|
Il trauma psicologico è un tema che, fino a tempi recenti, ha ricevuto scarsa attenzione in sede di ricerca. Infatti, non è semplice definirlo con precisione o verificarlo, come nel caso dei traumi fisici. Gli eventi eclatanti degli ultimi anni (come il dramma dei reduci o gli attentati terroristici) hanno suscitato un crescente interesse nei confronti di questo tema, articolandosi in numerose sottocategorie, e compensando ampiamente le carenze precedenti.
Che cos’è un trauma?
L’etimologia della parola – dal greco τραῦμα, «ferita» – indica bene il significato del termine: il trauma è una ferita che segna, talvolta in maniera indelebile, l’essere che la subisce. La ferita può assumere due significati: uno legato all’evento in sé e l’altro alle conseguenze che ne derivano. Le due dimensioni della ferita, «trauma oggettivo» e «trauma psicologico», non sono alternative, ma si intrecciano: l’una può includere l’altra o esserne la conseguenza. È probabile che chi abbia subìto trascuratezza emotiva e psicologica durante l’infanzia sia più predisposto a cadere vittima di relazioni abusive in età adulta. Il trauma psicologico potrebbe essere definito come uno stato caratterizzato da esperienze post-traumatiche, scatenate da relazioni o eventi stressanti di diversa natura, che l’individuo non riesce a gestire e che hanno un impatto significativo sulla sua vita e sul suo benessere mentale[1]. Gli effetti di questo stato di sofferenza possono assumere forme intrusive e persistenti, e durare per un lasso di tempo maggiore rispetto al ristabilimento fisico.
Le esperienze riferite in proposito sono infatti accomunate da un dato temporale, da un momento discriminante tra un prima e un dopo, che determina un cambiamento significativo nella persona, limitandone l’autonomia e la capacità di cogliere gli aspetti belli e gratificanti dell’esistenza. Di fronte agli eventi sconvolgenti, il corpo e la mente vengono investiti da una forte reazione, che genera un turbine di emozioni e sensazioni fino al punto di superare le capacità di sopportazione, di tolleranza della persona. La durata dell’evento, la sua ripetizione in assenza di supporto emotivo, può avere un impatto tale da provocare forti stati emotivi e fisiologici: questi a loro volta generano reti neurali disfunzionali che alterano il modo di pensare, sentire e agire. Il vissuto traumatico così incapsulato è suscettibile di essere attivato anche in maniera intensa da vari stimoli, facendo sentire la persona sotto costante pericolo.
Pierre Janet (1859-1947) è stato un pioniere in questo campo. Egli considera il trauma psicologico un’incapacità della mente a trovare un significato, a fornire una sintesi all’evento accaduto, a integrarlo, lasciando nel soggetto una lacerazione e dando origine al «disturbo di personalità multipla», una frattura all’interno dell’io, che oggi è chiamata «disturbo dissociativo di personalità». L’incapacità di rievocare l’evento traumatico a livello cognitivo fa sì che esso venga riattivato attraverso stimoli che ne ricordano l’esperienza, anche in forma intrusiva (come, ad esempio, incubi, flashback, presenza di odori, suoni, fogge particolari di abiti), senza la consapevolezza che tutto ciò rimandi a un evento del passato[2].
Aspetti soggettivi del trauma
Perché, di fronte al medesimo evento catastrofico, alcuni rimangono traumatizzati e altri no? Sembra che il suo differente impatto dipenda da fattori molteplici: la gravità del rischio e i danni fisici che comporta; la sua intensità; se ravvicinato e subitaneo, lasciando impreparati ad affrontarlo. In questi casi l’evento traumatico può essere devastante e i suoi effetti più dannosi e duraturi.
