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Negli Stati totalitari l’uccisione dell’oppositore politico è storicamente una costante, una prassi quasi «liberatoria», che tende non solo a sradicare – anche simbolicamente – ogni forma di dissenso, ma anche a marcare una distanza, a evidenziare un cambiamento che si vuole radicale, irreversibile. Chi detiene il potere assoluto di solito non sopporta neppure la presenza fisica del proprio avversario, anche se indebolito o politicamente sconfitto. Ciò perché, nei momenti di crisi del sistema totalitario, o autoritario, l’avversario può essere considerato da chi detiene il potere una guida, un eroe, capace di aggregare intorno a sé una dissidenza più o meno estesa.
Recentemente alcuni interpreti hanno posto in evidenza le analogie tra la morte del dissidente russo Navalny – imprigionato in Siberia per lievi reati finanziari (frode) – e quella, nei primi anni del fascismo, del socialista unitario Giacomo Matteotti, rilevando però che Mussolini accettò, sebbene non immediatamente, la paternità politica e morale del delitto: «Io dichiaro – disse in Parlamento, nel discorso del 3 gennaio 1925 – qui, al cospetto di questa assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che assumo (io solo!) la responsabilità (politica!, morale!, storica!) di tutto quanto è avvenuto»[1]. Parole di vuota retorica mussoliniana, che però esprimono bene l’arroganza sia di chi ormai è convinto di tenere saldamente in mano i destini del Paese, sia di chi ha la certezza dell’impunità per un delitto così efferato. La morte di Navalny, invece, è stata presentata come un incidente di percorso, un malore improvviso; nessuna responsabilità morale o politica è stata dichiarata; tutto si è concluso nella più completa normalità, nonostante le manifestazioni di piazza nel Paese e l’indignazione che quella morte ha provocato a livello mondiale.
Vi è, inoltre, un secondo motivo per cui gli Stati autoritari di solito eliminano gli oppositori, seppure già neutralizzati: le macchine repressive poste in essere dal regime hanno una propria autonomia, «funzionano come ingranaggi che, una volta messi in moto, stritolano, portano a compimento il loro sporco lavoro»[2], anche senza che qualcuno dia materialmente l’ordine di agire, di uccidere. Ma ciò rientra nella logica stessa del potere assoluto e dell’assenza dello Stato di diritto, che nega alle minoranze e alle opposizioni ogni forma di tutela giuridica.
L’uccisione di Matteotti
Un secolo fa veniva sequestrato, e subito dopo ucciso, il segretario dei socialisti unitari italiani, Giacomo Matteotti, da parte di gregari fascisti che agivano su ordine di alti gerarchi del regime, e forse, secondo alcuni, dello stesso Mussolini[3]. Matteotti fu rapito il pomeriggio del 10 giugno 1924 sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, mentre da poco era uscito di casa per recarsi a Montecitorio. In quei giorni, infatti, il deputato socialista stava lavorando a un intervento che avrebbe fatto alla Camera il giorno successivo e che, a quanto pare, conteneva importanti rivelazioni in materia di corruzione economico-politica, in cui erano implicati alcuni gerarchi fascisti, e non soltanto loro.
In base a quanto riportato nelle carte processuali, Matteotti fu caricato a forza su un’autovettura – una Lancia, che era stata presa a noleggio dal direttore del Corriere Italiano,Filippo Filippelli – e, secondo alcuni, fu ucciso nel corso di una colluttazione con i suoi rapitori o, secondo altri, fu volutamente accoltellato a morte subito dopo essere stato caricato sulla vettura. La mente del complotto pare fosse Amerigo Dumini, che si vantava presso i suoi amici di aver commesso 11 omicidi politici. Subito dopo, il cadavere fu maldestramente seppellito nel Bosco della Quartarella, a circa 20 chilometri da Roma, dove poi fu scoperto due mesi più tardi[4].
Nel giro di pochi giorni tutti gli autori del delitto furono individuati e arrestati dalla polizia giudiziaria; alcuni di essi cercavano di fuggire all’estero. «Ma questi – commentava in una cronaca La Civiltà Cattolica – erano soltanto gli esecutori materiali del delitto; e frasi minacciose pronunciate dal Dumini, e più ancora la notoria sua dimestichezza con alti personaggi del Fascismo, lasciarono scorgere ormai chiaramente che la diabolica trama era stata ordita dalla “banda del Viminale”. A questo punto cominciano i grandi colpi di scena e un’ombra di sospetto aduggia il Ministero stesso degli Interni»[5].
