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In ogni azione violenta, in ogni atto di guerra, in ogni schema politico ci sono almeno due facce, due soggettività, e forse più di due. È tendenza comune dei belligeranti e dei partigiani quella di ignorare la soggettività dei loro avversari, fino a disumanizzarli. Una lezione che tutti noi potremmo imparare ci viene dal poema scozzese-inglese che Robert Burns scrisse nel 1786, intitolato To A Louse: On Seeing One On A Lady’s Bonnet, At Church («A un pidocchio scorto sul cappellino di una signora, in chiesa»): «Come vorrei che un qualche Potere ci concedesse in dono / di vedere noi stessi come ci vedono gli altri!». Tutti abbiamo un pidocchio in bella vista sui nostri copricapi ebraici, cristiani o musulmani, e non abbiamo motivo di metterci a guardare con disapprovazione i copricapo altrui.
Mi sia concesso di illustrare questo criterio generale con esempi concreti tratti dalle tradizioni della fede ebraica, cristiana e musulmana. Peraltro ci sono «pidocchi» anche sui copricapo degli indù e dei buddisti: anch’essi, infatti, hanno mostrato una fatale tendenza alla soggettività. Ne citerò solo due esempi: il trattamento che i sostenitori dell’hindutva («induità») riservano ai musulmani nell’India del primo ministro Narendra Modi, e il modo in cui i buddisti hanno trattato la minoranza musulmana Rohingya in Myanmar. Per l’occasione, tuttavia, preferisco restare a casa nostra e ragionare con i miei compagni ebrei, cristiani e musulmani, ossia con le persone con cui ho vissuto tutta la mia vita, qui a New York come pure in Africa.
Cristiani, ebrei e musulmani hanno spesso giustificato la violenza in maniera soggettiva; di rado essi hanno considerato la brutalità e la guerra secondo una visione intersoggettiva. Oggi non c’è luogo in cui ciò sia più evidente che il Medio Oriente. Il governo degli Stati Uniti, presieduto in quel momento da Donald J. Trump, ha autorizzato il trasferimento dell’Ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, enfatizzando la decisione, presa anni prima dal Congresso, di riconoscerla come capitale di Israele. Inoltre non ha ostacolato il tentativo dell’allora governo Netanyahu di estendere unilaterlamente la sovranità di Israele su gran parte della Cisgiordania conquistata nella Guerra dei 6 giorni nel 1967. Questo successo diplomatico è stato ascritto a Jared Kushner, il genero dell’allora presidente degli Stati Uniti. Trump, come tanti altri presidenti americani prima di lui, sperava di attribuirsi il merito della soluzione dell’enigma israelo-palestinese, in vista delle elezioni del 2020. Ma non è andata così.
Secondo un’interpretazione più sottile, tuttavia, questo gesto nei confronti del governo Netanyahu sarebbe stato uno stratagemma escogitato da Trump e dai suoi alleati per compiacere i sionisti cristiani, i fondamentalisti biblici nel Sud americano e nelle sacche del Midwest. Questi sionisti cristiani «credenti nella Bibbia» aspettano la venuta del Signore alla fine dei tempi, una volta che Israele avrà accolto il Vangelo (cfr Rm 11,25-27). Gli ebrei americani, d’altra parte, in genere guardano con diffidenza a simili scelte politiche, perché si domandano come farà Israele ad assorbire così tanti cittadini arabi o, forse, come potrà negare loro la cittadinanza e creare in questo modo un sempre maggior numero di palestinesi apolidi entro i nuovi confini di Israele.
Giustificare la violenza antica e moderna nell’ebraismo
Procediamo in ordine storico: iniziamo dall’Israele antico e moderno. Gli ebrei, che non sono mai stati un popolo numeroso in passato, oggi ammontano a poco meno di 14 milioni di persone. Prima della Shoah, c’erano 16 milioni di ebrei. Sia il popolo dell’antico Israele sia gli ebrei in anni più recenti, nonostante la sofferenza che nel corso del tempo hanno patito per mano di nazioni più grandi e comunità di fede più numerose, talora sono caduti in quella visione soggettiva che giustifica la violenza.
