|
Inverosimile, irreale (untrue, unreal) è la scultura di Anish Kapoor, nato a Mumbai nel 1954, di nazionalità indiana e britannica. C’è in essa una verità che proviene dall’impareggiabile lezione di Constantin Brâncuşi (1876-1957, l’autore romeno delle colonne senza fine), dalla tradizione dell’arte concettuale e dalla pratica di grandi installazioni ambientali, che dialogano con gli edifici commerciali o museali nelle piazze di Chicago, New York, Londra e altrove. Si tratta di bolle d’acciaio gigantesche che sembrano atterrate sul cemento. Oppure di anelli metallici o clessidre, le cui convessità riproducono la vita del cielo, il cammino degli abitanti, la verticalità dei grattacieli, deformando gli oggetti rappresentati e consegnandoli da vicino allo sguardo esterrefatto dell’osservatore, che vi può anche cercare riparo.
Nel caso di Palazzo Strozzi, a Firenze, dove sono state esposte 17 sue opere, l’architettura rinascimentale è attraversata e riplasmata immaginativamente. La solida, compatta prospettiva dell’edificio ospitante diventa un grembo elastico stirato dalla potenza del disegno e del modellato («bianco gravido dentro di me», si intitolava un suo gigantesco ovale in parete del 2022). Così la prestigiosa dimora Strozzi, progettata da Giuliano da Sangallo, si trova per incanto ad accogliere forme fondamentali della creatività arcaica e contemporanea. Una colonna di pigmento rosso si impianta nel soffitto. L’acciaio cresce come muschio su blocchi di resina terrigna. Muri lucenti sono sfondati da buchi neri. Enormi specchi sferici capovolgono e risucchiano il fruitore. Buffi frutti gialli e purpurei emergono dalle piastrelle di cotto.
Questo elegante catalogo, curato dal critico d’arte Arturo Galansino, documenta fotograficamente il lungo percorso dell’artista; offre un’intervista inedita; individua i collegamenti con il mondo alchemico, la spazialità medicea, la ceroplastica didattica, l’ingegneria e la scultura toscane. Sette contributi illustrano l’apporto intellettuale delle visioni oniriche di Kapoor, che evocano vissuti di paura e caduta, di liberazione e fusione olistica, di rispecchiamento e manipolazione corporea. L’universo escatologico dell’artista recupera e mobilizza una materia primordiale. Un enorme parallelepipedo di cera rossastra – «Svayanbhu», 2007, dal sanscrito «autogenerantesi» – s’incunea in una porta, avanti e indietro per 20 metri, e sembra sanguinare lungo le superfici che sfregano contro l’apertura fra i due locali attigui. L’abilità fiorentina nel maneggiare la cera per la ricostruzione anatomica viene ripresa ed esaltata in un senso ambiguo: l’opera buca violentemente lo spazio e gli dà vita; il solido pesantissimo scivola pericolosamente su rotaie e inventa programmaticamente un disordine su cui lo stesso artista non può più nulla.
È come se un demiurgo umano si interrogasse sull’origine del cosmo – modellato da un vasaio creativo e imperscrutabile come Quello della Genesi – e sul destino morale della cura che dedichiamo allo spazio, obbedendo alle esigenze di bellezza del costruito e indagandone le leggi nascoste. E così, nel cortile cinquecentesco di Palazzo Strozzi, un monolite bianco acceca il visitatore e lo attrae verso vuoti oscuri, che si oppongono alla consonanza matematica dei muri portanti e raccomandano un viaggio di esplorazione al di là del senso comune. Chi accetta la sfida imbocca percorsi inattesi, i cui nomi dettagliano la trascendenza: «Tre giorni di lutto», «Oggi sarai in paradiso», «Neonato», «Vertigine», «Angelo». L’annuncio apocalittico segue allo smembramento e ricompatta l’imploso, ricorrendo a un’intelligenza anteriore a quella geometrica, come nella colonna senza fine (endless) che affascina e sgomenta.
«Se l’arte ha a che fare con qualcosa, è senz’altro la trasformazione. Si tratta di cambiare stato alla materia», dichiarava Kapoor già nel 1992.