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Questo libro di Adriano Fabris (professore emerito di Teologia morale all’Università di Pisa), che si snoda in modo serrato attraverso sette densi capitoli, intende essere un’indagine, svolta da un punto di vista filosofico, sul cristianesimo quale «fede scomparsa» nel mondo secolarizzato: indagine che vuole individuare le ragioni di tale situazione e offrire alcune indicazioni per sollecitare a una rinnovata «esperienza della fede».
L’A. propone di andare oltre la riduzione della fede stessa a fenomeno puramente soggettivo e l’assunzione opposta della fede come un’oggettività dogmatica. La prima via presuppone acriticamente la validità dell’approccio «moderno», che Fabris vede nel segno dell’autoreferenzialità del soggetto, per il quale il contenuto della fede, la fides quae creditur, finisce per essere fondato in una fides qua creditur, intesa come «fatto puramente individuale» (p. 70). La seconda via, d’altra parte, presenta il limite di non fare sul serio i conti con la «modernità» e con il «cambio di mentalità» occorso in essa e che predomina anche nella nostra epoca.
Fabris giudica insufficienti anche due varianti recenti di tali approcci: «la riduzione della fede a prassi sociale caritatevole», che rischia di renderla superflua; e il tentativo operato dai cosiddetti «atei devoti» di andare in soccorso della fede con motivazioni di carattere storico-culturale. Egli propone una terza via, che intende evitare sia una condanna della modernità che vagheggia «impensabili ritorni a forme di vita premoderne», sia un’assunzione acritica delle idee di fondo e dei presupposti tipici dell’età moderna.
Questo comporta il superamento di una mentalità secondo cui «l’unico modo d’interagire con il mondo è quello di spiegarlo ricercandone le cause» (p. 70), il che ha portato all’eclissi della dimensione del «senso» e all’imporsi della «mentalità tecnica» in cui «l’agire è giustificato solo se produce qualcosa» (p. 71). Per l’A., è chiaro che in un tale scenario «lo spazio per l’atteggiamento di fede», nei modi in cui è veicolato il kerygma cristiano, si riduce fino a scomparire. D’altra parte, egli ritiene che per ritrovare la fede non basti comunicare con «parole nuove» i contenuti della tradizione, e neppure far incidere la prospettiva della centralità del linguaggio non solo sulla formulazione dei contenuti, ma anche «sui contenuti stessi che da queste formule sono manifestati» (p. 62). La tesi di fondo è che si tratta, per un verso, di ripensare i contenuti della fede cristiana non oggettivisticamente, ma «nel loro rapporto con ciò che li legittima per il credente», senza che per questo si debba far dipendere «tali contenuti dalla fede stessa, intesa nel suo aspetto soggettivo» (p. 63); per un altro verso, si tratta di considerare se i contenuti della fede siano vincolati unicamente «alla struttura del linguaggio apofantico», elaborato nel pensiero greco, oppure se «ci sono altri modi, ulteriori, per individuare ed esprimere» (ivi) ciò di cui il credente fa esperienza concreta.
Una tale prospettiva riceve la sua forma articolata nel capitolo quinto del libro, intitolato «La fede come relazione», e nel capitolo sesto, dal titolo «Il cristianesimo come religione impossibile», nei quali si determina la proposta circa il modo di riconsiderare, nel contesto dell’epoca contemporanea, rispettivamente il tema della fides qua creditur e quello della fides quae creditur.
Per quanto riguarda il primo aspetto, occorre «ripensare la fede come modalità eminente della relazionalità del nostro stesso essere e come specifica espressione religiosa di tale relazionalità» (p. 74), rilevando che per il cristianesimo la fede consiste «in un cambiamento di prospettiva, in una con-versione» e che essa è promossa «coinvolgendo altri in quel coinvolgimento da cui è già preso il credente in prima persona». In merito al secondo aspetto, Fabris sottolinea come nella fede venga a manifestarsi un contenuto che «eccede» ciò che può essere fissato nella concettualità propria della logica umana.
Il cristianesimo, così, mentre «apre possibilità ulteriori del nostro rapporto con il mondo», nello stesso tempo introduce possibilità che «delineano scenari che vanno contro quanto è condiviso, solitamente, dalla mentalità comune», così che per certi suoi aspetti esso si configura come «qualcosa d’impossibile da attuare» (p. 91). In tal modo, al seguito della parola di Gesù, il credente è collocato nella prospettiva del «paradosso», ossia di «ciò che mette in crisi le convinzioni comuni, nella teoria e nella pratica» (p. 97), e il cristianesimo mostra di essere qualcosa «che dev’essere messo in opera, sempre e di nuovo» (p. 102) e «trasforma l’impossibile in possibile» (p. 128).