Dopo ci furono le dimissioni di diversi funzionari del ministero, sospettati di collusione con gli autori o istigatori del delitto. Nella tornata parlamentare del 30 maggio, durante il procedimento di convalida dei nuovi eletti al Parlamento (il 6 aprile c’erano state le elezioni politiche, nelle quali il «listone» presentato dai fascisti aveva ottenuto la maggioranza dei seggi parlamentari: 374 sui 535 disponibili), l’on. Matteotti aveva denunciato a chiare lettere i numerosi brogli elettorali e violenze commesse dai fascisti in sede di votazione, e sulla base di questo aveva chiesto, a nome del suo partito, l’annullamento delle stesse. «Noi domandiamo […] alla Giunta – disse Matteotti – che essa investighi sui mezzi usati [dai fascisti nel periodo elettorale] in quasi tutta l’Italia. È un dovere e un diritto, senza il quale non esiste sovranità popolare. Noi sentiamo tutto il male che all’Italia apporta il sistema della violenza; abbiamo lungamente scontato anche noi pur minori ed occasionali eccessi dei nostri. Ma appunto per ciò, noi domandiamo alla maggioranza che essa ritorni all’osservanza del diritto. Voi che oggi avete in mano il diritto e la forza, voi che vantate la vostra potenza, dovreste meglio di tutti gli altri essere in grado di fare osservare la legge da parte di tutti»[6].
Le parole del deputato socialista, come c’era da aspettarsi, irritarono moltissimo i fascisti, e soprattutto Mussolini, il quale comprendeva bene che esse avrebbero avuto una grande risonanza nel Paese e avrebbero scosso profondamente gran parte dell’elettorato moderato, non ancora interamente conquistato al fascismo. Parole di minaccia e di vendetta furono poi lanciate da alcuni gregari fascisti nei confronti del leader socialista. Mussolini stesso, risentito e insofferente per quanto era avvenuto alla Camera, si sfogò con Carlo Rossi, capo dell’ufficio stampa della Presidenza del Consiglio, dicendo: «Cosa fa questa Ceka? Cosa fa Dumini? Quell’uomo dopo quel discorso non dovrebbe più circolare…». E di fatto così avvenne.
La Ceka era stata «informalmente» costituita subito dopo le elezioni politiche di aprile, su richiesta di Mussolini, con funzioni sia informative sia di sorveglianza. La sua direzione fu affidata dal Duce al segretario amministrativo del partito, Giovanni Marinelli, che a sua volta aveva demandato a Dumini il compito di coordinarne le attività. Rossi, che fu imputato nel delitto e divenne successivamente nemico di Mussolini, scrisse che la Ceka «restò una cosa di esclusiva competenza di Marinelli, il quale era un temperamento chiuso, un po’ egocentrico e geloso, anzi pignolo. Ci teneva ad occuparsi solo lui di questa attività segreta»[7]. In ogni caso il delitto Matteotti fu deciso e organizzato nell’ambito di questo pseudo-organismo di informazione politica e di polizia di partito e dagli uomini che vi facevano capo.
Mussolini e il delitto Matteotti
Mussolini, pressato dalle richieste dell’opposizione, che voleva conoscere la verità sulla sorte del leader socialista, già il 12 giugno si presentò alla Camera affermando che le circostanze della scomparsa di Matteotti facevano seriamente pensare all’ipotesi di un delitto, che, in quanto tale, «non potrebbe non suscitare lo sdegno del Governo e del Parlamento». Disse, inoltre, che la polizia stava facendo tutto il possibile per far luce sulla scomparsa del deputato socialista e che i colpevoli dell’eventuale delitto sarebbero stati certamente arrestati e assicurati alla giustizia.
