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Un eroe sempre più solo e consegnato al sacrificio della storia: tale è il Giacomo Matteotti che appare in questo libro di Concetto Vecchio, giornalista e quirinalista de la Repubblica. Un eroe che capovolge, da 100 anni, il luogo comune che, se non in vita, almeno da morto quell’eroe avrà fama e onori. Perché la storia non è esattamente quel prevedibile cammino di un certo hegelismo superficiale. Anche dopo il suo rapimento e l’accoltellamento da parte della banda di Dumini, una serie di cortocircuiti, dovuti non solo alle divisioni della sinistra, ma anche a un sostanziale isolamento di Matteotti, portarono a stendere, allora come oggi, una coltre di imbarazzato e imbarazzante silenzio. La vedova, Velia Titta, dovette affrontare una serie impressionante di «invasioni» di persone sedicenti amiche, e che in realtà erano spie di Mussolini, di sorveglianze sotto casa che investirono anche i figli, impedendo loro una infanzia e una gioventù serena e spensierata.
Ed è davvero singolare notare come «il gioco delle parti» – Pirandello, se è per questo, chiederà l’iscrizione al partito fascista dopo l’uccisione di Matteotti – sarà rovesciato in questa tragedia: l’eroe che presenta infinite volte nei suoi interventi in Parlamento i conti della corruzione e della violenza del costituendo regime, con precisi documenti e dati alla mano, sarà sempre più solo, confortato da pochi compagni del Psu – il partito che era nato dopo l’espulsione dal Psi dei riformisti da parte dei massimalisti, molti dei quali furono, con lo stesso Mussolini, fondatori del fascismo – e attaccato duramente dalle altre compagini della sinistra e dal partito comunista di Gramsci.
«Quell’uomo dopo quel discorso non dovrebbe più circolare»: sarà una delle frasi, ricordate da Vecchio, che Mussolini griderà a uno dei suoi dopo l’intervento che costerà la vita al leader socialista. E, ricorda ancora l’A., alle pacche sulle spalle e ai complimenti di alcuni coraggiosi compagni di partito Matteotti risponderà: «Grazie, ma adesso preparatemi l’elogio funebre» (p. 176). Infatti, l’A. a un certo punto non può trattenersi e deve chiedersi: «Come diavolo ha fatto a resistere, Matteotti? Perché non è emigrato all’estero, come tanti antifascisti minacciati?» (p. 128).
Se ci fosse un esempio di eroe politico da proporre all’attenzione pubblica, Matteotti sarebbe uno di questi. Eppure le lapidi e le commemorazioni sono stati oggetto di vera e propria rimozione da parte di alcuni governi, anche dopo la liberazione dal regime fascista.
Il libro di Vecchio ripercorre – documenti alla mano, e con interviste ai familiari e agli storici – le tappe del calvario di Matteotti, non solo a livello di cronaca e di documentazione politica, ma anche ricordando l’amore, le preoccupazioni e il dolore della moglie, i suoi sforzi e la sua determinazione per vedere il corpo del marito dopo la scoperta del cadavere alla Quartarella, sulla Flaminia, tra Sacrofano e Riano, e le «visite» – in realtà, vere e proprie indagini pagate da Mussolini – di sedicenti nuovi amici; senza contare i numerosi agenti che sorvegliavano l’appartamento di Matteotti e che fermavano le persone che entravano nel palazzo, scortandole fino alla porta di destinazione, per evitare che andassero a casa della vedova.
Velia si staglia in questo racconto come una persona che, pur nelle forti diversità – lei era profondamente credente e aveva pensato, prima dell’incontro con Giacomo, di farsi suora; lui era ateo –, riesce a stargli vicino anche con lettere, in cui emerge un amore capace di andare oltre ogni distanza.
Il merito dell’A. è soprattutto quello di essere riuscito a ripercorrere l’attesa di una fine, ormai prevista e accettata, da parte di un leader politico che, oltretutto, sarebbe potuto fuggire all’estero, ma anche l’umano dolore di una famiglia rimasta senza più un padre e destinata a infiniti problemi di ordine economico e psicologico. Basti pensare che a Velia venne proibito di portare il lutto e che il figlio Giancarlo veniva scortato e riaccompagnato a casa prima e dopo aver frequentato il liceo a Roma.
La «Storia», con la maiuscola, quella che in ogni caso ha contribuito a fare Matteotti, diviene tutt’uno con la vita, quella reale, di una famiglia destinata alla sofferenza e perfino all’esclusione dalla vita reale. Una storia che le divisioni politiche hanno contribuito a occultare, perché ha presentato, anche a sinistra, il salato conto di un esempio di come sarebbe potuta andare diversamente se molti avessero imitato il coraggio, la precisione nelle denunce e la forza di un uomo che sapeva qual era il prezzo che doveva pagare per la sua fedeltà a un’idea. Uno dei pochi a sfidare coraggiosamente la responsabilità del rapimento e del delitto fu il cattolico Igino Giordani.