|
Certamente c’è la tentazione inevitabile del confronto, che è insieme storia dei punti di vista, dello sguardo di chi crede, influenzato dall’insieme di elementi che compongono la cultura originaria, ma anche e soprattutto l’immersione in un «Oriente» che non è così lontano come si potrebbe pensare a tutta prima: questa è la reazione interiore più immediata che si fa largo alla lettura de I Veda e gli Inni cosmici, sesto volume dell’Opera omnia di Raimon Panikkar (1918-2010), edito da Jaca Book. Qualcosa di più di una semplice traduzione, semmai una nuova contestualizzazione di un percorso che parte dal mondo pre-ario e che trova poi la sua codificazione dopo il 2000 a.C., periodo in cui gran parte degli storici pone la diffusione, nel nord della penisola indiana, di popolazioni indoeuropee.
Lo stesso Panikkar – madre spagnola e cattolica, padre indiano –, seppure giunto in Inghilterra per motivi di studio e di religione indù, mette in guardia da facili comparazioni, da sincretismi, ma anche da sospetti e rivendicazioni religiose. Quello da lui tradotto e commentato non è un «altro» di cui tener conto solo a livello di archeologia della religione, ma rappresenta una fase di un cammino mai terminato. La ricerca di senso ha molte parole e molte angolazioni, che derivano dalle radici antropiche, culturali, linguistiche, e di questo Panikkar era consapevole.
Nell’accompagnare il lettore attraverso le quattro fasi vediche – quella arcaica (Mantra); poi il periodo dei Brahmana; i Trattati della foresta; e infine le Upaniṣad –, lo studioso ci offre uno spaccato culturale, oltre che religioso, che ci istruisce su alcune persistenze culturali più tarde, come la «radiosità che splende intorno a una fanciulla» (p. 131) dell’Inno alla terra, che ci porta – e non si tratta di un debito, ma di una persistenza archetipica – fino a Dante e al Chesterton della pagina finale de L’uomo che fu giovedì.
Anche nella Bhagavadgītā emerge il senso – modernissimo – di un cammino che non mira al soddisfacimento più vicino possibile nel qui e ora, ma a una concezione delle vie che restino vie «e non diventino luoghi definitivi di sosta» (p. 169). Quello che importa davvero è cercare, perché il soddisfacimento immanente porterebbe alla stasi, alla fine della strada e del senso, e non è un caso che Panikkar affronti nelle sue note uno dei temi fondamentali della letteratura e del pensiero, a tutte le latitudini: la noia, il compimento del desiderio, la mancanza di senso.
Sorprendente, per chi non è abituato alla lettura dei testi sacri di ogni latitudine, è la condanna dell’erudizione in sé e per sé, come scopo e non come mezzo per capire il senso della strada. E soprattutto la parola – importante, anzi fondamentale in questi libri – non deve essere atto estetizzante: «La beatitudine […] non può mai essere espressa a parole! La si deve esperire direttamente, da sé, nel proprio intimo essere» (p. 462).
Come si vede, siamo di fronte a un messaggio che attraversa i tempi e che parla non solo a livello cultuale, in grado di farci capire che visioni del mondo legate alla sazietà – in una Terra in cui si muore per mancanza di cibo e di acqua, ieri come oggi –, all’esibizione vana delle proprie acquisizioni, culturali o estetizzanti, appartengono non unicamente a momenti precisi, ma alla storia stessa del genere umano, a ogni latitudine. Lo stesso culto, precisa l’A., non deve essere visto come un’«azione esteriore o attività intellettuale» (p. 465), ma come una pratica in cui l’amore rappresenta la forza motrice, dove l’offerta di elementi concreti assume una funzione prettamente simbolica.
La consapevolezza del rischio di diventare schiavi dei sensi – come resa assoluta alla materia e al soddisfacimento – è ben presente in molti testi qui raccolti, come nel caso del Karma Yoga, in cui l’esistenza è vista come una ruota che ognuno deve aiutare a far girare, senza però soccombere alla schiavitù delle cose: «Colui che in questo mondo evita di aiutare a girare / la ruota che così si muove / è un malvagio, i sensi sono il suo piacere. / La sua vita è vana» (p. 468).
Ciò che si ricava da questo volume è la ricchezza di contenuti e di insegnamenti in vista della compenetrazione tra preghiera, meditazione e azione. Quest’ultima è necessaria, anche se il saggio deve «agire, ma in uno spirito di distacco, con il desiderio di mantenere l’ordine del mondo» (p. 469), in una visione dell’esistente in cui ogni essere e cosa hanno un loro posto e una loro provvidenzialità. La comprensione di un contesto culturalmente e religiosamente variegato e ricco di sfumature che potrebbero apparire, a torto, tautologie, è aiutata da un glossario – che traduce i molteplici termini in sanscrito – posto alla fine del libro.