Nel pomeriggio del 13 giugno Mussolini ritornò a Montecitorio per chiarire la sua posizione e quella del governo in merito al «caso Matteotti». «I colpevoli – egli disse – sono stati identificati: uno a Roma, un altro a Milano, e si spera entro la giornata di arrestare tutti gli altri». E aggiunse: «Se c’è qualcuno in quest’aula che abbia diritto più di tutti di essere addolorato e, aggiungerei, esasperato, sono io. Solo un nemico, che da lunghe notti avesse pensato a qualche cosa di diabolico, poteva effettuare questo delitto che oggi ci percuote di orrore e ci strappa grida di indignazione». E concludeva: «Giustizia sarà fatta, deve essere fatta, finché, come qualcuno di voi ha detto, il delitto è un delitto di antifascismo e di antinazione. Prima di essere orribile, è di una umiliante bestialità»[8]. Dopo questo discorso, pronunciato mentre erano assenti le opposizioni, la Camera approvò l’esercizio provvisorio del bilancio fino al 31 dicembre, e il suo presidente ne aggiornò i lavori sine die.
Il 27 giugno, in occasione della commemorazione di Matteotti alla Camera, nella quale Filippo Turati pronunciò il memorabile discorso «sull’Aventino delle coscienze»[9], la maggior parte dei partiti di opposizione – in particolare socialisti e popolari – votarono un documento nel quale si impegnavano ad astenersi dai lavori parlamentari fino a quando il governo non avesse fatto piena luce sul delitto Matteotti e ripristinato interamente nel Paese il dominio della legge. Iniziava così formalmente la protesta aventiniana, che, nonostante il suo alto contenuto morale, avrebbe finito per rafforzare il fascismo – non più ostacolato dalle denunce dell’opposizione costituzionale –, anziché indebolirlo[10].
Quale fu la responsabilità di Mussolini nella vicenda del delitto Matteotti? Fu lui il mandante del delitto, oppure no? Ebbe una responsabilità diretta nella realizzazione dello stesso, oppure una responsabilità soltanto indiretta, vale a dire soltanto politica o morale? Il dibattito storico su questa delicata materia è ancora aperto: su essa pesano molto, al di là della lettura degli atti processuali e della documentazione che è stata pubblicata, i diversi punti di vista degli interpreti, non sempre scevri, in realtà, di partigianeria ideologica.
Secondo alcuni storici, Mussolini sarebbe stato il mandante materiale del delitto. Questa posizione è stata sostenuta in passato, spesso sulla base di motivazioni molto generiche, da diversi intellettuali di sinistra, ed è riapparsa in più recenti pubblicazioni, trovando maggiore attenzione da parte degli storici[11]. Secondo altri, invece, a Mussolini andrebbe imputata soltanto la responsabilità morale e politica del delitto. Essi parlano dello zelo eccessivo di alcuni uomini vicini al Duce, come Marinelli e compagni, che, prendendo spunto da alcune parole – quelle riguardanti la Ceka – pronunciate da Mussolini in un momento d’ira, si decisero ad agire, nella presunzione che con quelle parole egli intendesse eliminare Matteotti. Questa posizione è stata sostenuta in sede processuale da Rossi – nemico giurato del Duce – ed è sostanzialmente condivisa anche dal maggiore biografo di Mussolini, Renzo De Felice[12].
La storiografia moderna sul delitto Matteotti tende a individuare, tra i moventi del delitto, non soltanto quello politico, che evidentemente ci fu, ma anche quello affaristico, che avrebbe coinvolto ambienti governativi molto vicini al Duce, o addirittura lo stesso re d’Italia. In particolare si fa riferimento alla vicenda Sinclair Oil, la società petrolifera statunitense che nel marzo del 1924, in gran segretezza, aveva ricevuto da dirigenti del partito fascista, a prezzo di favore, il monopolio della ricerca petrolifera nel sottosuolo italiano, in cambio di versamenti di denaro nelle casse del partito fascista o a beneficio di influenti gerarchi del regime. La cosiddetta «pista affaristica», come concausa del delitto Matteotti, era molto accredita tra gli studiosi della materia[13]. Questa tesi è stata suggerita anche da De Felice, secondo il quale, se è vero che il delitto fu ideato da alti gerarchi del regime per motivi politici, esso servì pure ad alcuni «papaveri» per coprire loschi interessi affaristici: «La teoria che nel delitto vi sia stata anche una componente affaristica – egli scrive –, se a tutt’oggi non è documentabile, non ci pare però possa essere confinata nel regno delle fantasie; troppi accenni riportano ad essa. In un certo senso essa rimane il punto più oscuro e controverso dell’intera tragica vicenda»[14]. Questa pista è stata confermata anche dal ritrovamento del testamento di Dumini, nel quale egli confessava di aver ricevuto l’ordine di uccidere Matteotti – non dice però da chi – per il timore che questi denunciasse in Parlamento i loschi affari della «convenzione Sinclair», di cui beneficiavano diversi gerarchi fascisti e uomini molto vicini a Mussolini.