Nell’antichità, potenze militari molto più grandi di Israele dominavano l’area geografica che oggi è il Medio Oriente. Inoltre, prima che Israele divenisse un luogo geografico, i suoi figli erano un popolo migrante. «Mio padre era un Arameo errante» (Dt 26,5a), diceva il sacerdote mentre offriva le primizie. Ci sono stati almeno due aramei erranti: il primo fu Abram, originario dell’attuale Iraq meridionale, emigrato in quella che oggi è la Turchia, per giungere infine a Canaan, oggi Israele. Il secondo arameo errante fu Giacobbe, nipote di Abramo, il cui nome fu cambiato in Israele. Abram/Abramo e Giacobbe/Israele «scesero in Egitto e vi stettero come forestieri» (Dt 26,5b). Oppressi in Egitto, i discendenti di Abram/Abramo e Giacobbe/Israele fecero l’esperienza dell’esodo. Sperimentarono soggettivamente Dio come «un guerriero» (Es 15,3) che combatteva per loro mentre attraversavano il Mar Rosso a piedi asciutti.
Questa era la visione soggettiva di entrambi gli aramei erranti. Dio li liberò dalle loro angustie, ma non fece altrettanto con gli egiziani. Il territorio in cui Abramo giunse come pastore di bestiame era già occupato da popolazioni indigene o, almeno, da immigrati stanziatisi in precedenza, principalmente agricoltori. Fu in quella stessa terra che migrarono i discendenti di Giacobbe, provenienti dall’est del Giordano, sotto la guida di Giosuè. È probabile che alcuni di coloro che attraversarono il Giordano con Giosuè discendessero da schiavi israeliti fuggiti dall’Egitto in epoche precedenti. Nessuna fonte egiziana, tuttavia, fa menzione di una fuga massiccia di schiavi israeliti dal territorio faraonico. Questo non significa che non ci siano state numerose fughe più esigue dall’Egitto da parte di israeliti, come pure di altri oppressi. L’economia di quel regno si basava sulla schiavitù.
Più tardi, dopo che i romani esiliarono gli ebrei da Gerusalemme alla fine del I secolo d.C., coloro che vivevano in Babilonia – l’attuale Iraq – si resero conto che, in quanto ebrei, non avevano alcuna esclusiva su Dio. Nel Talmud babilonese, sia nel trattato Megillah (10b) sia in quello Sanhedrin (39b), agli angeli che, vedendo gli egiziani inoltrarsi nel Mar Rosso, vorrebbero offrire loro un canto per celebrarne il trionfo narrato nell’Esodo, Dio replica: «L’opera delle mie mani annega nel mare e voi mi offrireste un cantico!». Era nata l’intersoggettività ebraica.
All’inizio del XX secolo, intellettuali sionisti come Judah Magnes e Martin Buber auspicavano la coesistenza tra sionisti immigrati e palestinesi indigeni. Talvolta questa c’è stata, ma non abbastanza, né abbastanza a lungo. Sia gli israeliani sia i palestinesi oggi patiscono soggettività fatali che impediscono la coesistenza pacifica. L’antisionismo di molte persone in Medio Oriente – non solo palestinesi – troppo spesso è degenerato in antisemitismo, in un odio generalizzato per gli ebrei, soprattutto dopo che quel virus si è diffuso dalla Russia zarista, dalla Francia della Terza Repubblica e, soprattutto, dalla Germania nazista prima, durante e dopo la Seconda guerra mondiale. Nell’Israele contemporaneo è sorta a sua volta un’islamofobia reazionaria. Essa si è diffusa anche tra alcuni amici stranieri, tra i quali oggi si contano non pochi politici statunitensi da ambo le parti dell’aula del Congresso. Per il futuro del Medio Oriente – anzi, per il futuro del mondo – è necessario che tutti noi – e in modo particolare ebrei, cristiani e musulmani – esaminiamo le nostre soggettività. Abbiamo bisogno di «vedere noi stessi come ci vedono gli altri».
Cristiani antichi e moderni che giustificano la violenza
Nei primi tre secoli, i cristiani non ebbero molto da spartire con la guerra; semmai, a volte furono vittime della violenza romana. Tutto però cambiò con l’ascesa al trono di Costantino. Nel giro di un secolo, per i cristiani la violenza della guerra trovò giustificazione. Il Nuovo Testamento si occupa in gran parte di questioni morali interpersonali, non propone una vera teoria della guerra, giusta o ingiusta che sia. Per elaborare una propria teoria, i cristiani dovettero rifarsi in parte alla Bibbia ebraica, e ancor più alle tradizioni filosofiche e giuridiche dei greci e dei romani.
