|
Dati originariamente alle stampe nel 1953, questi tre discorsi del filosofo ebreo tedesco Martin Buber (1878-1965) vengono ripubblicati ora grazie all’attenta traduzione e curatela di Anna Aluffi Pentini, che mette in rilievo come l’opera pedagogica buberiana affondi le sue radici nella cultura ebraica e prenda le mosse dall’attività educativa svolta dal pensatore nelle comunità dei suoi correligionari.
Occorre inoltre osservare come in questo volume il tema pedagogico venga affrontato nelle tre distinte fasi dell’infanzia, dell’adolescenza e dell’età adulta. Alla base della riflessione di Buber si trova quindi un esame dell’individuo – considerato nell’arco della sua intera esistenza –, la cui condizione viene analizzata alla luce delle categorie di continuità e discontinuità, crescita e regressione, certezza e incertezza nell’acquisire la propria idea del mondo.
Nella quotidianità, il ruolo dell’educatore si concretizzerà poi nel selezionare alcuni ambiti della realtà globale con i quali mettere a confronto il bambino in maniera da svilupparne gli interessi e le energie creative. L’educatore dovrà esercitare la propria funzione come se non la stesse svolgendo, perché un’azione troppo diretta e coercitiva rischierà di impedire che si instauri una relazione educativa vera e propria.
Ma come si deve operare perché l’allievo si senta stimolato e nel suo animo si accenda quella «piccola scintilla» (p. 49) capace in seguito di provocarne la reazione appassionata? La risposta di Buber è che bisogna percepire l’altro calandosi nel suo punto di vista. In altre parole: l’educatore può e deve rendersi conto delle sensazioni provate dall’allievo nel momento in cui quest’ultimo viene formato.
A proposito dell’educazione degli adulti, il filosofo sottolinea come alla base di un proficuo lavoro di apprendimento vi sia la scelta dei temi da trattare. Egli però è consapevole anche dell’importanza rivestita dall’identità del singolo e della sua comunità. Non è sufficiente, dunque, sapere dove si va: altrettanto rilevante sarà chiedersi da dove si parte. A ciò si dovrà aggiungere un esercizio di doppia prospettiva (oggettiva e intersoggettiva), volta a tener conto delle diverse concezioni del mondo (la propria e quelle altrui).
Riguardo infine al dialogo in sé, il filosofo propone di utilizzare domande semplici, alle quali si dovrà dare una risposta non precostituita, ma ricavata dalle esperienze vissute, perché «è vero ciò che è passato attraverso la prova dei fatti» (p. 79). L’auspicio espresso da Buber è che in tal modo si formino individui in grado di distinguere tra apparenza e realtà e che, optando per quest’ultima, riescano a coglierla grazie a una verifica continua del proprio cammino.
Nella terzo discorso l’autore torna a riflettere sul rapporto tra educatore e allievo. A suo parere, il maestro dovrebbe partire dall’alto: sottoporre cioè al discente alcuni grandi temi, interrogandolo a un livello più elevato e impegnativo rispetto a quelli che sembrano essere i suoi interessi abituali. Egli deve, dunque, partire dall’alto per arrivare in alto, per giungere a formare quello che il filosofo chiama il «grande carattere».
L’educatore dovrà quindi plasmare una materia ancora duttile, utilizzando però un metodo che va rielaborato volta per volta; che non prevede l’impiego di verità immutabili né dogmatiche e tenga conto dell’unicità individuale dell’allievo. Va però ribadito, secondo Buber, che una simile formazione del singolo trova la sua completa realizzazione solo nella comunità, l’ambito nel quale le diverse opinioni verranno superate nella convivenza quotidiana.
MARTIN BUBER
Discorsi sull’educazione
Roma, Armando, 2018, 112, € 12,00.