Non senza interesse dal punto di vista storico è l’interpretazione che gli ambienti fascisti diedero a quel tempo del delitto Matteotti. Secondo i cosiddetti «fascisti intransigenti» il delitto sarebbe stato organizzato dai nemici del fascismo, in particolare dalla massoneria, per screditare il regime sia in Italia sia all’estero. Questa tesi fu sostenuta in quei mesi dal giornale di Farinacci Cremona nuova. Sempre in ambito fascista, si affermò anche che Matteotti fu ucciso perché lui e il suo partito risultavano essere i mandanti degli omicidi di alcuni fascisti all’estero. Tesi fantasiose, naturalmente, messe in circolazione da coloro che risultavano maggiormente implicati nel delitto, come per esempio Dumini. Secondo altri, il delitto sarebbe nato in ambiente fascista con lo scopo preciso di impedire a tutti i costi una «sterzata a sinistra» della politica mussoliniana. Si temeva infatti che il Duce potesse stringere un accordo politico con i «confederati» in materia di lavoro, possibilmente con l’avallo dei socialisti più moderati.
Dopo il discorso del 7 giugno di Mussolini alla Camera, nel quale egli aveva invitato le opposizioni a collaborare in qualche modo con il governo e ad abbandonare il loro atteggiamento assenteistico, più di uno nel partito temeva che questo nuovo indirizzo della politica mussoliniana potesse nuocere al fascismo e indebolirne al suo interno l’ala più radicale.
Le vicende processuali
Sul caso Matteotti un ruolo particolare ha giocato la complessa vicenda processuale, trascinatasi, con pronunciamenti diversi e spesso discordanti, per diversi decenni. Da essa risulta il peso che ebbero alcuni alti gerarchi fascisti, e in particolare lo stesso Mussolini, nel depistare le ricerche sul delitto e imporre una verità di Stato, comoda al regime. L’istruttoria sul delitto Matteotti fu affidata ai magistrati Del Giudice e Tancredi, i quali, nel corso dei primi mesi di indagine, operarono liberamente, senza eccessive pressioni da parte del governo. Essi impostarono l’istruttoria sulla base del movente politico, facendo quindi risalire al discorso di Matteotti del 30 maggio il vero motivo del delitto contro il deputato, tanto più che in quel frangente Matteotti era stato minacciato di morte, ed egli stesso, ad alcuni colleghi che si complimentavano con lui per il discorso, aveva risposto di cominciare a preparare il suo necrologio.
L’accertamento delle responsabilità personali nel delitto venne favorito dalle dichiarazioni di Filippelli, il quale, una volta arrestato, iniziò a collaborare con la giustizia: raccontò le confidenze fattegli la sera stessa del delitto da Dumini sull’esistenza di una Ceka fascista, e sulla base di queste furono arrestati Rossi e Marinelli, indiziati di essere i mandanti del delitto. Tuttavia, dopo questi primi arresti eccellenti, l’istruttoria si arenò. Secondo lo storico Mauro Canali, «i magistrati erano ormai giunti a indagare sui massimi vertici del fascismo, coperti – per lo più – da immunità parlamentare. Sebbene si fossero assai presto convinti della compromissione di Mussolini nel delitto, i magistrati avevano evitato di porlo sotto accusa, in quanto una simile iniziativa avrebbe inevitabilmente dato luogo al trasferimento dell’istruttoria nelle mani della magistratura straordinaria»[15], ossia di una commissione di inchiesta costituita da senatori.
Di fatto ciò avvenne quando il direttore de Il Popolo, Giuseppe Donati, nel dicembre 1924 denunciò alla magistratura il generale Emilio De Bono, capo della polizia, come complice del delitto. La denuncia di Donati – che scambiava, erroneamente, la lentezza con la quale la magistratura ordinaria svolgeva le indagini con la debolezza nei confronti del fascismo – fu un grosso errore di prospettiva politica, perché toglieva il processo al suo giudice naturale e lo affidava a un organo giudiziale straordinario, certamente più ligio alle indicazioni dei capi fascisti. Questo procedimento, infatti, si concluse il 25 giugno 1925 con l’assoluzione di De Bono per insufficienza di prove.
