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All’inizio del nostro incontro, la professoressa Marta Cartabia ha subito tenuto a precisare di non sentirsi un «personaggio». E ciò è stato confermato dal fluire del nostro dialogo con lei a Villa Malta, la sede de La Civiltà Cattolica, mentre rispondeva alle domande con apertura, semplicità e con la chiarezza propria di un esperto docente universitario. Nel corso di un’ampia conversazione, la professoressa non si è sottratta a nessuna tematica, pur avendo considerato una delle nostre domande «molto ardua». La sua disponibilità ci ha permesso di scandagliare una grande varietà di argomenti: l’impegno personale a livello accademico e pubblico; le minacce alla democrazia; le proposte di riforma costituzionale in campo oggi in Italia; la guerra in Ucraina e il futuro dell’Europa; e infine, le sfide affrontate dalla Chiesa nei nostri giorni, le problematiche della gioventù e la riflessione sulla violenza nella società, in particolare sulle donne.
Ci ha colpito la frequenza con cui la professoressa si è riferita alla necessità, a tutti i livelli, di partecipazione e di condivisione di progetti comuni che possano incidere sui problemi concreti della vita delle persone. In concreto, nelle sue parole, «il punto torna a essere quello di imparare di nuovo a stare insieme, anche tra orientamenti che non sono necessariamente vicini». Da sottolineare, allo stesso modo, l’importanza data al ruolo dei maestri nella formazione della gioventù. E sui giovani, le sue osservazioni riflettono un contatto diretto e un sentimento di fiducia: essi «cercano stili di vita e percorsi autentici, non si fanno suggestionare dai modelli ereditati». Perciò, «diamo loro spazio e ascoltiamoli […], perché mi sembra che questi giovani, pur nelle loro difficoltà, abbiano le antenne per capire dove trovare i punti di riferimento».
Ringraziamo la professoressa Cartabia per la disponibilità manifestata e condividiamo volentieri con i lettori il nostro dialogo con lei.
Professoressa Cartabia, il suo «curriculum» accademico e professionale è di altissimo profilo. Spiccano l’elezione a presidente della Corte Costituzionale (la prima donna in Italia a ricoprire tale carica, dal dicembre 2019 al settembre 2020) e la sua partecipazione al governo Draghi, in qualità di ministra della Giustizia. Se lei si dovesse presentare in poche parole, cosa direbbe di sé? Da dove viene e dove va Marta Cartabia?
A me sembra che la mia vita si sia svolta nella più assoluta normalità. Capisco che alcuni incarichi possano suscitare una sensazione di eccezionalità, ma le cose si sono svolte in un modo che mi sembra assolutamente normale. Vengo da una famiglia della media borghesia, solidamente radicata nel cattolicesimo lombardo. Sono stata, se si vuole, una studentessa appassionata. Davvero eccezionali nella mia vita sono stati gli incontri con i maestri che ho avuto, sia all’Università sia nella vita. Maestri che ho seguito, perché mi sembrava avessero una strada interessante da proporre. Se qualcosa fuori dall’ordinario è accaduto nella mia vita, è dovuto a questi incontri particolarmente significativi. Per il resto nulla era stato pensato o programmato. È la trama di una vita che fin qui si è svolta seguendo occasioni, incontri e passioni.
Tra i maestri cui fa riferimento, ce n’è qualcuno che ha piacere di ricordare? E per quale aspetto particolare?
Mi limito a ricordare i maestri degli inizi: Valerio Onida, costituzionalista dell’Ateneo milanese, da cui ho imparato che cosa possa significare spendersi per una giustizia dal volto umano; e Joseph Weiler, internazionalista della New York University, da cui ho imparato il gusto dell’attraversare i confini e l’apertura all’altro, alla diversità.
Se dovessi continuare, la lista sarebbe lunghissima, perché tuttora per me è decisivo il rapporto con chi ha più esperienza, con chi ha più maturità e traccia nuove vie da percorrere: come Virgilio per Dante.
Le democrazie occidentali sembrano vivere da tempo uno sfilacciamento e una lenta crisi di forma e di sostanza. Tenendo conto del tempo in cui si sono formate e del contesto attuale, quali sono, secondo Lei, i loro principali punti deboli? E quali le minacce più serie a una vita pienamente democratica?
