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Il libro ricostruisce l’origine e la vicenda della colonna genovese delle Brigate rosse (Br). Tale scelta di campo viene giustificata dal punto di vista storico, perché è considerata capofila del movimento eversivo. Le prime azioni sanguinose, che segnano il passaggio dalla contestazione alla lotta armata, vengono compiute proprio dal gruppo genovese: «Il primo sequestro prolungato, quello del pubblico ministero Mario Sossi (1974). I primi omicidi deliberati, vittime il procuratore Francesco Coco e gli uomini della scorta (1976). Il primo attentato a un esponente politico del Pci, con la “gambizzazione” del dirigente dell’Ansaldo Carlo Castellano (1977)» (p. XVII).
Luzzatto prende come filo conduttore ideale una figura rimasta tutto sommato oscura, quella di Riccardo Dura, e attraverso di essa dipana la storia di Genova, le sue caratteristiche peculiari, segnate dalla forte immigrazione dal sud Italia nel secondo dopoguerra (nonché dalla sua precoce crisi economica rispetto alle altre grandi città), e il più generale clima culturale e politico dell’Italia post-Sessantotto.
Un’altra peculiarità della colonna genovese delle Br è che essa non nacque dalle fabbriche, ma dalle élite intellettuali: tra i suoi esponenti vengono menzionati un viceprimario ospedaliero (Sergio Adamoli), un primario (Leonardo Chessa), un avvocato (Edoardo Arnaldi). Ma l’opera di reclutamento ebbe luogo soprattutto nelle aule della Facoltà di Lettere di via Balbi, a opera in particolare dei professori Gianfranco Faina ed Enrico Fenzi. Il primo, storico della politica, inizia il suo percorso studiando le condizioni di vita degli operai dell’Italsider in maniera lucida e rigorosa – «Si resta colpiti dalla dimestichezza che Faina e compagni avevano acquisito con i meccanismi di produzione dello stabilimento siderurgico di Cornigliano, e dalla severità, sia della loro diagnosi, sia della loro prognosi» (p. 69) –, distanziandosi sempre più dalla politica del Pci e del sindacato – «Chiedere ai sindacati un’azione di lotta è come chiederla al padrone» (ivi) –, fino a teorizzare come unica soluzione lo scontro totale con l’istituzione.
Fenzi è uno studioso di Dante e Petrarca, imparentato con Giovanni Senzani (futuro docente di Diritto e una delle menti più lucide e spietate del movimento), avendone sposato la sorella. Senzani studia le istituzioni rieducative e carcerarie, notando come tra le due vi sia un rapporto senza soluzione di continuità: «Il 50 per cento circa dei detenuti delle carceri per adulti si può ritenere proveniente da istituti per minori» (p. 93).
Questo è il percorso che caratterizza Riccardo Dura: rinchiuso nella nave scuola «Garaventa» (di fatto un carcere minorile) dalla madre per comportamento violento, passa alla militanza in Lotta Continua, all’incontro con Faina e alla sua «brigata universitaria», che si raduna in via Balbi. La differenza culturale non costituisce un problema, anche perché per il docente l’università è «un’istituzione totale, alla medesima stregua del riformatorio o del manicomio o della caserma» (p. 277). Dura ben presto supera il maestro, diventando dirigente della colonna genovese delle Br e protagonista della sua progressiva violenta escalation: il rapimento di Piero Costa, le gambizzazioni del vicedirettore del Secolo XIX, del dirigente dell’Ansaldo, del segretario regionale della Dc, del presidente dell’Associazione industriali, fino all’omicidio del commissario Esposito.
E sempre a Genova viene sancita la definitiva presa di distanza tra le Br e il mondo dei lavoratori quando, nel gennaio 1979, per mano di Dura, viene ucciso il sindacalista comunista Guido Rossa, reo di aver denunciato un «postino» che faceva volantinaggio in fabbrica: «Coloro che al buio, nell’ora in cui si alzano gli operai, avevano sparato all’operaio e sindacalista dell’Italsider, non potevano essere né veri compagni degli operai, né veri rivoluzionari» (p. 469). Una caduta fatale anche per l’origine intellettuale della colonna, in quanto ebbe conseguenze soprattutto in termini di credibilità ideologica. La vicenda successiva di Dura è di breve durata, ma sempre più sanguinosa – l’uccisione di quattro carabinieri in due agguati differenti gli procura il soprannome di «Pol Pot» –, fino alla sua uccisione nel marzo 1980.
La matrice intellettuale della colonna genovese pone molti interrogativi allo storico. Ne ricordiamo uno in particolare: coloro che complottarono contro lo Stato, lo fecero grazie ai mezzi e agli strumenti forniti dal medesimo Stato che volevano abbattere? La vicenda di Senzani è, sotto questo aspetto, emblematica: egli chiese – e ottenne – per più di 10 anni continui finanziamenti statali, senza di fatto produrre nulla, ma essi gli consentirono di organizzare in Italia e all’estero attentati e piani eversivi. Come commentò al Senato della Repubblica Valeria Bonazzola: «In un paese come l’Italia, notoriamente a corto di fondi per la ricerca, chi si era assunto la responsabilità di confermare che il lavoro di Senzani meritava di essere lautamente finanziato e rifinanziato? […] Questa del brigatista Senzani è una storia significativa ed emblematica di un intreccio spesso oscuro fra intrallazzo, intrighi e società civile e culturale» (p. 568).