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L’architetto svizzero Mario Botta, nato a Mendrisio nel 1943 e laureato a Venezia, si è fatto conoscere a livello internazionale per uno stile forte, geometrico, sobrio, compatto nell’edificazione di case, scuole, banche, edifici amministrativi, biblioteche e musei. In questo volume racconta la sua costante ricerca volta all’ideazione di uno spazio riservato al sacro. Il testo, che raccoglie brevi articoli scritti per il mensile Luoghi dell’infinito del quotidiano Avvenire, è corredato da più di 70 foto a colori di chiese e cappelle (progettate da architetti prestigiosi lungo il secolo che va dal 1920 al 2020).
Botta commenta queste opere per la loro paradigmatica capacità di interpretare l’epoca storica, il contesto culturale, l’ambiente urbanistico ospitante, l’aspettativa delle comunità ecclesiali, la destinazione d’uso. Si tratta ogni volta di lasciare emergere da questi diversi fattori le linee portanti di una «casa liberata» da Dio per Dio: una casa che ospiti il rito e nel contempo rinnovi le modalità dell’abitare circostante, dischiudendo prospettive inedite per le generazioni presenti e future e onorando la bellezza naturale.
Alcune cifre stilistiche ricorrono in modo eloquente tra gli artisti scelti: il rispetto per l’intrinseca normatività dei materiali utilizzati; il disegno di forme unitarie, risolute e spregiudicate; la connessione dell’Eucaristia con la vita della comunità credente; il privilegio di materiali poveri e immuni dal degrado consumistico e dal delirio d’onnipotenza costruttivo. L’uso del mattone, della pietra o di materiali duri tagliati in volumi geometrici o solcati da crepe vertiginose consente alla luce zenitale di rinviare alla trascendenza. Inoltre, il volume invita all’approfondimento filosofico dei fondamenti umanistici della progettazione, e l’Accademia d’architettura a Mendrisio (di cui Botta è stato direttore) ne è luogo di sperimentazione e didattica.
Purtroppo, il panorama attuale del «costruire chiese» non offre sempre autorevoli esempi di progettazione interdisciplinare, come quella che fu realizzata tra l’architetto Rudolf Schwarz e il filosofo Romano Guardini: la «Cappella dei Cavalieri», a Rothenfels, nel 1927. Assistiamo a interventi privi di «cura per il costruito», a operazioni improvvisate di marca contenitiva e indifferenti al degrado del tessuto urbano circostante. Le stesse operazioni di restauro rimuovono talora le connessioni con la tradizione, si affidano a tecnologie sofisticate (una sorta di «effetti speciali»), slegate dai riti vitali della chiesa.
Contro le acrobazie costruttive, la semplicità pragmatica di Botta esplora le idee di recinto, soglia, muro, gravità, e si focalizza sulla «fenomenologia dell’ingresso». Chi entra in una cappella dovrebbe sperimentare il contatto luminoso con cui l’infinito lo chiama, rimbalzando da materiali finiti, incarnati e ancorati al suolo.
La lezione di Le Corbusier, Scarpa, Kahn, Aalto irradia la gioia dell’ascensione. Due esempi. Botta, nel 2013, depone la «Cappella Granato» a Zillertal, in Austria, a 2.087 metri di altitudine, come un’astronave racchiusa, un rombododecaedro in equilibrio sul fianco della montagna, una struttura con vocazione scultorea (analoga alla «Cappella Blu» realizzata da Wilhelm Huber a Emersacker, nel 2021). L’acciaio e il calcestruzzo difendono un cuore di caldo legno di larice. Monoteismo puro. Come puro è il centro pastorale di Seriate, del 2004, in cui l’artista aggancia al suolo un rampone multiplo a pianta quadrata, la cui sommità è scavata in modo da assumere la forma di croce. Lo spazio aggregativo rettangolare e il portico si connettono alla chiesa in calcestruzzo e pietra rossa veronese trattata a spacco, con pannelli interni di legno e doppia abside.