Nel frattempo il clima politico nazionale era profondamente cambiato: Mussolini, a partire dall’inizio del 1925, aveva ripreso saldamente in mano le redini del potere e indirizzato il «regime» verso una chiara e risoluta svolta autoritaria. Così i magistrati incaricati del delitto Matteotti furono «promossi» a cariche più elevate nell’ordine della magistratura, e sostituiti da giudici compiacenti, più vicini al regime[16].
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
Da parecchio tempo, le cronache italiane sono colme di delitti perpetrati contro le donne. Il fenomeno riguarda tutte le età e condizioni sociali, tanto da sembrare endemico nella nostra società. A questo tema è dedicato un episodio monografico di Ipertesti Focus, il podcast de «La Civiltà Cattolica».
Il processo si celebrò a Chieti nel marzo 1926. Secondo la maggior parte degli storici, esso fu un’autentica farsa: gli imputati furono condannati a 5 anni e 11 mesi di reclusione, in parte già scontati in attesa di giudizio. Un provvedimento di amnistia sui reati politici del luglio 1925 – che prevedeva che ai condannati di omicidio si potesse condonare la pena fino al massimo di quattro anni – contribuì poi a ridurre ulteriormente la pena. Insomma, alla fine coloro che erano stati condannati per il delitto Matteotti rimasero in carcere ancora soltanto per qualche mese e poi furono liberati. In effetti, per l’efferato delitto del deputato socialista non pagò nessuno, almeno per il momento. Esso in realtà, come sostenne Mussolini il 3 gennaio 1925, era stato soltanto un delitto politico, un avvertimento cruento dato alle opposizioni che il regime d’ora in poi non avrebbe più tollerato nessuna forma di opposizione, né costituzionale né aventiniana.
Il processo Matteotti, iniziato nel lontano 1924, una volta caduto il fascismo e finita la guerra, riservò ancora dei colpi di scena: nell’aprile 1947 il «sicario» Dumini fu condannato alla pena dell’ergastolo, poi commutata in 30 anni di detenzione; e nel 1956, dopo soli nove anni di carcere, gli fu concessa la grazia: questa volta, però, da un governo antifascista e democratico.
La Santa Sede e il delitto Matteotti
La posizione che la Santa Sede assunse sul delitto Matteotti fu sin dall’inizio improntata a prudenza e a senso di responsabilità. Essa fece il possibile per non lasciarsi coinvolgere, soprattutto nel primo periodo, nel dibattito in corso tra governo e partiti di opposizione, che stava avvelenando il mondo politico e istituzionale, creando un clima di instabilità e di incertezza nel Paese. Si preferì, infatti, non intervenire direttamente su una materia così delicata e così violentemente dibattuta tra le forze politiche, aspettando che la situazione si chiarisse sia sul piano giuridico-processuale sia su quello politico. In Vaticano, cioè, si preferì non interferire su una materia – quella giudiziale – che esulava dalla sua competenza, anche se, allo stesso tempo, si guardava con una certa preoccupazione agli sviluppi politici da essa determinati. Ciò non significava però, come è stato più volte detto, che la Santa Sede per motivi di interesse politico abbia taciuto o minimizzato la gravità del delitto Matteotti. Anzi, L’Osservatore Romano ne fece menzione già dal giorno 13 giugno 1924, quando le notizie che circolavano sui maggiori quotidiani nazionali davano adito a diverse interpretazioni sull’accaduto. Il giornale vaticano aveva scelto per il momento di non prendere posizione, ma di riportare i fatti come venivano divulgati dalle agenzie autorizzate (in particolare l’Agenzia Stefani).
Il primo commento del giornale vaticanosulla vicenda Matteotti è del 15 giugno[17]. Da esso risulta chiaramente che l’ipotesi più accreditata nei sacri palazzi era del delitto politico, legato però a interessi economici o affaristici più che a quelli di partito. Si pensava che Mussolini non avesse una responsabilità diretta nell’odioso delitto, ma soltanto una responsabilità di natura politica e morale, anche se in un modo diverso da come tale forma di responsabilità gli veniva imputata dai partiti di opposizione, socialisti e popolari. Secondo L’Osservatore Romano,era stato il clima di violenza che il partito per anni aveva favorito, e poi tollerato, a rendere possibile un fatto così esecrabile.
