1849), al quale confida: «Sappiate che l’imperatore ha avuto la clemenza […] d’incitarmi a trasferirmi in Parigi appresso la Maestà Sua anche per sempre, se io vi acconsento. Io parto adunque al momento, per ringraziare la munificenza sovrana di tanta benignità onde si degna onorarmi, e per implorare in grazia di rimanere al mio studio e in Roma, alle mie solite abitudini, al mio clima fuori del quale morirei, a me stesso, e all’arte mia. Vengo perciò a fare il ritratto dell’Imperatrice, e non per altro, sperando che la Maestà Sua voglia esser generosa di lasciarmi nel mio tranquillo soggiorno, dove ho tante opere, e colossi, e statue, e studi, che assolutamente vogliono la mia persona, e senza de’ quali io non potrei vivere un solo giorno».
Soltanto dopo la sconfitta di Lipsia (1813), quando la fortuna di Napoleone è giunta alla fine, Canova è incaricato di recarsi a Parigi per recuperare le opere d’arte sottratte in seguito al Trattato di Tolentino. Malgrado le resistenze dei francesi e dei russi, grazie all’interessamento di Klemens von Metternich, diplomatico austriaco al centro della politica europea del tempo, Canova riesce a ottenere la restituzione della maggior parte delle opere. Tornato a Roma la sera del 3 gennaio 1816, è ricevuto dal Pontefice, il quale, in segno di ringraziamento per aver recuperato i capolavori trafugati, lo nomina «marchese d’Ischia [di Castro]» e lo iscrive nel Libro d’oro del Campidoglio. Come stemma del marchesato Canova sceglie la lira e la serpe, simboli rispettivamente di Orfeo ed Euridice, «in memoria delle mie prime Statue […], dalle quali […] devo riconoscere il principio della mia esistenza civile», secondo quanto egli scrive in una lettera indirizzata al Falier.
Le «Tre Grazie»: il trionfo della grazia e dell’armonia
Intanto, nel 1814, gli venne commissionato da Giuseppina di Beauharnais, prima moglie di Napoleone, il gruppo scultoreo delle Tre Grazie, che sarà riprodotto una seconda volta in un gruppo destinato a John Russell, VI duca di Bedford. L’opera, una delle più famose di Canova, traduce nel marmo il concetto squisitamente neoclassico dell’eternità di una bellezza serena e atemporale, aggraziata e immortale. È questa la bellezza ideale, ben rappresentata nei volti delle tre fanciulle, vagheggiata dal poeta Ugo Foscolo nell’Inno alle Grazie, dedicato al Canova: «… al vago rito / vieni, o Canova, e agl’inni. […] / Forse (o ch’io spero!) artefice di Numi, / nuovo meco darai spirto alle Grazie / ch’or di tua man sorgon dal marmo»[11].
Come se si trattasse di una rappresentazione del bello e buono nell’ordine cosmico, tutta la composizione si fa qui grazia e armonia. La raffinata disposizione spaziale si delinea in un abbraccio tra le tre fanciulle animate da un moto leggero che procede dall’incrocio delle gambe all’intenso gioco di sguardi, dal rincorrersi aggraziato delle braccia al ritmo che si crea con le raffinate acconciature dei capelli. La scultura irradia un sottile erotismo, a cui concorre un panneggio leggero che si snoda tra le figure, sfiorando l’area inguinale, in una sorta di gioco tra velamento e svelamento.
Il Tempio di Possagno e la morte di Canova
Intanto, nel 1818 Canova, esortato dai suoi compaesani di Possagno a intervenire in una vecchia chiesa parrocchiale del paese, prende la decisione di farne edificare una nuova a sue spese. Erige così un tempio classico a pianta circolare, con un pronao a colonne doriche, prendendo come modello il Pantheon di Roma. L’edificio sarà completato solo nel 1830, quasi 10 anni dopo la morte dell’artista.