Vedo, tra gli altri, un problema fondamentale: l’estrema polarizzazione e frammentazione della società, e soprattutto tra gli attori politici. La democrazia ha dentro di sé una naturale vocazione alla competizione fra soggetti diversi: un governo democratico nasce da una competizione elettorale; presuppone un agonismo tra soggetti che hanno visioni del mondo differenti. Di per sé, tale agonismo non è un problema, anzi. Il problema sorge quando la competizione degenera in uno scontro fra tifoserie, in conflitto permanente, in dissidio intenzionalmente coltivato che porta a un’impossibilità di mettersi insieme, di condividere progetti comuni, anche partendo da punti di vista diversi. Forse ciò è stato facilitato dalla crisi e dalla perdita di ruolo dei soggetti di mediazione tradizionali. Forse anche dall’esasperazione portata nella narrazione politica dai nuovi media, che produce una ipersemplificazione delle posizioni, a causa della quale si perdono quelle sfumature che possono diventare elementi di reciproca comprensione e, quindi, punti di contatto. A questi fattori si può aggiungere forse anche uno smarrimento dello scopo principe della politica, che è la costruzione di progetti per l’interesse generale, e non soltanto per l’affermazione della propria parte. Il punto di crisi fondamentale è questa incapacità di confrontarsi sui contenuti e di costruire progetti comuni, pur partendo da posizioni diverse.
È sempre più diffusa la situazione di Paesi che fanno molta fatica a formare dei governi. Guardando fuori dall’Italia, vediamo la Spagna, la Polonia, Israele – già prima della guerra –, la Germania, il Belgio… C’è una grande difficoltà a stare insieme. È una questione culturale e sociale, prima che politica, ma, senza il riconoscimento del valore dell’altro per la costruzione comune, la democrazia non sta in piedi.
Ho appena letto la notizia della pubblicazione di un libro contenente un ampio carteggio tra Pietro Nenni, socialista, e Aldo Moro, democristiano: più di 300 lettere, biglietti e telegrammi, che testimoniano il loro rapporto politico e personale, pur nella divergenza di vedute. Forse abbiamo bisogno di soffermarci su testimonianze di questo genere per riscoprire il valore dello stare in rapporto con la diversità[1].
Recentemente, tra le minacce alla democrazia, Lei ha segnalato in particolare quella dell’astensionismo, di cui si parla solo nei giorni di commento alle elezioni e poco più. In Italia, dal 1976 è aumentato del 30% circa. Da cosa «si astengono» gli italiani, secondo lei, urne a parte? Da cosa si allontanano? Quali i rimedi pratici, e chi è chiamato a metterli in campo?
Da un po’ di tempo, il partito vincitore delle elezioni è quello di chi non vota. E la tendenza è crescente, soprattutto tra i giovani. Mi colpisce molto il contrasto rispetto alle origini, ai tempi della nascita della Repubblica italiana. C’è questo bel film di Paola Cortellesi, C’è ancora domani, che racconta bene il significato di quel 2 giugno 1946. Per andare al voto – con quelle lunghe code ai seggi, e per le donne fu la prima volta – le persone si preparavano come per un appuntamento importante, a lungo atteso. Si andava a votare nella convinzione di compiere un gesto che poteva incidere e cambiare anche le sorti della propria vita personale. Ho la sensazione che la disaffezione verso la politica, e quindi anche l’astensionismo, sottintendano una disillusione sulla capacità della rappresentanza politica di intervenire nei problemi concreti della vita delle persone. Un po’ come se si dicesse: «Non trovo nessuno da cui mi sento rappresentato, ma in fondo cambierà poco sia che vinca il partito A sia che vinca B». Faranno tutti lo stesso. E faranno tutti una politica che non sa farsi carico dei problemi che affliggono le persone.
Forse potremmo dire così: gli elettori si distaccano dalla politica, perché per prima la politica si è staccata da loro.
La sensazione è che ci sia una tendenza a tirarsi fuori dai luoghi della mediazione anche a un livello più basico e vicino alle persone, come può essere un’assemblea di condominio o i consigli di classe nella scuola…
Sì, lo percepisco soprattutto nelle nuove generazioni. Per la mia generazione, essere presenti in tutti i vari «parlamentini» della vita comune, nei luoghi di partecipazione era attraente, perché eravamo animati da un gran desiderio di cambiare le condizioni sociali. Forse, come dicevamo, oggi pesa un senso di disillusione verso la politica, ma, nel caso dei giovani, credo ci sia anche il peso di domande esistenziali che premono con maggiore urgenza e drammaticità.
Il populismo è ancora una reale minaccia alla democrazia, o si tratta di un movimento ormai «istituzionalizzato»? Come lo definirebbe?