Agostino si oppose ai manichei quando affermarono che la Bibbia ebraica, piena di cronache di battaglie del popolo eletto, non poteva essere la parola di Dio. Si spinse oltre, quando difese l’ordine stabilito dalla dominazione romana in Nord Africa contro le razzie di eretici militanti, come i circoncellioni, il ramo armato della Chiesa donatista. Molto prima che papa Urbano II, nel 1095, convocasse la prima crociata, già Leone IV – che fu papa dal 847 al 855 – nel IX secolo aveva garantito all’esercito cristiano franco, che combatteva per salvare la Roma papale dai pirati arabi musulmani, che a chi fosse morto per quella causa non sarebbe stato negato l’ingresso nel regno dei cieli.
La soggettività prende campo più chiaramente nella nozione medievale secondo cui la guerra contro i musulmani servirebbe come forma di penitenza imposta ai cavalieri cristiani per i loro peccati. La parola latina per pellegrinaggio penitenziale, peregrinatio, significa letteralmente «estraneità», esilio dalla propria patria come punizione per i peccati: una diffusa pratica penitenziale irlandese del primo millennio. È così che i primi crociati, all’inizio del secondo millennio, descrivevano ciò che stavano facendo. L’innovazione che quei peregrini introdussero in tale pratica fu di intraprendere quella «estraneità» penitenziale in forma armata piuttosto che disarmata, indirizzandosi verso i territori musulmani che un tempo erano stati territori bizantini. Il primo di quei peregrini penitenziali partì dalla Francia verso la Terra Santa per via indiretta, uccidendo gli ebrei della Renania nel 1096. Nel 1099 i peregrini radunarono nei recinti del Monte del Tempio – Haram al-Sharif – tutti gli ebrei e musulmani residenti a Gerusalemme e li massacrarono senza pietà. Solo uno o due secoli più tardi quei peregrini armati furono chiamati per la prima volta cruciati, «crociati», perché indossavano la croce sulle loro tuniche.
Tommaso d’Aquino scriveva nel XIII secolo, quando l’Europa cristiana tremava ancora per la paura della forza che i musulmani dimostravano nel Mediterraneo. Egli aveva cenato alla tavola del re Luigi IX di Francia, il quale finì per morire da crociato sulle coste della Tunisia nel 1270. Ma Tommaso sapeva che la maggior parte dei crociati non erano santi. Indicando le tre cose che si richiedono affinché una guerra sia giusta, egli menzionava in primo luogo l’«autorità del principe, per ordine del quale la guerra deve essere proclamata». In secondo luogo, «si richiede una causa giusta: cioè una colpa da parte di coloro contro cui si fa la guerra». In terzo luogo, Tommaso insisteva sulla necessità che «l’intenzione di chi combatte sia retta: cioè che si miri a promuovere il bene e a evitare il male». E ricordava saggiamente che «può […] capitare che, pur essendo giusta la causa e legittima l’autorità di chi dichiara la guerra, tuttavia la guerra sia resa illecita da una cattiva intenzione»[1].
Sia Agostino sia Tommaso guardavano alla guerra da un punto di vista soggettivo, al quale difficilmente potevano sottrarsi. Agostino credeva che il dominio imperiale romano in Nord Africa, vacillante tra la fine del IV e l’inizio del V secolo, fosse cosa buona, o almeno migliore rispetto al caos provocato dagli eretici locali o dai barbari che invadevano l’Europa. Tommaso presumeva che il re Luigi avesse il diritto di intervenire nei possedimenti musulmani in Nord Africa e in Medio Oriente, per difendere i cristiani che vi si trovavano. Viene da pensare che molte guerre, forse la maggior parte di esse, siano rese ingiuste dai propositi malvagi – dalle soggettività malvagie – di coloro che inviano soldati in battaglia. Il santo monarca forse nutriva buone intenzioni, ma i suoi sudditi non sempre condividevano i suoi ideali.
La giustificazione per la Prima guerra del Golfo (1991) si basava sulla presunzione soggettiva che l’integrità territoriale del Kuwait fosse stata violata dall’invasione irachena. Il presidente George H. W. Bush non riuscì a capire perché Giovanni Paolo II si opponesse all’intervento internazionale guidato dagli americani in difesa del Kuwait. Lo stesso Papa si dichiarò contrario anche alla Seconda guerra del Golfo (2003), voluta dal presidente George W. Bush junior. Si supponeva che l’Iraq stesse accumulando armi di distruzione di massa, ma nessun ordigno del genere è stato rinvenuto dopo l’invasione guidata dagli Stati Uniti. Neoconservatori cattolici americani si recarono a Roma per cercare di far cambiare idea al Papa su entrambe le invasioni, ma senza successo.