In questa ultima parte della sua vita, Canova realizza ancora numerose opere, come la statua equestre di Carlo III e quella – solo iniziata – di Ferdinando I, per Piazza del Plebiscito a Napoli. Canova muore il 13 ottobre 1822 a Venezia. Le sue spoglie vengono collocate in un sepolcro nel Tempio di Possagno da lui progettato, mentre il suo cuore viene posto in un vaso di porfido conservato a Venezia, nel monumento funebre dell’artista, nella basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari.
In vita, Canova ha ottenuto un grandissimo successo, in Italia e in tutta l’Europa. Non solo: durante il Risorgimento egli assurge a nume tutelare di un’Italia che sta per nascere. Se agli inizi del Novecento, di fronte agli sconvolgimenti e alle contestazioni delle Avanguardie, egli è considerato uno stanco e freddo imitatore dell’antico, a partire dalle ricerche di Hugh Honor e di Mario Praz, dalla metà del secolo, inizia una sua progressiva riscoperta, fino a essere riconosciuto come il maggiore esponente del neoclassicismo. Inoltre, egli sarà considerato come il trait d’union tra il mondo antico e la sensibilità contemporanea, capace di imporre nuovi canoni estetici. Di fatto, Canova resta uno straordinario interprete del suo tempo. Probabilmente, in un mondo in cui tutto sembra essere messo in discussione e l’arte è frammentata in una molteplicità infinita di effimere proposte estetiche, la perfezione formale, l’armonia dei suoi lavori, la ricerca di una bellezza immortale possono costituire un orizzonte, oggi «inedito», verso cui orientare il nostro sguardo.
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ANTONIO CANOVA. The immortality of beauty
The great Venetian sculptor, Antonio Canova – whose 200th anniversary of death is being celebrated this year – is considered perhaps the greatest interpreter of European neoclassicism. Cultured and refined, in demand at the most important courts of Europe, he still fascinates us with his works in marble, which are examples of absolute formal perfection, beauty, and harmony, while at the same time sensuality. While his sculptures present themselves as timeless realities, they also manage to give the material the warmth of life. Perhaps, in our world in which everything seems to be called into question and art is fragmented into an endless multiplicity of ephemeral aesthetic proposals, the harmony of his works and the search for an immortal beauty may constitute an “unprecedented” horizon towards which to direct our gaze.
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[1]. Numerosi sono gli studi su Antonio Canova. Ne citiamo alcuni: G. C. Argan, Antonio Canova, Roma, Bulzoni, 1969; Id., L’ arte moderna. Dall’illuminismo ai movimenti contemporanei, Firenze, Sansoni, 1988; M. Praz, Gusto neoclassico, Milano, Rizzoli, 1990; H. Honour – P. Mariuz (edd.), Edizione nazionale delle opere di Antonio Canova, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1994; R. Varese, Canova. Le tre Grazie, Milano, Electa, 1997; G. Pavanello – G. Tormen, Antonio Canova, Roma, Gruppo editoriale L’Espresso, 2005; G. Cricco – F. Di Teodoro, Il Cricco Di Teodoro. Itinerario nell’arte. Dal Barocco al Postimpressionismo. Versione gialla, Bologna, Zanichelli, 2012; F. Piscopo, Echi canoviani, Crespano del Grappa (Vi), 2016; Id., Bianca Milesi. Arte e patria nella Milano risorgimentale, ivi, 2020; M. L. Putti, Canova. Vita di uno scultore, Roma, Graphofeel, 2020.
[2]. Oggi al Museo Correr di Venezia.
[3]. M. F. Apolloni, Canova, Firenze, Giunti, 1992, 6.
[4]. Musée du Louvre, Parigi.
[5]. Musée d’Art et d’Histoire, Ginevra.
[6]. Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma.
[7]. Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo.
[8]. Cfr G. Cricco – F. Di Teodoro, Il Cricco Di Teodoro…, cit., 1406 s.
[9]. Oggi è conservata a Palazzo Pitti, a Firenze.
[10]. Cfr M. Missirini, Vita di Antonio Canova, Roma, Universitalia, 2016, 117-119.
[11]. U. Foscolo, Le Grazie, Inno primo.