È un fenomeno che si sta diffondendo ed è molto preoccupante. È anche alla radice di alcuni di quei problemi della democrazia di cui abbiamo parlato, oltre che della disaffezione delle persone alla partecipazione pubblica. Il populismo è una caricatura, una riduzione della democrazia. Sono state date tante definizioni del fenomeno, però l’elemento centrale nel populismo – che può essere di destra o di sinistra – è la presenza di un leader o di un partito che si considera interprete unico della volontà del popolo. A volte questa forza politica esprime una maggioranza, ma in molti casi, anche per via dell’astensionismo, è espressione di una minoranza più forte delle altre. Il populismo soffoca la pluralità; e, dopo una vittoria elettorale, ha una tendenza a occupare tutti gli spazi di potere: politico, mediatico, amministrativo, culturale.
Il populismo è l’antitesi del pluralismo di cui si nutre la democrazia. In un Paese libero, il popolo non parla con un’unica voce, è composto da una molteplicità, e la volontà generale è frutto di un lavoro comune per arrivare ad accordarsi. Per questo il populismo può essere visto come una degenerazione della democrazia: perché perde il senso dell’altro e perché smarrisce il senso del limite del potere. Oggi il populismo non si presenta nelle forme che abbiamo conosciuto in passato con i totalitarismi aggressivi e oppressivi della prima metà del Novecento. È più sottile, ma genera una perdita di spazi di libertà che quasi non si avverte. Non a caso esso è fortemente insofferente al costituzionalismo e alla giustizia costituzionale, perché le Costituzioni – e le Corti costituzionali che ne sono i custodi – servono proprio a questo: a porre limiti al potere della maggioranza sulla base di valori condivisi. Il grande Costantino Mortati, uno dei nostri padri costituenti, scrisse che «la concordia discors, su cui poggia ogni ordinamento democratico e ne promuove i pacifici sviluppi, presuppone una coscienza costituzionale generalmente diffusa, poiché è da questa che la dialettica dei contrari trova, insieme al suo alimento, il senso dei propri limiti»[2].
Riforme istituzionali e revisione costituzionale. In Italia si è riaperto il dibattito sul cosiddetto «premierato». Le democrazie sono faticose, a qualcuno sembrano inefficienti, e si tenta di renderle più pragmatiche: quali i rischi e quali le opportunità?
Personalmente, ho più volte sottolineato il fatto che l’esigenza da cui partono alcune proposte di riforma è condivisibile. È innegabile la necessità di affrontare la questione dell’instabilità dei governi, che è un problema vero. In 76 anni di democrazia, abbiamo avuto 68 governi. Ciò significa che la durata media di un governo supera appena l’anno, con 31 governi che non sono arrivati nemmeno a un anno di vita. In questo modo è più difficile affrontare politiche di lungo periodo. Questa instabilità consuma a vuoto tantissime energie nei vertici dell’amministrazione pubblica, e fa perdere molto tempo nelle transizioni: tempo che potrebbe essere usato per risolvere i problemi della vita della gente. Questa situazione non è buona e va affrontata.
La domanda vera è se le proposte in campo siano in grado di offrire una soluzione al problema. Si sta puntando all’elezione diretta del presidente del Consiglio dei ministri, con un sistema elettorale ancora da definire, ma che dovrebbe portarsi appresso la maggioranza dei voti dentro le Camere. Cioè, si confida nella forza del leader per dare stabilità. Ecco, questa è una scelta ai miei occhi molto discutibile, perché, se il problema è l’instabilità delle coalizioni, il punto torna a essere quello di approntare dispositivi istituzionali che sostengano la capacità di governare insieme anche quando gli orientamenti divergono. Affidare alla capacità del leader la tenuta e la durata nel tempo di un governo è una semplificazione, a mio parere, molto rischiosa.
Tra l’altro, così facendo si viene a svuotare di fatto il ruolo del presidente della Repubblica, che è stato fondamentale nella storia recente del nostro Paese. È vero che la riforma non incide formalmente sui poteri del capo dello Stato, ma con la centralità data alla figura del premier si svuotano di fatto i due poteri più importanti del Presidente: quello di nomina di un nuovo presidente del Consiglio, perché si formi un nuovo Governo in caso di crisi, e quello dello scioglimento delle Camere.
Vorrei poi precisare che i nostri governi sono instabili, cioè durano poco, ma non sono affatto deboli. Essi hanno da tempo trovato il modo per decidere anche con tempestività, soprattutto attraverso un uso molto frequente dei decreti legge. Non c’è un ostacolo alla decisione. E non da ora. Lo strumento per dare forza al governo, che era pensato per situazioni eccezionali, e di cui molti Governi hanno anche spesso abusato, c’è, eccome. Il Parlamento come luogo dove si elaborano le leggi e le riforme è in crisi. Il Governo anticipa le decisioni col decreto legge e il Parlamento poi le conferma, eventualmente modificando alcuni piccoli aspetti, e si è persa, così, l’alterità tra Governo e Parlamento.
