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Perché generare figli? Quale ragione autorizza una decisione così importante e delicata come quella procreativa? Da un punto di vista utilitaristico, la risposta a queste domande deriva dalle conseguenze per chi genera (il soddisfacimento del desiderio di avere un figlio) e per chi nasce (il godimento di una vita sana e felice e la presumibile capacità di condurre un’esistenza piena e significativa). Se siamo generalmente felici di essere venuti al mondo, possiamo congetturare che la nostra scelta di avere un figlio massimizzi il benessere complessivo di tutti gli individui coinvolti.
Benatar, direttore del Dipartimento di Filosofia presso l’Università di Città del Capo, sostiene invece una tesi antinatalista radicale: «Ognuno di noi ha subìto un oltraggio nel momento in cui è stato messo al mondo. E non si tratta di un oltraggio da poco, poiché anche la qualità delle vite migliori è pessima – e notevolmente peggiore di quanto riconosca la maggior parte delle persone» (p. 7). Prevarrebbe insomma, nelle nostre culture, un ingiustificato ottimismo pro-life, e il «pessimista» Benatar cerca, in queste pagine, di criticare tale pregiudizio, affermando che «venire al mondo non costituisce affatto un bene, ma sempre e comunque un male» (p. 11). L’autore auspica quindi un’estinzione programmata, graduale e il più possibile rapida della specie umana. Nonostante queste premesse, Benatar non sostiene una necessaria doverosità del suicidio, poiché occorre «una giustificazione più forte per porre fine a una vita che per non darle inizio» (p. 34). Inoltre, il suicidio rende molto peggiore la vita di chi resta in lutto (p. 237).
Il testo dell’autore solleva profonde perplessità e critiche sul piano etico. È vero che colui che viene al mondo soffre, prima o poi, qualche pena. Ma come escludere che ragioni di speranza – vissute sia da credenti sia da non credenti – riscattino i momenti di prova? In realtà, spendere la vita per una buona causa, nonostante e attraverso fatiche e dolori, è l’unico modo, a nostro avviso, per non gettare via quella vita. In nome di un presunto dovere di risparmiare nuove sofferenze, Benatar impedirebbe a potenziali persone di accedere a emozionanti esperienze vitali e a sentimenti di grata riconoscenza, come quando un figlio ringrazia padre e madre di avergli dato la vita e avergli consentito di amare e di essere amato.
L’autore afferma che ogni desiderio soddisfatto apre la strada a un nuovo desiderio, cosicché lo stato di frustrazione permane e questa deprivazione non renderebbe certo migliore la vita. Purtroppo egli non intuisce che la fede è figura costituiva di ogni agire morale, se si intende la fede come dedizione a un bene che rivendica a sé la garanzia del raggiungimento di ciò che si desidera e si spera.
L’autore opera inoltre alcune discutibili incursioni nella psicologia. Da un lato, non viene offerta una fedele ricostruzione del vissuto procreativo, né adeguatamente delineata la sofferenza delle coppie sterili, le quali non tendono unicamente a gratificare se stesse, ma a rendere possibile la nascita di un figlio, che è atteso e amato per sé e non per il bene altrui. Dall’altro lato, Benatar spiega alcune esperienze morali qualificandole riduzionisticamente come il prodotto di processi mentali non razionali. Se poche persone rimpiangono di essere venute al mondo, ciò avverrebbe a causa di meccanismi psicologici irrazionali ed euforizzanti. Ma, così facendo, egli abbandona l’analisi propriamente etica e trascura il fatto che il suo stesso pessimismo potrebbe derivare da fenomeni psicologici di difesa.
L’autore ritiene infine i propri argomenti compatibili con il pensiero religioso. Ma confonde la legittima, istintiva espressione di profonda tristezza (presente in molte pagine bibliche) con la decisione morale di rifiutare la vita stessa. La tradizione ebraico-cristiana esalta la generazione come una benedizione e un compito. «Procreare» (come indica lo stesso termine) è la privilegiata partecipazione al gesto benevolo di Dio, che dona alle creature l’esperienza significativa (anche se non immune da patimenti) di un’incrollabile alleanza di salvezza e della tenera premura di un Padre.
DAVID BENATAR
Meglio non essere mai nati. Il dolore di venire al mondo
Milano, Carbonio, 2018, 256, € 16,50.