È inoltre importante precisare se la persona sia stata esposta ripetutamente alla situazione minacciosa, e qual era l’età del soggetto all’epoca: quanto più numerose sono le situazioni e bassa l’età, tanto maggiore è la probabilità di rendere la persona vulnerabile a sviluppare patologie, intaccando il suo funzionamento psichico. Anche il tipo di professione svolto può esporre con maggiore probabilità al trauma: militari, addetti alla sicurezza, personale di pronto soccorso, a livello ospedaliero come di pronto intervento (ad esempio, pompieri, artificieri).
Il trauma può generare una disorganizzazione temporanea del modo di essere di una persona; tuttavia, più un individuo è in grado di gestire le proprie emozioni e gode di una buona autostima, maggiore è la sua capacità di affrontare e superare l’esperienza traumatica. Anche la storia pregressa del soggetto ha un ruolo importante circa il commento finale dell’accaduto. Un’infanzia segnata da carenze affettive, trascuratezza o abusi rende un evento traumatico ancora più devastante, come un buco nero che risucchia ogni possibile maturazione[3].
L’intensità con cui si può vivere l’evento traumatico dipende anche dalla struttura della personalità, dalla condizione psichiatrica di base, a livello genetico, nervoso o cerebrale. Per quanto riguarda la struttura della personalità, le sue caratteristiche possono essere ricondotte soprattutto a quelli che gli studiosi chiamano Big Five, «cinque tratti della personalità», che influenzano la maniera di pensare, sentire e agire: 1) apertura all’esperienza: la tendenza a intraprendere attività, a coltivare interessi, ad arricchire il proprio mondo interiore, evitando di chiudersi in sé stessi; 2) estroversione: la capacità di guardare fuori da sé stessi, con una fiducia di fondo a quanto viene richiesto, affrontandolo con passione ed entusiasmo; 3) coscienziosità: il desiderio di svolgere con cura i compiti che vengono affidati – sia che si tratti del lavoro o di un incarico di responsabilità – con generosità e dedizione; 4) gradevolezza o amicalità: la predisposizione a prestare il proprio contributo per aiutare altri, a mostrare interesse nei loro confronti, anche a sacrificarsi per loro; 5) stabilità affettiva:ha a che fare con l’equilibrio interiore, il tipo di umore e le sue possibili variazioni di fronte alle situazioni e agli imprevisti, la gestione dell’aggressività[4].
La personalità di ciascuno è costituita dalla combinazione unica di questi vari tratti. Essi, se ben integrati, favoriscono la resilienza, cioè la capacità di affrontare lo stress senza esserne sopraffatti, esprimendo l’aggressività non in modo vittimistico o distruttivo, ma proattivo, il che rende capaci di superare eventi traumatici. La psicologa Suzanne Kobasa individua tre aspetti particolarmente caratteristici della resilienza: 1) l’impegno, la capacità di coinvolgersi, sapendo che potrà essere importante per qualcuno; 2) il controllo, prendere nelle proprie mani le redini della situazione nella convinzione di avere sempre un potere da esercitare; 3) il gusto per la sfida, che consente di vivere l’evento traumatico come possibile opportunità (ad esempio, di aiuto a persone in difficoltà) e non solo come una minaccia. Sono tre aspetti legati alla consapevolezza, che possono cioè essere educati e potenziati dall’altruismo, come si vedrà[5].
Un altro elemento importante capace di favorire la resilienza è la presenza di relazioni affettive significative. Un ambiente di vita affettivamente stabile e improntato alla stima e all’empatia aiuta a esplicitare possibili doti e capacità che risultano fondamentali per affrontare gli eventi traumatici. Lo psicanalista Bruno Bettelheim ha fatto una ricerca sull’impatto emotivo che un evento traumatico come i bombardamenti aerei su Londra durante la Seconda guerra mondiale ebbe sui bambini: se i genitori erano sopraffatti dall’angoscia, i figli erano anch’essi terrorizzati; i genitori che invece comunicavano sicurezza ottenevano l’effetto sorprendente di cancellare il senso del pericolo. La vicinanza dei genitori, la voce rassicurante del papà e della mamma erano sufficienti a tranquillizzarli, ed essi non avevano più paura di nulla: «Il modo in cui il genitore vive un evento cambia tutto per un bambino, perché è in base al vissuto del genitore che egli si crea la propria interpretazione del mondo»[6].
