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Nella nostra epoca, che si contraddistingue per la ricerca sempre più frenetica delle «specializzazioni», soprattutto nell’ambito della conoscenza scientifica, ma in genere nei riguardi di tutto il sapere, si corre il pericolo di perdere di vista l’intrinseca unità e coerenza della realtà, oggetto del conoscere e del sapere. Infatti, un tale modo di intendere la conoscenza da parte dell’uomo porta inevitabilmente a percepire ciò che fa parte della nostra esistenza diviso in compartimenti stagni, monadi che non hanno relazioni con il tutto.
L’importanza di non perdere di vista l’universalità della conoscenza vale anche per lo studio della giustizia, del diritto e della normativa giuridica stabilita positivamente nell’ambito di ogni tipo di società. La scienza giuridica, la filosofia del diritto e la teologia non studiano una «giustizia» e un «diritto» loro proprio, ma sono chiamate a interrogarsi su ciò che è il comune oggetto di tutte, anche se ognuna nella prospettiva sua propria.
Quindi si tratta di uno studio che potremmo qualificare come «spiraliforme», che di solito inizia dall’approfondimento del diritto positivo da parte della scienza giuridica, prosegue con la ricerca di senso da parte del filosofo del diritto e si conclude, ma solo per ritornare sulla giustizia del diritto positivo, con l’opera del teologo. Nella profonda convinzione che la teologia ritiene il suo stallo nel coro del sapere, in quanto, attraverso la riflessione sulla rivelazione, conferma e in un certo senso illumina quanto già la recta ratio ha colto (cfr Rm 1; Fides et ratio, nn. 93-98).
Inoltre, la questione si pone in una prospettiva che oltrepassa la scena di questo nostro mondo e coglie l’importanza dell’interrogarsi anche sulla giustizia di Dio, percependo che è proprio questa, in definitiva, a illuminare pienamente la giustizia umana, o meglio i vari tentativi di realizzarla. Nella consapevolezza che, se anche princeps legibus solutus (Digesto, 1.3.31), come ammoniva Federico II di Svevia, nessun sovrano – o sovranità – può porsi al di sopra della ragione, che è la madre del diritto.
In questo volume il giurista Lipari e il biblista Pitta cercano proprio di proporre l’oggettività della giustizia, presentandola ognuno dalla prospettiva e con il metodo specifico del suo ambito di competenza. Entrambi sottolineano l’esistenza incontestabile di un ordine nelle relazioni umane che va rispettato semper, ubique et apud omnes, anche se allo stesso tempo sfumano la propria posizione al momento di riconoscere in chi e come inerisca un tale ordine, in altre parole qual è il suo fondamento ultimo.
Il giurista coglie la giustizia come un qualcosa che non può essere definito una volta per tutte, ma è soggetto hic et nunc a essere riconosciuto e affermato. Il biblista nota invece tutta la limitatezza di una giustizia concepita come misura del dare a ciascuno il suo nelle relazioni tra gli uomini, cosa che può realizzarsi solo ed esclusivamente in quanto si completa nella carità, cioè nell’amore «oltremisura».
Quindi, per entrambi il dibattito riguardo alla giustizia rimane aperto a interrogativi e prospettive che postulano il concorso di tutti. Per questo Lipari, concludendo il suo contributo, lascia ai lettori tre domande, al fine di spronarli a continuare una riflessione della quale nessuno può fare a meno, in quanto interessa la vita di ogni persona.
La prima domanda riguarda il possibile contributo della Bibbia al tema della giustizia nella società contemporanea: in concreto, la possibilità di operare qualche attualizzazione. La seconda concerne il pericolo che una visione della giustizia alla luce della fede possa ricollocarla nell’ottica di un «dogmatismo» che oggi è inesorabilmente rifiutato. Infine, quasi provocatoriamente, il giurista pone la domanda: «La giustizia sulla quale siamo stati chiamati a riflettere è la giustizia umana con tutte le sue inevitabili debolezze e alternative temporali. Come è possibile indirizzarla e governarla se il metro di paragone diventa esclusivamente “la giustizia di Dio che si rivela nell’Evangelo” (Rm 1,17)? Non è questo un atteggiamento che rischia di negare alla storia quella che, per un credente, dovrebbe essere la sua chiave di lettura fondamentale: assumerla quale strumento essenziale del disegno redentivo?».