Il giornale vaticano passava poi a stigmatizzare il linguaggio violento e aggressivo utilizzato dai fascisti non solo nei discorsi di propaganda politica, ma persino a Montecitorio: «Nessuna meraviglia che alla violenta fraseologia, per alcuni soltanto politica, corrispondesse in altri o scalmanati o rozzi, l’arroventarsi dell’odio e della prepotenza, l’esaltarsi di una presunzione: esser essi gli impazienti, i designati, gli esecutori delle salutari vendette, a servizio della nazione e del partito, aggiungendo così all’innata voluttà di agire, la convinzione di un’obiettiva necessità e, soggettivamente, di chissà quale eroismo»[18].
Questa denuncia porta con sé anche un’interpretazione del delitto, conosciuta dagli storici come «ipotesi Becket»: fu l’istigazione verbale a dare forza e determinazione agli esecutori materiali del delitto, i quali agirono pensando di interpretare correttamente la volontà del presunto mandante e di averne assicurata l’impunità[19]. Come ricordato, questa interpretazione, accolta da molti storici, fu sostenuta in tribunale fino alla fine dall’imputato Cesare Rossi, anche quando non aveva più nulla da temere da Mussolini (come nel processo celebrato nel 1947).
Più decisa e passionale fu la denuncia che del delitto Matteotti fece la stampa cattolica legata al mondo politico organizzato, in particolare Il Popolo e Il Domani d’Italia. Il 13 giugno, Il Popolo,quotidiano del Partito popolare italiano, in un articolo firmato dal direttore Giuseppe Donati, avanzava esplicitamente per la prima volta la tesi del delitto politico: «Ormai è chiaro – scriveva – che l’on. Matteotti è stato soppresso per ragioni che dipendono dall’esercizio del suo mandato politico». E questo delitto ne richiamava alla memoria altri compiuti contro parlamentari, meno gravi materialmente, ma non meno significativi e rimasti fino allora impuniti: «Due sole parole abbiamo da rivolgere ai custodi della legge: luce e giustizia, luce e giustizia su tutte le responsabilità. Non domandiamo questo – si badi – per dar soddisfazione ad una parte contro l’altra: lo domandiamo semplicemente per l’onore dell’Italia»[20].
Questo intervento dava inizio alla campagna politica delle opposizioni costituzionali per la cosiddetta «questione morale», che le portò ben presto – in segno di protesta – all’astensione dai lavori parlamentari, cioè all’Aventino (27 giugno). La battaglia di Donati per chiedere «luce e giustizia» continuò per lunghi mesi sulle colonne del giornale popolare, che divenne così una delle testate più invise al regime. Lo zelo mostrato dal giornale dei cattolici popolari nella sua battaglia contro il fascismo fu però qualche volta eccessivo, e finì per nuocere alla causa che intendeva difendere.
Scambiando per debolezza verso il fascismo l’atteggiamento prudente assunto dai due magistrati ai quali era stata affidata la causa, Donati incautamente, nel dicembre del 1924, decise di presentare denuncia contro il generale De Bono, che al tempo del delitto era capo della polizia, accusandolo, anche con la presentazione di prove indiziarie, di complicità nell’omicidio. Ora, poiché il generale era deputato, gli atti istruttori passarono dalle mani dei giudici ordinari alla commissione senatoriale d’inchiesta, la quale nel giugno 1925 terminò i suoi lavori assolvendolo per insufficienza di prove.
La Santa Sede e la svolta aventiniana
Particolare apprensione destavano nella gerarchia ecclesiastica le conseguenze del delitto Matteotti sul piano politico. Preoccupava in particolare il fatto che i popolari avessero optato, con alcuni dei partiti dell’opposizione, per l’astensione dai lavori parlamentari e, insieme con loro, fossero intenzionati a continuare la loro protesta morale e politica fino a quando non fosse stato «interamente restaurato l’ordine politico e giuridico infranto» e riaffermata l’autorità della legge contro ogni forma di illegalità.