L’esempio mostra come la resilienza sia legata al grado di attaccamento vissuto dal bambino/a con figure di riferimento significative, che comunicano fiducia nell’affrontare le difficoltà e consentono di operare una «sintesi mentale» (per riprendere un termine caro a P. Janet) padroneggiando l’evento.
Secondo lo psicanalista inglese John Bowlby, «l’attaccamento è parte integrante del comportamento umano dalla culla alla tomba»[7], e si riferisce al legame profondo e stabile che si instaura tra il bambino e la madre nei primi anni di vita. Questo legame rappresenta un filo affettivo invisibile che lo unisce al genitore e gli conferisce sicurezza, protezione e capacità di affrontare situazioni difficili. Il bisogno di attaccamento è fondamentale per la crescita e svolge un ruolo cruciale nello sviluppo emotivo, sociale e cognitivo dell’individuo. L’attaccamento sicuro è proprio del bambino che sa di poter contare sull’amore e sulla fiducia stabili da parte del genitore, e favorisce l’autostima, la capacità di intraprendere in futuro relazioni stabili e la forza per affrontare in maniera proattiva situazioni stressanti. Se l’attaccamento è invece insicuro, il bambino tenderà a evitare le relazioni, pur desiderandole, per non ricevere delusioni che confermerebbero la scarsa stima di sé; oppure tenderà a manifestare un’eccessiva dipendenza, attaccandosi in maniera morbosa e soffocante alle persone, e vivendo con ansia e umore instabile la distanza e il distacco.
Le conseguenze di un trauma dipendono quindi in gran parte da come una persona lo legge, dal suo mondo valoriale di riferimento, e soprattutto se essa si trova sola o se ha qualcuno accanto a sé in grado di aiutarla. Un clima familiare improntato a un attaccamento sicuro, così come sentirsi parte di una comunità, costituisce una delle sue principali forme di protezione: «Le comunità che possiedono un robusto sistema di significato sanno affrontare molto bene i disastri e i conflitti violenti»[8]. Si tratta di una discriminante fondamentale, che trova conferma nelle ricerche compiute in luoghi sconvolti da guerre e cataclismi; è anche ciò che fa la differenza per chi subisce un abuso: poter avere accanto a sé persone di fiducia e con le quali confidarsi, sentendosi presi sul serio, è decisivo per fronteggiare le conseguenze traumatiche di quel tragico episodio.
Naturalmente vale anche il contrario: un evento come un divorzio può essere più o meno traumatico a seconda del legame stabilito con i genitori e del clima familiare; se caratterizzata da tensioni, litigi, scontri anche violenti, la separazione può essere vissuta dal bambino/a in maniera meno scioccante rispetto a un evento capitato all’improvviso, senza che si potesse sospettare nulla. È la dimensione dell’imprevedibilità sopra ricordata.
«The Adverse Childhood Experiences Study»
Le conseguenze del trauma sono state oggetto di un interessante studio, The Adverse Childhood Experiences Study («Esperienze avverse nell’infanzia», ACE), condotto tra il 1995 e il 1998 negli Usa e che ha coinvolto più di 17.000 adulti. Esso ha anzitutto precisato alcune esperienze traumatiche che, più di altre, possono verificarsi in bambini/e dalla nascita ai 17 anni di età. In particolare: «Subire violenza, abuso o negligenza; Assistere a violenza in casa o nella comunità; Avere un membro della famiglia che tenta o muore per suicidio; Famiglie con problemi legati all’uso di sostanze; Problemi di salute mentale; Instabilità dovuta alla separazione dei genitori; Instabilità dovuta al fatto che i membri della famiglia si trovano in carcere o in prigione; Risorse insufficienti a disposizione (cibo, alloggio); Discriminazione e bullismo»[9].