A essere pregiudicate dall’instabilità dei Governi, invece, sono le politiche di lungo termine, cioè quei problemi, come la questione demografica, la questione educativa o il cambiamento climatico, che possono essere affrontati solo all’interno di un arco temporale di ampio respiro. Chi affronta temi di questo genere? In questi ambiti, le riforme si fanno solo perché c’è un contesto europeo, una cornice istituzionale che pone un vincolo e uno stimolo esterno all’iniziativa. Di qui l’importanza della partecipazione al sistema europeo.
Torna nelle sue parole questo tema della difficoltà dello stare insieme. Dal punto di vista giuridico e istituzionale, Lei ha individuato un momento, un fatto storico che ha provocato definitivamente questa frattura?
Sì, secondo me questo fattore è individuabile nel momento in cui abbiamo cominciato a innamorarci delle democrazie maggioritarie, ossia con la fine della cosiddetta «Prima Repubblica», che peraltro è arrivata a causa di una serie di fenomeni tutt’altro che commendevoli. La corruzione che è emersa in quegli anni è stata la giusta causa della chiusura di un’epoca. In quel momento – con le riforme elettorali dei primi anni Novanta, e vari tentativi di riforme costituzionali mai approvate – abbiamo incominciato a innamorarci dell’idea di semplificare il sistema politico intorno a due soli grandi soggetti che avrebbero dovuto confrontarsi in una competizione. Questa semplificazione, poi, di fatto non è mai avvenuta, perché le nostre maggioranze sono sempre state composte da coalizioni e, quindi, non è mai venuta meno quella litigiosità, interna anche alle forze di maggioranza, che produce instabilità nel governo. Però si è persa la capacità di mediazione e la necessità di guardare a obiettivi da portare avanti assieme.
Tutta l’epoca politica iniziata con la fine del Secondo conflitto mondiale e col processo costituente ha visto protagoniste forze politiche che non avevano motivi di divisione minori di quelli che emergono oggi, anzi. Anche la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo è stata scritta dai protagonisti di un mondo che si stava dividendo tra le due superpotenze. L’Europa stessa è nata dopo una guerra, eppure il progetto europeo ha messo a sedere allo stesso tavolo Paesi vincitori e Paesi sconfitti. Quella capacità di «far prevalere ciò che ci unisce su ciò che ci divide» è andata perduta inseguendo il modello maggioritario, che peraltro nel nostro Paese non si è mai veramente realizzato.
Il modello maggioritario e la polarizzazione quindi sono fenomeni connessi?
Secondo me, sì; con delle esasperazioni recenti, dovute anche al modello comunicativo dei nuovi media, che ha favorito la polarizzazione, e con l’accentuazione esasperata del ruolo dei leader. Le nuove tecnologie, come sappiamo, tendono a rinchiudere le persone nei propri gruppi di riferimento, in quelle famose echo chambers in cui le persone vanno a cercare solo chi la pensa allo stesso modo.
La guerra in Ucraina è tornata a sollecitare l’Europa ad andare oltre l’integrazione economica finanziaria. Quale percorso giuridico vede possibile? Come riformare i processi di decisione, tenendo conto di un possibile ulteriore allargamento?
Come spesso è accaduto nella storia dell’Europa, i momenti di crisi hanno coinciso con dei passi avanti in termini di coesione. Pensiamo alla fase della pandemia, con la distribuzione unitaria dei vaccini, il Pnrr e gli altri piani di finanziamento. Anche di fronte alla crisi ucraina, la risposta europea è stata abbastanza compatta. Quello che si vede è che sulla scena internazionale l’Europa ha sempre più bisogno di parlare con una voce unica, soprattutto di fronte a tutti i conflitti e alle sfide geopolitiche. Per fare questo, occorrerà presto mettere mano a riforme che prevedano il superamento della regola dell’unanimità, sia per le riforme dei trattati sia su certe scelte politiche, tenendo presente anche che entro il 2030 si profila all’orizzonte l’ingresso di 10 nuovi Paesi, Ucraina inclusa.
L’Europa nel 2004 ha già vissuto la situazione di un grande allargamento senza una riforma adeguata di snellimento delle procedure e, a mio parere, con tutti questi Paesi bisogna superare la regola dell’unanimità, altrimenti assumerà sempre maggiore rilevanza il meccanismo per cui un solo piccolo Paese può bloccare l’attività di tutta l’Ue, dotandolo di fatto di un potere di veto.
