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Il carme qui edito, tradotto e commentato da Miryam De Gaetano, si compone di 406 esametri dattilici, che hanno per argomento i famosi «novissimi»: morte, giudizio, inferno e paradiso. La tradizione manoscritta attribuisce questa composizione a Tertulliano o a Cipriano, ma per De Gaetano si tratterebbe piuttosto di un autore sconosciuto, vissuto probabilmente in Gallia tra il V e il VI secolo.
Tralasciando le questioni linguistiche e stilistiche, può essere per noi più interessante seguire ciò che la curatrice dice sul contesto e sui destinatari dell’opera. È illuminante ciò che viene menzionato sulla dottrina penitenziale in Africa, sotto l’influsso agostiniano, messa a confronto con quella della Gallia, più debitrice del realismo di Tertulliano e di Cipriano (che pure erano africani).
Poiché «la fine e il fine a cui tende la storia sono il compimento di un progetto che Dio ha avviato all’inizio dei tempi» (p. 8), l’A. fa iniziare il suo carme con un inno a Dio creatore e con la narrazione del peccato dei progenitori, con le sue devastanti conseguenze su tutte le generazioni. Dopo di che passa a descrivere ciò che aspetta gli uomini dopo la loro morte, quando ciascuno sarà giudicato secondo le proprie opere: o la beatitudine eterna per i giusti, o la dannazione eterna per i reprobi. Non vi è traccia di uno stadio intermedio di purificazione (purgatorio).
Lasciamo da parte le descrizioni molto realistiche e corporee della risurrezione, dell’inferno e del paradiso, anche se diverse di queste immagini hanno certamente un significato simbolico. Vale invece la pena cogliere l’intento e i probabili destinatari del carme. Secondo l’approfondita analisi della curatrice, il poema era destinato a «una classe di facoltosi e colti proprietari terrieri cristiani che dal finire del IV secolo elaborarono una forma nuova di quei culti tanto diffusi nelle campagne della Gallia» (p. 62). In altre parole, si era di fronte a un ritorno al paganesimo o, forse meglio, a una specie di anticipo del moderno secolarismo o teismo: «Rimase infatti radicata la convinzione che il mundus appartenesse a una sfera materiale dell’esistenza soggetta a forze proprie, distanti e indipendenti dalle azioni del Dio dei cieli, cui appartiene soltanto la sfera spirituale» (ivi).
Da qui l’invito alla conversione, «presentato con la metafora navale del cambiamento di rotta; i destinatari sono esortati ad abbandonare i tumultuosi flutti degli errores idolatrici per navigare sulle acque tranquille della retta fede» (p. 23). Il carme termina con un appello accorato: «Ve ne prego, mantenete sempre la nuova vita senza colpa / e mantenete menti devote nel vero nome / e supplici chiedete perdono per i delitti di un tempo» (vv. 394-396). È dunque un richiamo alla conversione, «e la conversione richiesta è pertanto un più fervente zelo religioso e morale, un ritorno toto corde alla fede nell’unico vero Dio» (p. 68). Un appello sempre attuale.