La ricerca ha messo in luce una correlazione importante tra esperienze negative nell’infanzia e il percorso di vita degli adulti partecipanti: il 64% di essi riconosce di aver subìto almeno un tipo di evento traumatico prima dei 18 anni; il 17,3% – in pratica un adulto su sei – ne ha sperimentato quattro o più tipi.
Il confronto con l’età adulta ha inoltre evidenziato un forte legame tra il trauma subìto e la possibilità di sviluppare dipendenze (fumo, alcol, droga), comportamenti violenti, delinquenza, omicidi, difficoltà relazionali, controllo delle emozioni, promiscuità sessuale, depressione, cancro, diabete, malattie cardiovascolari, disturbi psichiatrici, suicidi (questi ultimi rilevati in più del 50% dei casi). Si notavano inoltre impedimenti a ottenere un buon grado di istruzione e, di conseguenza, un’occupazione dignitosa. Le ACE comportano un costo oneroso anche sotto il profilo sanitario: in Canada e negli Usa richiedono una spesa di circa 750 miliardi di dollari l’anno[10].
Questo studio ha fornito spunti per la ricerca e la promozione di fattori individuali e sociali che contribuiscono a ridurre l’impatto del trauma sui pazienti. Conferma l’importanza decisiva dell’attaccamento sicuro come migliore forma di prevenzione. E infine mostra come le suddette problematiche tendano con alta probabilità a essere trasmesse alle generazioni successive: «Ciò significa che maggiore è il numero di eventi avversi vissuti durante l’infanzia (e minore l’età in cui si sono verificati), maggiori sono le patologie presentate da adulti, anche quelle legate a comportamenti che mettono a rischio la salute»[11].
L’aspetto davvero importante di queste ricerche risiede nella loro efficacia nel prevenire patologie gravi e croniche nell’età adulta attraverso una migliore informazione circa l’impatto del trauma nell’infanzia, e proteggendola promuovendo un ambiente favorevole. Alla luce di questi dati, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha recentemente segnalato le esperienze avverse nell’infanzia come pericoli gravi da evitare per la salute fisica e mentale. Ha inoltre menzionato possibili interventi a livello terapeutico e proposte educative, giuridiche e sanitarie per contenere le situazioni avverse e incrementare le life skills[12]: 1) offrire aiuto e sostegno a genitori e operatori sanitari attraverso incontri formativi, per promuovere una genitorialità educata e non violenta; 2) a livello scolastico, potenziare un’istruzione di qualità, dando vita ad attività volte a rafforzare la resilienza e mostrare i pericoli dei comportamenti violenti; 3) avviare programmi di prevenzione dell’abuso e di protezione personale, imparando a cercare aiuto; 4) promuovere un ambiente scolastico empatico e collaborativo fra studenti, insegnanti e amministratori, attento ai più deboli, in modo da contrastare la violenza; 5) promuovere e pubblicizzare il ruolo educativo dei padri, fortemente svalutato; 6) promulgare leggi che vietino punizioni violente; 7) istituire servizi per la diagnosi e l’assistenza a vittime di violenze e abusi[13].
Guarire dal trauma?
Si può davvero guarire dal trauma? È importante prendere le distanze da aspettative magiche: «guarire» non significa che il ricordo o l’emozione legati all’episodio traumatico spariscano; essi semmai potranno acquistare la valenza di ogni altro pensiero. Come per il trauma fisico, le cicatrici rimangono, ma si è accettato il fatto che si tratti di un evento passato e che debba rimanere tale.
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
Da parecchio tempo, le cronache italiane sono colme di delitti perpetrati contro le donne. Il fenomeno riguarda tutte le età e condizioni sociali, tanto da sembrare endemico nella nostra società. A questo tema è dedicato un episodio monografico di Ipertesti Focus, il podcast de «La Civiltà Cattolica».