Bisogna anche introdurre degli elementi di flessibilità, in vista di un approfondimento dell’integrazione, ad esempio, sul piano delle politiche di bilancio, della politica estera e di difesa, perché non è detto che tutti i Paesi siano pronti allo stesso momento. Come è stato fatto con l’introduzione dell’euro e con Schengen, bisogna immaginare la possibilità di un’integrazione graduale e variabile. Per dirla in una sola frase: l’Unione non deve avere paura del pluralismo interno, ma imparare ad avere una sola voce verso l’esterno.
Però c’è una corrente di pensiero assolutamente priva di stima e fiducia rispetto all’Ue e al suo ruolo, come pure rispetto alle istituzioni internazionali. Diciamo, molto più che euroscettici…
Io sono un’inguaribile ottimista sull’Europa. Pur vedendone i limiti e la fatica, pur rendendomi conto che si potrebbe fare molto di più, penso anche che l’Europa sia una delle più grandi acquisizioni politico-istituzionali che ci sia stata regalata dalla generazione precedente. Eravamo partiti da una situazione di devastazione totale, di inimicizia, di ostilità radicale e di conflittualità permanente nel continente europeo: eppure, tra una crisi e l’altra, con un passo avanti e due indietro, l’Europa sta in piedi e procede. E, secondo me, sta portando un ammodernamento abbastanza tangibile della vita sociale nei nostri Paesi. I nostri ragazzi si concepiscono normalmente in una dimensione europea: l’Erasmus ha fatto miracoli… Cosa sarebbe questo continente se non ci fosse stato il processo di integrazione europea? Io sono la prima a dire che vanno fatte delle riforme, ma, secondo me, il bilancio non è negativo. Anzi, immaginiamoci la storia recente se non ci fosse stata l’Unione europea…
Lei insegna Diritto costituzionale all’Università Bocconi: chi sono i giovani che arrivano oggi all’università? Quali timori, attese, speranze Lei riscontra nei suoi studenti? Vede giovani più soli di quelli delle generazioni precedenti?
Ho davanti i giovani dell’università e anche qualche figlio della stessa età… Diciamo che il mio punto di osservazione è abbastanza privilegiato, perché alla Bocconi arrivano ragazzi molto motivati. Non necessariamente privilegiati dal punto di vista economico, ma sicuramente selezionati. E per me entrare in aula è un piacere che si rinnova ogni giorno, perché vedo ragazzi desiderosi di capire, impegnati, seri nel loro percorso di studi. Diciamo, quindi, che ho un punto di osservazione particolare.
Uscendo dalla mia aula universitaria e allargando un po’ lo sguardo, mi sembra sicuramente che questi giovani abbiano un’insicurezza e una fragilità personale più accentuate di altre generazioni, come fossero più esposti ad andare in crisi. Dubitano del loro valore. Per un nonnulla pensano «di essere sbagliati». Forse ha inciso molto anche l’impatto della pandemia, ma ora vedo che, prima di trovare la loro strada, cambiano ripetutamente e provano diversi percorsi di studi, e parlo anche di giovani molto capaci. Hanno il timore di compiere scelte sbagliate e si sentono molto giudicati dal peso delle loro scelte. Tuttavia, quello che a me piace molto è che cercano stili di vita e percorsi autentici: non si fanno suggestionare dai modelli ereditati. Ad esempio, mettono abbastanza in discussione una certa centralità del lavoro e la dedizione quasi totale all’impegno professionale propri della nostra generazione. E questa non è solo una mia impressione, ma un tratto che emerge anche da alcuni dati, come quelli di AlmaLaurea: chiedono maggiore equilibrio tra spazio professionale e spazio di vita personale, cosa che dovrebbe far sorgere alla nostra generazione qualche domanda[3]. Mettono poi un po’ in discussione il modello metropolitano, urbano, preferendo il contatto con la natura. E comunque vedo che non rifiutano, anzi cercano, un rapporto con adulti credibili. Io dico: diamo loro spazio e ascoltiamoli, perché non sono dei contestatori a priori delle generazioni precedenti. Se vedono figure di riferimento autorevoli, di cui possano fidarsi, le cercano.