Quale fu il motivo della Prima guerra del Golfo? Dire che fosse l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq è una risposta troppo semplice. Che cos’è o che cos’era il Kuwait? Una nazione ritagliata dal governatorato di Baghdad dall’Impero ottomano dopo la Prima guerra mondiale. Essa venne creata anche per preservare gli interessi petroliferi britannici nel Golfo Persico, che risalivano al 1898. Non aveva una storia precedente in quanto Stato indipendente. La Gran Bretagna creò la nazione del Kuwait da una città portuale ottomana, proprio come fece con Hong Kong a partire da una città portuale in Cina. Del resto, sia l’Iraq sia la Siria furono sottratti al sultanato ottomano dopo la Prima guerra mondiale per soddisfare gli interessi francesi e britannici nella regione.
Quale fu il motivo della Seconda guerra del Golfo? Il cambio di regime, la sostituzione di Saddam Hussein, un arabo sunnita, con vari governi arabi a guida sciita. La minoranza curda sunnita, nel tentativo di lasciarsi alle spalle l’Iraq, si alleò con la minoranza curda turca, con grande disappunto del governo di Ankara. I militanti arabi sunniti in Iraq si unirono con la maggioranza araba sunnita in Siria e diedero vita al fanatico Stato Islamico transfrontaliero dell’Iraq e della Siria (Isis). La popolazione cristiana di quel Paese, che costituiva il 5% degli iracheni, in massima parte fuggì dall’Iraq, soprattutto in Giordania, anche se una minoranza rimase nascosta all’interno del Paese di origine.
Ovunque, in questa situazione e con tutte le relative conseguenze, hanno prevalso varie soggettività e c’è stato pochissimo senso di intersoggettività, ben scarsa percezione della sofferenza che aveva colpito i cittadini iracheni. Le persone comuni siriane e irachene – ossia musulmani sunniti e sciiti, cristiani ortodossi e cattolici, mandei, yazidi, non religiosi – sono state tutte immerse in un calderone bollente che sembrava non raffreddarsi mai, sebbene il presidente Trump periodicamente annunciasse che lui e il suo amico del momento, Vladimir Putin, avevano risolto tutto.
Musulmani antichi e moderni che giustificano la violenza
I media affermano tranquillamente che jihad significa «guerra santa», ma non è vero. Il sostantivo jihad ricorre solo quattro volte nel Corano e non significa «guerra santa», ma «lotta». In arabo, il termine che indica la guerra è harb; questa è generalmente considerata come un fatto empio, da non confondersi con il jihad. Per comprendere l’ambiente arabo del VII secolo in cui vivevano Maometto e i suoi contemporanei, possiamo ricordare ciò che Hobbes scrisse nel Leviatano riguardo alla guerra di tutti contro tutti, e cioè che un’epoca del genere è fatta di «continuo timore e pericolo di morte violenta, e la vita dell’uomo è solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve»[2].
Certamente in Arabia, prima di Maometto, c’erano oasi in cui la semina e il raccolto avvenivano pacificamente, ma si trattava di casi eccezionali. Nell’Arabia divisa, prima della rivelazione coranica, a chi aveva intenzione di sopravvivere era richiesta la lotta, il jihad: lotta per nutrire sé e la propria famiglia con i prodotti delle poche oasi; lotta per difendere sé e il proprio clan dai vicini predoni. Quando Maometto iniziò a proclamare in Arabia un messaggio di unità pacifica – unità divina e unità umana –, dovette scontrarsi con l’ostinazione della sua città natale. Nel 622 d.C. lui e i suoi discepoli si ritirarono dalla Mecca nell’oasi di Yathrib, in seguito ribattezzata «Medina», «la città del Profeta». Lì si impegnarono nella lotta per la sopravvivenza, il jihad.