La psicoterapia può costituire un aiuto importante, soprattutto perché consente di trasporre in parole, in un ambiente protetto, forse per la prima volta nella vita, quanto accaduto; la verbalizzazione, a sua volta, consente di rappresentarsi l’evento a distanza (la parola, in quanto luogo dell’astrazione, richiede la presa di distanza dal vissuto) e di integrare emozione e cognizione. È la verità del detto attribuito a Karen Blixen: «Tutti i dolori sono sopportabili se li si fa entrare in una storia, o se si può raccontare una storia su di essi».
È importante che in sede terapeutica venga anzitutto affrontato il problema del giudizio sull’accaduto, che risulta essere tanto più accentuato e unilaterale, quanto più rilevante è stato il trauma. In tali situazioni purtroppo le parti si invertono: la vittima si sente in colpa, a differenza dell’autore del trauma. La colpa, infatti, in quanto attribuzione di responsabilità, è una maniera di esercitare il controllo, di avere un potere sull’accaduto; è una maniera di sfuggire al caos, all’impotenza di sentirsi preda di forze irresistibili, un tentativo disperato di sfuggire allo squilibrio mentale, anche se in una forma, oltre che falsa, distruttiva. Il senso di colpa può infatti ostacolare in modo rilevante il percorso di guarigione.
Esistono molte proposte terapeutiche per affrontare il trauma in maniera proattiva[14]. Una di esse è la Mindfulness, che mira a incrementare la consapevolezza in modo intenzionale per comprendere lo stretto legame tra il corpo e la mente e vivere e interagire con il mondo in maniera qualitativamente differente. Essere «presenti al presente», vivere il qui e ora in maniera consapevole, accogliendo ricordi e pensieri senza giudicarli e neppure entrare in dialogo con essi, questo è quanto si propone la pratica della Mindfulness: «Quando diventiamo consapevoli delle nostre attenzioni e del nostro focus attentivo, allora è probabile che stiamo utilizzando proprio quei circuiti del cervello che in primo luogo creano delle mappe delle intenzioni e regolano l’attenzione che rivolgiamo alle altre persone»[15].
Alla Mindfulness fanno riferimento anche due ulteriori proposte terapeutiche. La prima è la Psicoterapia Sensomotoria (PSM), che si focalizza sulle parti del corpo coinvolte nel trauma, rilevandone emozioni e pensieri a esso collegati. Scopo della terapia è di raggiungere la padronanza di queste sensazioni e godere quindi di una ritrovata serenità di fondo, attenuando gli effetti traumatici sensomotori[16].
La seconda proposta è il Trattamento Basato sulla Mentalizzazione (MBT). Esso intende riconoscere le ferite che il trauma presenta a livello di processi mentali, coinvolgendo l’aspetto emotivo-corporeo e intersoggettivo. Per quanto riguarda il trattamento, il paziente viene incoraggiato a «comprendere la natura emotiva del trauma; nominare le emozioni a esso collegate; riflettere sui sentimenti che rimandano alla sua vita passata, presente e nel qui-e-ora; concentrare l’attenzione sui sentimenti impliciti presenti nei sintomi post-traumatici (vergogna, umiliazione, helplessness, ovvero senso di impotenza e inefficacia); indagare se tali sentimenti sono appropriati a ogni specifica situazione vissuta e se sono sempre risultati comprensibili agli altri»[17]. Lo scopo è di favorire gli stati mentali che consentono di intraprendere attività e relazioni positive e stabili. Ciò è fondamentale per l’identità personale e la formazione di un sé integrato nei suoi vari aspetti.