C’è un esempio indiscutibile di questo atteggiamento: i giovani ammirano il presidente Mattarella. E la cosa colpisce, perché si tratta di un uomo di più di 80 anni; e non è nemmeno il tipo di persona che si atteggia a capopopolo, e neppure si mette a fare il rap coi ragazzi. Rimane nei suoi panni, ma non è solo rispettato perché è una figura istituzionale: è stimato da tutti, e anche dai giovani, che trovano in lui una persona che può essere seguita. Forse questo fatto ci dovrebbe far riflettere su quale sia il tipo di leader in cui ci riconosciamo nel tempo. Sono fiduciosa, perché mi sembra che questi giovani, pur nelle loro difficoltà, abbiano le antenne per capire dove trovare i punti di riferimento. Lo trovo interessante.
Sento molto la questione dei maestri che ti segnano ed esprimono uno stile di vita e un modo di fare delle scelte che può lasciare una traccia da seguire. Possono sbagliare e deviare, avere battute di arresto, ma penso che i ragazzi questo lo sappiano cogliere. Ed è notevole.
Piuttosto, la domanda è su noi adulti: abbiamo da offrire loro rapporti di cui possano fidarsi? Siamo in grado di sostenere i loro desideri e le loro aspirazioni, senza opprimerli con la preoccupazione di indicare loro la (nostra) «scelta giusta»?
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | ARTE, TRA PASSATO E PRESENTE
Le opere d’arte possono rappresentare ancora uno stimolo per una riflessione sulle tematiche di oggi? Un viaggio in 10 episodi tra le opere di alcuni dei più grandi artisti della storia passata e contemporanea.
Siamo consapevoli della grande diversità che esiste all’interno del mondo universitario. Ma come stanno, di salute, le Università?
Beh, la mia sta benissimo! In ogni caso, dove ci sono dei maestri le Università stanno bene. Si possono e si devono pensare tante riforme anche per le nostre Università; e partirei con il dare un maggiore valore alla didattica e con l’apertura internazionale. In ogni caso, l’Università permette un’esperienza di crescita, se si trovano figure di riferimento importanti. Ed è comunque uno spazio di confronto con altri, con persone da tutta Italia, da tutta Europa e oltre. Uno spazio di libertà, di sperimentazione ed elaborazione del sapere, che rafforza la personalità e la capacità critica della persona. Ecco, se penso a queste cose, non vedo le Università in crisi.
Cristianesimo e vita pubblica. Potrebbe dirci in che modo concreto la sua formazione cattolica si è impressa e poi espressa nel suo impegno accademico e civico?
La mia identità, il mio essere radicata nella vita della Chiesa non è mai stato un mistero, ma non ho mai nemmeno avuto la preoccupazione di sottolinearlo, né tanto meno di ostentarlo. Si sa, ed è bene così. Non ho mai avuto la preoccupazione di doverlo dimostrare. Ma ho sempre messo tutta me stessa nel mio impegno di docente, di ricercatrice, di giudice costituzionale, di ministra. Guardandomi indietro, mi accorgo a posteriori di alcuni tratti del mio impegno pubblico che io stessa riconduco a quella formazione. Per esempio, dell’universo giuridico mi ha sempre appassionato moltissimo tutto ciò che attiene all’umano, alla persona, ai diritti fondamentali. Penso al carcere, alla questione della pena e alla condizione dei detenuti; penso agli spazi di libertà della persona rispetto al potere.
E poi, dal punto di vista del metodo, riconosco che hanno lavorato profondamente in me alcuni insegnamenti che so bene quale matrice abbiano. Ad esempio, per me è stato illuminante leggere l’Enciclica Spe salvi di Benedetto XVI, in particolare i paragrafi 24-25, dove si parla proprio della speranza negli ordinamenti politici. Il Papa dice che la speranza non deriva dal fatto che sappiamo costruire ordinamenti perfetti, perché, anzi, l’ordinamento perfetto – in quel contesto si riferiva alle ideologie – elimina la libertà dell’uomo e quindi non è per niente perfetto. Per me questo passaggio è stato fondamentale, per non aver paura di impegnarmi nella costruzione anche di sistemi normativi dove grano e zizzania stanno insieme. Perché, alla fine, nelle cose umane e terrene è così: ti puoi trovare implicata ad assumere responsabilità per scelte che non sono quelle che faresti, perché non rispecchiano coerentemente tutto quello che tu credi giusto nella vita. Quella lettura è stata liberante, perché non è questo che mi è richiesto. C’è un limite posto dalla realtà e dalla libertà dell’altro che soprattutto chi si impegna nella sfera pubblica deve imparare ad accettare.
