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Dopo aver descritto in maniera pregevole, ne Il buon tedesco, le vicende relative ai militari germanici e austriaci che disertarono per passare nelle fila delle formazioni partigiane, lo storico Carlo Greppi rivolge ora la propria attenzione alla biografia di Lorenzo Perrone, il muratore piemontese che consentì al prigioniero (Häftling) Primo Levi non solo di sopravvivere al Lager, ma anche di mettersi in comunicazione con i familiari. Tutto ciò a rischio della propria vita, visto che per i lavoratori civili i reclusi erano degli «intoccabili», e senza chiedere ricompense di sorta.
Per sei mesi l’artigiano si occupò del suo giovane amico con la sollecitudine di un padre: ebbe così inizio un rapporto di solidarietà fraterna che, nato nell’inferno di Auschwitz III-Monowitz, sarebbe proseguito dopo la guerra e durato fino al 1952, quando, piegato dall’alcol e dalla tubercolosi, Lorenzo venne a mancare. Levi, tuttavia, non lo dimenticò mai, tanto da chiamare i suoi figli – in omaggio all’amico – Lisa Lorenza e Renzo.
Occupandosi di un poveretto rissoso, enigmatico, taciturno e quasi analfabeta, lo studioso traccia il profilo di una «pietra di scarto» della storia, di uno di quegli individui la cui esistenza non ha lasciato alcun ricordo di sé, ma che, a ben guardare, costituiscono un baluardo eretto a protezione dei propri simili.
Va rilevato come Greppi si sia dedicato alla stesura di quest’opera con grande acume e meticolosità, consapevole delle difficoltà presentate da una vita sulla quale è calata la coltre dell’oblio e della conseguente necessità di colmare i tanti vuoti che impediscono di ricostruirne le fasi salienti. Inoltre, mediante l’ausilio sia di foto sia di documenti, e grazie a una prosa tanto ricca quanto scorrevole, lo storico espone in maniera approfondita l’itinerario umano e quello professionale di Perrone, inserendoli nel contesto della sua zona, il fossanese: dal lavoro illegale in Francia al ritorno in Italia dopo il 10 giugno del 1940, fino alla partenza da volontario per Auschwitz, dove sarebbe arrivato nell’aprile del 1942.
Chiosa l’A.: «Alla fine, e fin dall’inizio, quella che qui si racconta è una storia che riguarda gli esseri umani: la loro meschinità, innanzitutto, ma anche il loro coraggio, la loro imprudenza, la loro capacità di essere meravigliosi, benché terribili. La loro concretezza anche corporea» (p. 52). A due passi dall’epicentro dello sterminio, insomma, il muratore di Fossano si adoperò per la sopravvivenza altrui, deciso a mettere il suo granello di sabbia nell’ingranaggio della Shoah sulla base di ragioni squisitamente etiche.
Si deve anche osservare come il libro presenti continui richiami alle opere del chimico torinese. Riferimenti che arricchiscono il testo in maniera rilevante e contribuiscono a fare delle pagine di questo libro un modello di qualità letteraria. Un pregio, questo, che si aggiunge ai numerosi altri che sono stati già menzionati.
Una volta tornato da Auschwitz, Perrone smise di lavorare e si diede all’alcol, fino a trascinare la propria esistenza. In quello stesso periodo Primo Levi invece prese a scrivere molto: in seguito avrebbe affermato che la descrizione di quanto aveva vissuto gli era stata di grande aiuto. In altre parole, egli riuscì a «guarire» dal Lager mettendo sulla pagina ricordi e riflessioni. Le sue «memorie atroci» sarebbero dunque diventate una ricchezza di insegnamenti per noi.