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Scrivere su ciò che non si sa sembra a prima vista impossibile, eppure l’A., professore emerito di Storia culturale a Cambridge, riesce a farlo in maniera brillante e documentata. Egli nota innanzitutto che il termine «ignoranza» non indica semplicemente un vuoto o una mancanza di informazioni, ma assume spesso un significato etico o moralistico, una maniera di giudicare una persona, una società o un periodo storico: «Gli arabofoni parlano del periodo preislamico definendolo “l’Età dell’ignoranza”. Durante il Rinascimento, gli umanisti videro il periodo che furono i primi a chiamare “Medioevo” come un’epoca di oscurità […]. Durante l’Illuminismo, l’ignoranza fu presentata come un supporto per il “dispotismo”, il “fanatismo” e la “superstizione” […]. George Washington dichiarò che “le fondamenta del nostro impero non sono state gettate nella cupa età dell’ignoranza”» (pp. 20 s).
Ma su cosa basare tale valutazione? Anche a questo riguardo le opinioni variano a seconda dell’epoca storica. Un tempo si associava l’ignoranza alla scarsità di conoscenze, oggi la situazione è rovesciata: a fare problema sono proprio il sovraccarico dell’informazione e la difficoltà a riconoscere ciò che è davvero rilevante. Di conseguenza, contrariamente alle speranze degli illuministi, con il susseguirsi delle generazioni c’è da aspettarsi un aumento, piuttosto che una diminuzione, dell’ignoranza.
Il libro entra anche in merito alle diverse forme di ignoranza: collettiva, religiosa, scientifica, geografica, politico-economica. Confrontarsi con l’ignoranza è importante soprattutto se si guarda alle sue conseguenze da parte dei responsabili, mettendo davanti agli occhi il medesimo scenario, anche a distanza di secoli. È il caso delle carestie del Bengala nel 1770 e 1943, dove «tutti i peccati di omissioni e commissioni […] vennero ripetuti in ogni dettaglio» (p. 302).
Un altro scenario emblematico è la guerra: essa nasce e si sviluppa sull’ignoranza, anzitutto delle sue possibili conseguenze, sempre imprevedibili anche per la mancata conoscenza dei piani del nemico. C’è tuttavia anche un’ignoranza voluta, frutto della presunzione di non aver bisogno delle informazioni necessarie prima di intraprendere una guerra. Un esempio eloquente è l’invasione della Russia da parte di Napoleone, il quale non volle tener conto di quanto potesse essere devastante l’impatto del «generale inverno»: di questa ignoranza fecero le spese i 700.000 uomini della sua armata, ridotti in poche settimane a 25.000.
L’ignoranza presuntuosa prende anche la forma del rifiuto di apprendere le lezioni del passato. La campagna di Russia è un esempio anche sotto questo aspetto: «Hitler sapeva quello che era successo all’esercito di Napoleone, ma certamente volle ignorarlo. Confidava nel fatto che più truppe, per non parlare dei mezzi corazzati e degli aerei, gli avrebbero permesso di riuscire là dove Napoleone aveva fallito. Non andò così» (p. 305). L’ignoranza, unita alla presunzione di sapere, è anche alla base di disastri militari più recenti, come la guerra in Vietnam, in Iraq e in Afghanistan da parte degli Usa e, sempre in Afghanistan, la guerra da parte della Russia vent’anni prima. Sia gli statunitensi sia i russi non vollero tener conto di quanto era accaduto agli inglesi nella campagna del 1839.
La battaglia contro l’ignoranza è anche esplicitamente ostacolata da politici e responsabili di grandi compagnie commerciali. Gli studi sul rapporto tra industria petrolifera e inquinamento vennero censurati per anni, così come quelli del legame tra fumo e cancro, le piogge acide, il buco dell’ozono e il riscaldamento globale. L’ignoranza viene anche esplicitamente incoraggiata dalle fake news, tipica espressione dell’era detta della «post verità».
Ma ciò a cui non si presta abbastanza attenzione è che il falso, per apparire credibile, ha bisogno di una conoscenza non solo vera, ma anche accurata: basta infatti un piccolo errore perché l’inganno venga scoperto. Oltretutto, l’avvento di internet rende più facile ai whistleblower visionare e diffondere documenti scomodi.
Purtroppo, però, quando l’inganno viene scoperto, le cose non sembrano necessariamente cambiare: «In uno studio pubblicato nel 2004 si affermava che “nella politica americana, oggi, la capacità di mentire in modo convincente ha finito per essere considerata una qualifica prima facie per ricoprire altri incarichi”» (p. 277). Gli episodi che possono confermare questo paradosso non mancano, come viene indicato riportando esempi di politici di nazioni e periodi più diversi nei quali la menzogna, oltre che attuata, è stata anche giustificata.
L’ignoranza è dunque una compagna fedele della vita umana di tutti i tempi; riconoscerla è parte essenziale della ricerca della verità, in modo da adempiere al meglio al proprio compito per il bene di tutti.