Ricordiamo infine la terapia di Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari (EMDR). Essa si basa sulla premessa che ogni disagio o patologia ha una radice in qualche evento pregresso: «L’obiettivo della terapia con l’EMDR è di metabolizzare rapidamente il residuo disfunzionale del passato e trasformarlo in qualcosa di utile. Essenzialmente, con l’EMDR l’informazione disfunzionale subisce un cambiamento spontaneo di forma e significato, favorendo nel paziente intuizioni ed emotività valorizzanti anziché autodenigratorie»[18]. I passi che ne scandiscono il lavoro si concentrano sull’evento traumatico, rielaborandolo, inizialmente a occhi chiusi, soffermandosi su ciò che disturba e ripetendolo finché non si è in grado di ripercorrerlo interamente, a occhi aperti, seguendo i movimenti indicati dal terapeuta. Con il tempo questo esercizio, modificando il commento interiore dell’accadimento traumatico, consente di desensibilizzarne i sintomi[19].
Quando il trauma può diventare opportunità
Una delle caratteristiche della resilienza, come si notava, è l’attenzione al mondo dell’altro. Si tratta di un passo importante nel cammino verso la guarigione: voler aiutare altri a uscire dal tunnel del trauma è segno di non essere rimasti prigionieri del disagio e di saper vedere la propria vita come importante per altri. È il paradosso dell’aiuto: si trova una modalità differente di vivere il trauma quando non si è più fissati su di esso, quando, in altre parole, ci si è dimenticati di sé stessi per rivolgersi ad altri, con gratuità. Lo psichiatra Irvin Yalom nota come l’efficacia di una terapia migliori sensibilmente quando la persona smette di preoccuparsi unicamente di sé e dei propri problemi per cercare piuttosto di aiutare altri: «Si dice che Clinton T. Duffy (un personaggio mitico del carcere di San Quentin) abbia affermato che il modo migliore di aiutare un uomo è permettergli di aiutarvi. La gente ha bisogno di sentirsi necessaria»[20].
Le difficoltà personali non vengono con questo dimenticate, ma il fatto di sentirsi utili dà spazio a un diverso atteggiamento nei confronti della vita, più propositivo e meno vittimistico, sperimentando una sorta di inedita armonia con l’altro. Anzi, proprio il fatto di aver subìto un trauma può rendere la persona particolarmente capace di aiutare gli altri, perché sa che cosa esso significhi. È un aspetto altrettanto importante del lavoro su di sé: aiutando altri si scopre di stare aiutando sé stessi.
È quanto, ad esempio, è accaduto a Stefania, che perde il figlio Luigi di 16 anni, suicida. Un dolore nel dolore, aggravato dai sensi di colpa. All’inizio si chiede dove abbia sbagliato, come non si sia accorta di quello che Luigi stava vivendo senza trovare una risposta. Un trauma accentuato dallo stigma dei commenti spietati della gente, formulati sottovoce, e per questo ancora più crudeli. Ella decide così di chiedere aiuto: non vuole parole consolatorie, ma qualcuno che sappia ascoltare senza giudicare. E lo trova in una mamma che ha vissuto la medesima tragedia. Da quegli incontri nasce l’idea di fondare un’associazione di aiuto a coloro che hanno vissuto lo stesso trauma: essa offre la possibilità di elaborare il lutto mediante gruppi, convegni, seminari, condivisione di esperienze. E a mano a mano che si occupa del dolore degli altri, Stefania impara a fare pace con sé stessa.
La morte del figlio rimane tuttora per lei un mistero, ma si accorge che, quando smette di accusarsi o di cercare le motivazioni di quel gesto, si sente meglio. E vive sempre più orientata al presente, ponendo maggiore attenzione agli altri suoi figli, che continuano ad avere bisogno di lei: «Il lato positivo, in tanto dolore, è stato mettermi a disposizione degli altri. Oggi, quando racconto quello che ci è accaduto, lo faccio con serenità, perché il mio dolore si è trasformato nel ricordo degli anni trascorsi con Luigi e di tutto l’amore che ci ha uniti»[21].