Altrettanto fondamentali per me, come dei veri compagni di strada, sono i quattro princìpi metodologici enunciati da papa Francesco nell’Evangelii gaudium: il tutto è superiore alla parte; il tempo è superiore allo spazio – quell’avviare processi di cui il Papa ha parlato tante volte –; l’unità è superiore al conflitto; e poi, soprattutto, la realtà è superiore all’idea. Questo in particolare l’ho trovato straordinario, perché una persona parte con le sue idee, anche animate dalle migliori intenzioni, ma si scontra con le risorse disponibili, con un altro che ti contesta, con la necessità di prendere decisioni con persone che si mettono di traverso. Il realismo è una caratteristica profondamente cristiana; essere innestati dentro la storia, con tutti i condizionamenti che determina, è profondamente cristiano: dopotutto, il cristianesimo è Dio che entra nella storia.
Devo dire che se c’è qualcosa che mi ha profondamente sostenuta umanamente, anche nel portare avanti riforme complicate e contestate, è questo tipo di sguardo sull’impegno dell’uomo nel mondo, che non è quello di realizzare la città di Dio, ma di realizzare una città dell’uomo il più possibile… umana.
Su questo, papa Francesco è molto chiaro: non c’è bisogno di arrivare domani alla perfezione, ma si può sempre fare un passo avanti.
È proprio così. È proprio vedersi dentro un percorso storico in cui dai il contributo possibile, ben sapendo che poi ci sarà qualcun altro che porterà avanti le cose.
Chiesa in Italia: quali difficoltà e quali segnali di speranza vede?
Domanda molto ardua per me. Le difficoltà si vedono. In sintesi: le chiese vanno svuotandosi, i preti diminuiscono progressivamente e c’è una certa disaffezione della gente verso le pratiche religiose. Però vedo che, rispetto all’epoca in cui siamo cresciuti noi, c’è molto meno pregiudizio contro la Chiesa. Nelle mie prime uscite pubbliche, identificarmi come cattolica voleva anche dire attirarmi la diffidenza o il sospetto da parte di alcuni (e qualche volta anche qualche attacco personale). Questo oggi tendenzialmente avviene molto meno, la mia identità viene rispettata.
Vedo anche una sempre più diffusa domanda sul senso del vivere e, per rubare un’espressione al card. Zuppi, questa è proprio «la specialità della casa» per la Chiesa: essere presenti dove c’è una domanda di senso[4]. Questa sete di significato che si percepisce nelle persone che fanno fatica di fronte alle prove della vita – perché davvero non si può andare avanti per inerzia –, è un terreno potenzialmente molto fertile. Ripartirei da qui: dal bisogno di un incontro che permetta di riscoprire il senso del vivere. Invece, per troppi italiani la Chiesa è ancora identificata o come un’istituzione di potere o come una maestra di morale, piuttosto che come interlocutrice della domanda di senso dell’uomo. Comunque, per dirla tutta: magari le chiese e i seminari sono vuoti, ma in giro per l’Italia ho visto tante realtà ecclesiali vive. Se avessi una responsabilità ecclesiale, partirei da lì: andrei «a caccia» di segni di vitalità.
Ci sono tante esperienze che non fanno clamore, ma che cambiano la storia: nel nostro oggi è meno diffusa la «cristianità», nel senso di una cultura cristiana condivisa, ma focolai di vita nuova ce ne sono eccome, e ripartirei da lì. Mi permetto di fare un solo esempio, tratto anche dalla drammatica attualità di questi giorni: bisognerebbe andare a vedere la Comunità Kayros, fondata da don Claudio Burgio per ragazzi con vissuti complessi, percorsi segnati dal penale. Io lì vedo un’espressione di vita nuova, radicata nella fede di quest’uomo, che sta generando una novità sociale, riconosciuta da tutti. Uno scorcio di speranza.
Papa Francesco ha nominato diverse donne a incarichi di responsabilità nella Curia Romana e nella Città del Vaticano. Inoltre, in tantissime occasioni ha sottolineato l’importanza delle donne nella vita della Chiesa. Lei come vede questa evoluzione? Quali sono le specificità del contributo delle donne, nella Chiesa come nella società, se ne vede?
Credo che papa Francesco abbia fatto molto bene, e mi viene da dire che è un peccato che finora la Chiesa si sia privata o non si sia avvalsa abbastanza dell’apporto di tante donne. Ci sono tante donne dalle doti straordinarie che sarebbe un peccato non impegnarle anche in ruoli di responsabilità.