La Santa Sede temeva che questo scontro frontale tra governo e opposizioni alla fine avrebbe portato alla rivoluzione sociale e al dissolvimento dello Stato, da cui sarebbero uscite vittoriose le forze rivoluzionarie dell’estrema sinistra: bisognava quindi evitare a tutti i costi tale «salto nel buio», e le forze cattoliche, riunite nel Partito popolare, avrebbero dovuto attivarsi in questa direzione, sciogliendosi dal «patto morale» che le teneva legate alla sinistra aventiniana.
Il punto di vista della Santa Sede sulla «crisi Matteotti» fu espresso con sufficiente chiarezza in due articoli pubblicati in quei giorni su L’Osservatore Romano e su La Civiltà Cattolica, dopo che i contorni del delitto Matteotti si andavano sempre di più delineando dal punto di vista giudiziale e le forze aventiniane si orientavano con maggiore decisione verso l’istituzionalizzazione della loro protesta morale.
L’articolo de L’Osservatore Romano uscì il 25 giugno 1924, lo stesso giorno in cui Mussolini si presentò al Senato per esporre la posizione del governo in merito al delitto Matteotti e alla crisi politica da esso determinata. Questa coincidenza non fu del tutto casuale: la Santa Sede, attraverso l’articolo pubblicato in un suo organo ufficioso, intendeva lanciare ai cattolici un segnale, con il quale esprimeva al governo la sua fiducia, nella speranza che esso si impegnasse con maggiore determinazione a «normalizzare» il Paese, estirpando alla radice ogni forma di illegalità fino allora tollerata. L’articolo ribadiva la dottrina cattolica sull’obbedienza che i cittadini sono chiamati a prestare all’autorità costituita e metteva in guardia i cattolici dal cooperare ad azioni che potevano portare a stravolgimenti politici e costituzionali tali da nuocere alla nazione e alla Chiesa.
La Civiltà Cattolica intervenne nel dibattito in corso con un articolo, scritto da p. Enrico Rosa, nel quale si condannava la cosiddetta «delinquenza politica», che eleva la violenza a strumento di potere, e l’inganno e l’intrigo affaristico a modello nella gestione della cosa pubblica. Responsabili di tale delinquenza erano sia i socialisti, che per primi avevano utilizzato la violenza come strumento di lotta politica, sia i fascisti, che da essi e per opporvisi avevano imparato a usarla e praticarla ordinariamente nell’azione politica e, purtroppo, anche in quella di governo. Il fascismo – continuava la rivista – «per una parte tiene del liberalismo, per l’altra del socialismo; ché dai due campi opposti ha esso derivato principi teorici non solo, ma metodi pratici e sopra tutto ha assoldato uomini, e il nerbo anzi dei suoi uomini; giacché i dirigenti sono venuti quasi tutti dalle file del socialismo»[21].
L’articolo riprendeva poi in modo più esplicito e diffuso la dottrina cattolica, già enunciata tempo prima da L’Osservatore Romano, sul dovere dei credenti di rispettare l’autorità pubblica costituita, poiché, scriveva p. Rosa, la ragione del pubblico bene richiede che quando un governo è di fatto in un Paese l’unico soggetto dell’autorità pubblica (a prescindere dalla legittimità della sua origine), gli si deve «docile obbedienza» nelle cose lecite. E questo non tanto per assecondarne il potere, ma per evitare il male maggiore che può venire dal suo rovesciamento, come sarebbe, ad esempio, l’avvento di un governo anche peggiore di quello che si vuole eliminare, oppure il trionfo del disordine sociale e dell’anarchia. La questione, continuava la rivista, si fa ancora più delicata quando riguarda «le cose della politica», in particolare quando si tratta di costituire un nuovo governo. In tal caso, la responsabilità dei cattolici impegnati in politica si fa gravissima se, «conferendo alla mutazione, o rivoluzione di Governo, finisse meramente col sostituire al cattivo o pericoloso il peggiore o addirittura rovinoso. Tale sarebbe ad esempio un governo socialista, perché ateo, immorale e violento, né ciò solo per impeto di passione o di moto popolare […], ma in forza del sistema stesso dottrinale e dello spirito essenziale del partito»[22].