Ci sono molte esperienze significative che mostrano come il dolore e la rabbia possano diventare motivazioni per l’aiuto e la prevenzione. Gino Cecchettin, padre di Giulia, la cui morte è tristemente assurta alle cronache degli ultimi mesi, ha deciso di dare vita a una Fondazione che «si propone di mantenere viva la sua memoria e di diffondere il suo messaggio di amore e speranza», occupandosi di educazione affettiva nelle scuole per favorire il dialogo e la prevenzione della violenza e l’elaborazione del lutto per la possibile fine di una relazione. Egli considera questa iniziativa «un percorso partecipato che coinvolgerà al massimo possibile gli attori istituzionali, le organizzazioni e le persone che in questo periodo hanno dimostrato interesse a sostenere la nostra missione per garantire partecipazione, pluralità e trasversalità. L’ampia partecipazione sarà garanzia di un impatto maggiore e duraturo»[22].
Un’altra iniziativa degna di nota è quella avviata da Nico Acampora: dopo aver scoperto l’autismo del figlio, decide di aprire una pizzeria, PizzAut, volta al coinvolgimento di ragazzi/e autistici in un progetto comune, che consenta loro di trovare lavoro, apprezzamento e realizzazione. Il suo messaggio, con il passare degli anni, riscuote interesse e attenzione crescenti: l’équipe di PizzAut viene ricevuta al Senato, alla Camera, al Parlamento europeo, e in Vaticano da papa Francesco. Lo stesso presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel 2023, ha voluto recarsi al PizzAut di Monza, in occasione della Giornata mondiale per la consapevolezza sull’autismo. Il progetto si fa anche portavoce, insieme a varie associazioni e ai rappresentanti di tutti i partiti, di una legge per concedere spazi e possibilità lavorative ai disabili[23].
Un’idea originale e rivoluzionaria, ma anche, come è facile intuire, non priva di difficoltà e sofferenza, come lo stesso Acampora precisa nel libro che ne ricostruisce la storia, Vietato calpestare i sogni: «Ho accettato di scrivere questo libro per ripetere a noi stessi e a tutti che “è vietato calpestare i sogni”: per questo non aspettatevi un trattato sull’autismo. Leggerete invece il racconto di un’avventura incredibile nata dal desiderio di dare un piccolo contributo alla costruzione di un mondo migliore, più inclusivo, più solidale. Leggerete di fatiche e frustrazioni, di sorprese e gioie, di amicizia e amore. Sono soltanto un papà di un ragazzo autistico che ha creato un luogo dove offrire lavoro, dignità e futuro ad altre persone autistiche»[24].
Sono esempi di come il trauma possa diventare motivo di solidarietà e vicinanza a coloro che soffrono, trovando in essi l’aiuto più efficace per sé stessi.
Copyright © La Civiltà Cattolica 2024
Riproduzione riservata
***
[1]. Cfr V. Caretti – G. Craparo – A. Schimmenti (edd.), Memorie traumatiche e mentalizzazione, Roma, Astrolabio, 2013, 169 s.
[2]. Cfr P. Janet, L’état mental des hystériques, Paris, Alcan, 1911, 528.
[3]. Cfr V. Caretti – G. Craparo – A. Schimmenti (edd.), Memorie traumatiche e mentalizzazione, cit., 171.
[4]. Cfr L. Goldberg, «The structure of phenotypic personality traits», in American Psychologist 48 (1993) 26-34.
[5]. Cfr S. C. Kobasa – S. R. Maddi – S. Kahn, «Hardiness and Health: A Prospective Study», in Journal of Personality and Social Psychology 42 (1982) 168-177.
[6]. B. Bettelheim, Un genitore quasi perfetto, Milano, Feltrinelli, 1997, 59. Cfr A. Oliverio Ferraris, La forza d’animo. Cos’è e come possiamo insegnarla ai nostri figli, Milano, Rizzoli, 2004, 78-81.
