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Come predicava un vescovo nella Gallia meridionale del V secolo? Lo possiamo sapere leggendo questi 80 sermoni al popolo tenuti da san Cesario, che fu vescovo di Arles dal 503 al 542. Situata all’imboccatura del grande delta del Rodano, Arles era la più importante città della Gallia Narbonense. Nella prima metà del V secolo, quella regione fu contesa tra gli Ostrogoti di Teodorico e i Franchi, con tutti i problemi che derivavano da tali scontri: prigionieri di guerra da riscattare, profughi da alloggiare e nutrire, ricostruzione da gestire.
Proveniente da una famiglia di condizione sociale medio-alta, Cesario a 18 anni entra nel clero, ma poi viene attratto dall’ideale monastico, che impara a conoscere nell’isola di Lerino, fucina di santi, dove passa una decina di anni dedito alla preghiera e allo studio della Sacra Scrittura e dei Padri, di Agostino in particolare.
Eletto vescovo di Arles nel 503, non ebbe un episcopato tranquillo: una volta fu imprigionato, un’altra volta fu accusato di tradimento presso Teodorico, ma ricevette l’appoggio di papa Simmaco, che lo nominò suo vicario per la Spagna e le Gallie, dandogli anche il pallium, simbolo dei vescovi metropoliti. In effetti, Arles aveva almeno 22 episcopati suffraganei, che Cesario visitava ogni due o tre anni. Numerosi sono i sinodi tenutisi in quegli anni nella Gallia meridionale e presieduti da Cesario.
Gli 80 sermoni, che qui sono presentati per la prima volta in italiano, rappresentano uno spaccato culturale ed ecclesiale estremamente significativo. Non vi troviamo pezzi di alta eloquenza, ma un riflesso senza abbellimenti di quelli che erano i problemi concreti della vita cristiana di allora, tra aspirazione alla vita evangelica e rigurgiti di paganesimo. Cesario è particolarmente attento ai vescovi suffraganei, che assomigliavano di più ai nostri parroci attuali. Le prime «ammonizioni» – così si intitolano quasi tutti i suoi sermoni – sono per loro, che devono dedicarsi non al mantenimento delle proprietà terriere della Chiesa, ma anzitutto alla predicazione. Cesario stesso predicava quasi tutti i giorni, convinto che distribuire il cibo per il corpo potesse essere fatto da tutti, ma dare il nutrimento della dottrina fosse compito proprio del vescovo.
Predicando al popolo, il vescovo esortava continuamente tutti a conoscere le Sacre Scritture, sia direttamente, per chi sapeva leggere, sia ascoltandone la lettura, per gli altri. Pur invitando alla pratica delle opere di misericordia corporali e spirituali come medicina dell’anima, Cesario non teme di stigmatizzare apertamente i sette vizi capitali, che macchiano la veste battesimale. Infatti, «non basta fregiarsi del battesimo e del nome di cristiani, se poi non si agisce di conseguenza sul piano morale, amando la castità, rifuggendo l’ubriachezza, detestando la superbia, rigettando l’invidia come veleno del diavolo, non commettendo furto, non dicendo falsa testimonianza, non mentendo né spergiurando, non commettendo adulterio, recandosi con frequenza in chiesa, offrendo le primizie a Dio, rendendo alla chiesa le decime da distribuire ai poveri, onorando i propri sacerdoti, amando tutti come se stessi e non provando odio verso nessuno» (pp. 49 s.).
Nelle sue omelie Cesario non aveva timore di toccare anche temi scottanti, come quelli relativi all’etica sessuale e matrimoniale. Non basta però denunciare il male, se non si propone anche il rimedio al peccato, e cioè la medicina della penitenza. Se poi è vero che tutti i cristiani sono chiamati alla santità, tuttavia Cesario sa bene che nella Chiesa cattolica ci sono diversi stati di vita: le vergini, che devono avere come modello Maria; le vedove, che devono imitare l’Anna di Lc 2,36-38; e le maritate, che devono fare come Susanna di Dn 13.
Pare che Cesario abbia curato lui stesso la pubblicazione dei suoi sermoni, collocando come primo «una vera e propria lettera circolare», indirizzata a tutti i battezzati e a tutti i vescovi (cfr p. 87). La traduzione è sempre fluida e di piacevole lettura. È da elogiare la scelta, non comune, di tradurre le citazioni bibliche testualmente «e non secondo le versioni italiane correnti della Bibbia» (p. 83).