Così l’articolo lanciava un monito grave e chiaro ai cattolici «popolari» perché non utilizzassero l’accordo aventiniano, stretto tra le forze dell’opposizione al fascismo, per tentare soluzioni politiche «azzardate», come quelle tendenti a scalzare il governo in carica. In questo modo sia la Santa Sede sia buona parte dei cattolici contribuirono a puntellare il governo di Mussolini in un momento di crisi istituzionale. Successivamente il Duce si sarebbe ricordato di questa benevolenza delle autorità vaticane nei confronti del regime, prima della svolta autoritaria del 1925.
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[1]. R. De Felice, Mussolini il fascista. 1. La conquista del potere (1921-1925), Torino, Einaudi, 1966, 721.
[2]. A. Polito, «Gli “avvocati” italiani dello zar», in Corriere della Sera, 21 febbraio 2024.
[3]. Recentemente sono stati pubblicati diversi libri sul delitto Matteotti, generalmente di buon livello. Cfr M. Breda – S. Caretti, Il nemico di Mussolini,Milano, Solferino, 2024; F. Fornaro, Giacomo Matteotti. L’Italia migliore, Torino, Bollati Boringhieri, 2024; M. Franzinelli, Matteotti e Mussolini. Vite parallele. Dal socialismo al delitto politico, Milano, Mondadori, 2024; C. Vecchio, Io vi accuso. Giacomo Matteotti e noi,Milano, Utet, 2024.
[4]. Cfr G. Sabbatucci, 1924. Il delitto Matteotti,Roma – Bari, Laterza, 2012, 12; M. Canali, Il delitto Matteotti, Bologna, il Mulino, 2015, 10.
[5]. «Cronaca Contemporanea», in Civ. Catt. 1924 II 81.
[6]. Ivi, 82.
[7]. C. Rossi, Il delitto Matteotti nei procedimenti giudiziari e nelle polemiche giornalistiche, Milano, Ceschina, 1965, 221.
[8] . R. De Felice, Mussolini il fascista…, cit., 628.
[9] . «Noi parliamo da quest’aula parlamentare – disse Turati –, mentre non c’è più un Parlamento. I soli eletti stanno sull’Aventino delle loro coscienze, donde nessun adescamento li rimuove sinché il sole della libertà non albeggi, l’imperio della legge non sia restituito e cessi la rappresentanza del popolo di essere beffa atroce a cui l’hanno ridotta» (ivi, 629).
[10]. Cfr G. Sale, Fascismo e Vaticano prima della Conciliazione, Milano, Jaca Book, 2007, 155.
[11]. Cfr G. Mayda, Il pugnale di Mussolini. Storia di Amerigo Dùmini, sicario di Matteotti,Bologna, il Mulino, 2004; C. Fracassi, Matteotti e Mussolini,Milano, Mursia, 2004; G. Salvemini, Le origini del fascismo in Italia. Lezioni di Harvard,Milano, Feltrinelli, 2015, 225.
[12]. Cfr C. Rossi, Il delitto Matteotti…,cit., 223; C. Silvestri, Matteotti, Mussolini e il dramma italiano, Roma, Ruffolo, 1947, 33.
[13]. Cfr M. Canali, Il delitto Matteotti, cit. Anche La Civiltà Cattolica in quel periodo aveva sostenuto la cosiddetta «pista affaristica» come motivo fondamentale del delitto: cfr «Cronaca contemporanea», in Civ. Catt. 1924 III 82.
[14]. R. De Felice, Mussolini il fascista…, cit., 630.
[15]. M. Canali, Il delitto Matteotti, cit., 156.
[16]. La sentenza istruttoria, intanto, proscioglieva Marinelli e Rossi dalla precedente accusa di essere i mandanti del delitto, mentre rimandava a giudizio Dumini, Volpi e Poveromo.
[17]. Cfr «Verso la luce sul misfatto», in L’Osservatore Romano, 15 giugno 1924.
[18]. «Moniti salutari», in L’Osservatore Romano,16-17 giugno 1924.
[19]. Cfr G. Grasso, I cattolici e l’Aventino,Roma, Studium, 1994, 29-35.
[20]. G. Donati, «Per l’onore d’Italia», in Il Popolo, 13 giugno 1924.
[21]. E. Rosa, «La delinquenza nella vita pubblica e gli opportuni moniti della Chiesa», in Civ. Catt. 1924 III 202.
[22]. Ivi, 205.