[7]. J. Bolwby, The Making and Breaking of Affectional Bonds,London, Tavistock, 1979, 129.
[8]. F. Furedi, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana,Milano, Feltrinelli, 2008, 158.
[9]. E. A. Swedo et Al., «Prevalence of Adverse Childhood Experiences Among U.S. Adults – Behavioral Risk Factor Surveillance System, 2011–2020», in Morbidity and Mortality Weekly Report, n. 72, 2023, 707–715.
[10]. Cfr M. A. Bellis et Al., «Life Course Health Consequences and Associated Annual Costs of Adverse Childhood Experiences Across Europe and North America: A Systematic Review and Meta-Analysis», in The Lancet Public Health, vol. 4, 2019, e517-e528.
[11]. M. T. Merrick et Al., «Vital Signs: Estimated Proportion of Adult Health Problems Attributable to Adverse Childhood Experiences and Implications for Prevention – 25 States, 2015–2017», in Morbidity and Mortality Weekly Report, vol. 68, 2019, 999-1005.
[12]. Le life skills (le «competenze di vita») sono abilità che possono essere potenziate o fatte maturare nel corso dello sviluppo grazie a opportuni interventi educativi. Esse sono di aiuto nei confronti dello stress e delle più generali difficoltà della vita, consentendo alla persona di padroneggiarli (cfr G. Cucci, L’arte di vivere. Educare alla felicità, Milano, Àncora – La Civiltà Cattolica, 2019, 170-172).
[13]. Cfr World Health Organization, «Child maltreatment», 19 settembre 2022, in www.who.int/news-room/fact-sheets/detail/child-maltreatment
[14]. Cfr B. Cyrulnik, Autobiografia di uno spaventapasseri. Strategie per superare un trauma, Milano, Raffaello Cortina, 2009; B. Van der Kolk, Il corpo accusa il colpo. Mente, corpo e cervello nell’elaborazione delle memorie traumatiche, ivi, 2015; C. Herbert – F. Didonna, Capire e superare il trauma. Una guida per comprendere e fronteggiare i traumi psichici, Trento, Erickson, 2020; J. L. Herman, Guarire dal trauma. Le conseguenze della violenza. Dall’abuso domestico al terrore politico, Roma, Giovanni Fioriti, 2024.
[15]. D. J. Siegel, Mindfulness e cervello, Milano, Raffaello Cortina, 2009, 31. Cfr G. Cucci – B. Varghese, «La terapia dei pensieri. La ripresa di una pratica antica», in Civ. Catt. 2023 II 26-37.
[16]. Cfr V. Caretti – G. Craparo – A. Schimmenti (edd.), Memorie traumatiche e mentalizzazione, cit., 183 s.
[17]. Ivi, 177; testo leggermente modificato.
[18]. F. Shapiro, EMDR. Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso movimenti oculari, Milano, McGraw-Hill, 2000, XII.
[19]. Cfr ivi, 5 s; 224-227.
[20]. I. D. Yalom, Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo, Torino, Bollati Boringhieri, 1997, 30.
[21]. A. Galli, «Fragilità. “Orfana di mio figlio, così sopravvivo”», in Avvenire, 25 febbraio 2024. L’associazione si chiama A.M.A. Auto Mutuo Aiuto Ceprano (www.amaceprano.org).
[22]. https://fondazionegiulia.org/; cfr G. Cecchettin – M. Franzoso, Cara Giulia. Quello che ho imparato da mia figlia, Milano, Rizzoli, 2024.
[23]. Cfr G. A. Stella, «PizzaAut, un’avventura gioiosa: l’entusiasmo batte i pregiudizi», in Corriere della Sera, 7 aprile 2024.
[24]. N. Acampora – E. Soglio, Vietato calpestare i sogni. La straordinaria storia di PizzAut e dei suoi ragazzi, Milano, Solferino, 2024, 12.