Quando mi chiedono quale sia il contributo specifico delle donne nella vita politica, sono sempre un po’ in difficoltà. Forse il Papa ha un’idea più chiara su quale sia il tratto specifico delle donne nella vita ecclesiale. Io non riesco a elaborare questa specificità, perché vedo attorno a me donne con personalità molto diverse una dall’altra. Quello che apprezzo molto di questa rinnovata sensibilità verso la presenza delle donne è che ora emergono tanti talenti anche nell’universo femminile che prima rimanevano nascosti: ad esempio, quando si organizzano eventi, si cerca sempre di mettere tra i relatori anche un certo numero di donne. Prima non c’era questa attenzione, non perché le donne all’altezza non ci fossero, ma perché non si cercavano. Peccato non essersene accorti prima!
Una delle espressioni più tragiche della violenza della società in cui viviamo è la violenza sulle donne, fino al «femminicidio». Che interventi vede ancora necessari a livello giuridico e culturale? Che tipo di prevenzione si può fare?
Negli ultimi anni, dal punto di vista giuridico, sono stati fatti enormi passi avanti. Penso al «Codice rosso» in Italia, ma anche alla Convenzione di Istanbul a livello internazionale. Per quello che ho potuto vedere, dal punto di vista legislativo, gli strumenti adesso ci sono. Però, e lo può dire una giurista, le leggi, anche le buone leggi, servono, ma non bastano. Perché alla fine bisogna dare vita a queste leggi, che altrimenti sono come delle armature inanimate. Occorre che le leggi siano supportate da un lavoro culturale, da un rinnovamento della mentalità. Uno dei problemi con la violenza di genere, e con la violenza domestica, infatti, è che spesso le donne non denunciano.
Personalmente sono convinta che non abbiamo sempre chiaro quale sia la matrice culturale dei femminicidi, e se ce ne sia una sola. Da un lato, si attribuiscono alla matrice patriarcale le forme di abuso di potere che arrivano fino alla violenza, a rapporti asimmetrici tra uomo e donna, in cui il dominio dell’uomo sulla donna arriva fino al punto di attaccare la donna nel corpo. Ed è certamente in parte così. Ma nei casi come quello di Giulia Cecchettin, la sensazione è che ci possano essere anche altre componenti. A me sembra che lì ci sia una fragilità che si tramuta in rabbia e risentimento, e poi in violenza. Sembra che all’origine ci sia un’incapacità ad accettare la sconfitta, il rifiuto e, quindi, l’emancipazione e l’autonomia di una ragazza che sceglie il suo percorso di vita. Qui non vedo un maschio forte che domina la donna, ma al contrario vedo una violenza come espressione di un’incapacità ad accettare che, a volte, la vita non va come tu pensi e ti chiude delle porte. Quando le donne affermano una loro autonomia, non vengono accettate dal partner maschile.
Bisogna capire bene dove sia la radice di tale violenza. Bisognerebbe approfondire l’argomento. Altrimenti combattiamo i sintomi senza capire l’origine della malattia. Una delle ultime cose che ho fatto da ministra della Giustizia è stata quella di istituire un Osservatorio sulla violenza di genere. Avevo ereditato una legislazione già molto buona dai governi precedenti, ma sentivo che quello che mancava era capire dove non funziona la legge, per arrivare a offrire strumenti che permettano di prevenire i gesti estremi. Perché le donne non si fidano? Perché non vanno al Centro antiviolenza? Perché non si riesce a intercettare il rischio prima che degeneri in una situazione irreparabile?
Senza consapevolezza culturale, il lavoro sul fronte giuridico è un lavoro sempre insufficiente. Legge e cultura sono due gambe che devono muoversi in modo coordinato per compiere un passo equilibrato ed efficace. In questo senso, la missione di andare scuola per scuola a raccontare il vissuto della sua famiglia, che si è dato Gino Cecchettin, può ottenere molto. Anche tenendo conto che, in questo caso, con la sua testimonianza dignitosa e tranquilla, non vengono alimentati indignazione e risentimento. Il suo impegno è prezioso e dobbiamo essergliene grati.
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[1]. Cfr A. Moro – P. Nenni, Il carteggio ritrovato (1957-1978), Roma, Arcadia, 2024.
[2]. C. Mortati, «Gli scritti di diritto costituzionale di Piero Calamandrei», in Il Foro Italiano, vol. 91, n. 3, 1968.
[3]. Cfr AlmaLaurea, XXV Indagine Profilo dei Laureati 2022. Rapporto 2023.
[4]. Cfr N. da Silva Gonçalves – S. Sereni, «La Chiesa è più di quel che sembra. Intervista al cardinale Matteo Zuppi», in Civ. Catt. 2024 I 278-292 (286).