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La storiografia relativa al fascismo prosegue nel meritorio lavoro di scavo, consentendoci così di approfondire la conoscenza del periodo mussoliniano. Ci si offre, di conseguenza, l’opportunità di affrontare temi trascurati, traumi rimossi, eccidi passati sotto silenzio, e di riflettere sugli uni, sugli altri e altri ancora.
Questo saggio dello storico Eric Gobetti si propone di prendere in esame un argomento del quale, nel nostro Paese, si è parlato e discusso assai poco: i crimini di guerra commessi all’estero nel corso del Ventennio. Veri e propri massacri, diffusi e reiterati, i cui autori godettero in seguito di una sostanziale impunità. Essi si erano macchiati di rappresaglie, impiccagioni, utilizzo di armi chimiche, fucilazioni di ostaggi, stragi di civili, internamenti di massa, ma erano stati personaggi «troppo in ombra e indirettamente responsabili, per essere inquisiti nel dopoguerra» (p. 50). Di lì a poco, dunque, al termine del conflitto, molti di loro si ricicleranno, resteranno al loro posto o saranno persino promossi, incarnando così la cosiddetta «continuità dello Stato».
Lo studio ricostruisce la vita e le vicende di alcuni degli uomini che hanno ordinato, condotto o partecipato attivamente al compimento di quelle brutali violenze: giovani e meno giovani, generali e soldati, fascisti e non, numerosi sono stati quelli che hanno contribuito a rendere un cospicuo numero di operazioni militari una «discesa agli inferi», un autentico viaggio nell’orrore.
Lo storico, che integra la sua analisi con ampie citazioni tratte da vari memoriali, si occupa, tra gli altri, di Eugenio Coselschi e Giuseppe Pièche. Giornalista e attivista di origine slava il primo, Comandante Generale dei carabinieri il secondo, erano stati entrambi attivi in Jugoslavia, uno dei teatri nei quali la violenza dell’esercito fascista si era dispiegata con maggiore crudeltà. I due riuscirono però a farla franca, insieme – per esempio – a pezzi da novanta del calibro del «macellaio del Fezzan» Rodolfo Graziani, di Mario Roatta, capo del Servizio segreto militare (Sim), e di Alessandro Pirzio Biroli, il generale che si era distinto per brutalità nella repressione dei «ribelli» in Etiopia e Montenegro, e a molti altri.
Va però anche notato come Gobetti affianchi alla descrizione delle «gesta» di quei criminali il ricordo di quanti si opposero agli eccidi: il console a Mostar Renato Giardini, che denunciò la situazione nei suoi resoconti; i partigiani Ilio Barontini e Umberto Graziani; il sacerdote bergamasco Pietro Brignoli, che fu cappellano prima in Etiopia e poi in Slovenia e, pur non mettendo in discussione la guerra né la necessità delle operazioni militari, non perse la sua umanità, arrivando a condannare ogni violenza gratuita.
È importante sottolineare da ultimo come, attraverso questo saggio, lo studioso non intenda certo celebrare i processi che non si tennero all’epoca. Gli preme piuttosto – egli chiosa – interrogarsi «sulle ragioni, sulla mentalità, sui condizionamenti sociali che hanno spinto tanti (troppi) italiani a prendere parte a quei crimini» (p. 12).
Gobetti ritiene insomma che porsi domande simili sia fondamentale per giungere a fare finalmente i conti con un passato che abbiamo rimosso, che ci siamo rifiutati di esaminare come se non ci fosse mai stato. Non si tratta di dare giudizi sugli uomini: appare invece necessario prendere in esame le idee che li animavano e che li spinsero a commettere crimini talvolta efferati; dal momento che idee simili, se considerate innocue o addirittura condivisibili, rischiano di diffondersi nuovamente e indurre noi, i nostri figli o i nostri nipoti a commettere nuove violenze e prevaricazioni.