Il jihad e i suoi sinonimi possono deteriorarsi, scadendo in qualcosa di assolutamente e fatalmente soggettivo: la «mia» lotta, o la «nostra» lotta per sopravvivere, per sconfiggere forze avversarie, a volte può mascherare il desiderio di ottenere potere, conquistando o uccidendo gli altri. La tradizione giuridica islamica, tuttavia, ha circoscritto il jihad con restrizioni che non consentono di includere in esso ogni forma di violenza. Esso, per esempio, non deve essere condotto contro altri musulmani. Se si può provare che dei musulmani hanno completamente ripudiato la fede, il jihad potrebbe essere giustificato, ma in tal caso va tenuto presente un altro imperativo coranico: «Non c’è costrizione nella religione» (Corano 2, 256). Il jihad non deve essere condotto contro il popolo del Libro: contro ebrei, cristiani e zoroastriani, in primo luogo. Ma nel corso della storia delle società musulmane la categoria del popolo del Libro è stata ampliata, fino a includere genti diverse, come i vichinghi e alcune popolazioni non musulmane nel Sahara e nel Sahel africano.
Quando, dopo la conquista della Mecca, nel 630 d.C., un avversario di Maometto corse verso le file dell’esercito musulmano gridando che il Dio con la «D» maiuscola era l’unico Dio e che Maometto ne era il messaggero, uno dei seguaci più stretti del Profeta, Usama ibn Zayd, lo uccise sul posto. Maometto, quando fu informato della cosa, investì Usama con una severità sorprendente: «Chi ti assolverà, Usama, dall’avere ignorato la confessione della fede?». Usama rispose che «l’uomo aveva pronunciato quelle parole solo per sfuggire alla morte». Maometto si limitò a ripetere la sua domanda più volte: «Chi ti assolverà?». Usama si vergognò di ciò che aveva fatto a tal punto che in seguito dichiarò: «Avrei voluto non essere stato musulmano fino ad allora ed esserlo diventato solo quel giorno».
Quando, nel tardo VII secolo, la comunità musulmana dall’Arabia si sparse in tutto il Medio Oriente e in Nord Africa, le popolazioni cristiane maggioritarie dell’Egitto e della Siria accolsero talvolta con favore il passaggio del potere dal dominio greco bizantino a quello arabo musulmano in quelle due regioni. In primo luogo – la teologia a quel tempo era più importante di quanto lo sia oggi –, i conquistatori musulmani non avevano alcun interesse a imporre l’ortodossia calcedoniana – identificata con la Costantinopoli bizantina – sui cristiani miafisiti dell’Egitto e della Siria. In secondo luogo, in una prospettiva molto più pratica, le tasse imposte dagli arabi musulmani erano inferiori a quelle imposte dai bizantini. Tuttavia, sotto il dominio musulmano i cristiani di ogni tipo alla fine iniziarono a sperimentare gli effetti della minorizzazione, la stessa realtà che gli ebrei avevano sperimentato, e con molto dolore, sotto il dominio cristiano dopo il trionfo di Costantino nel IV secolo. Di rado la fede di Stato ha tollerato le fedi delle minoranze, almeno nel lungo periodo.
Nei primi secoli della storia islamica, i governanti musulmani dell’Egitto e della Siria non furono molto interessati a convertire all’islam le popolazioni locali. La jizya, un’imposta pagata dai sudditi, contribuiva alle casse dell’Impero musulmano in espansione. L’Egitto divenne a maggioranza musulmana solo quando, nel XIII secolo, fu retto dai mamelucchi, soldati-schiavi che da bambini erano vissuti in Grecia, Albania, Bulgaria o Sicilia. La soggettività di costoro, rapiti e costretti alla conversione, li rese cattivi musulmani, che a loro volta costringevano molti altri ad abbracciare l’islam. Gli orrori perpetrati fino a poco tempo fa dall’Isis in Siria e in Iraq, non soltanto contro le minoranze religiose ma anche contro altri musulmani, ricordano le iniquità commesse otto secoli fa dagli eserciti di schiavi mamelucchi.
L’Isis, al-Qaeda ovunque sia sorto, Boko Haram nel Nord-Est della Nigeria e dintorni, al-Shabaab in Somalia e Kenya, tutti questi movimenti musulmani opprimono i correligionari ancor più che i non musulmani. Hanno attaccato moschee, etichettandole come confraternite sufi (mistiche) e chiese cristiane. Molti di questi cosiddetti «combattenti per la fede» usano la retorica islamista come un’arma, con cui minacciano la stabilità di governi retti dai musulmani. Ciò non significa che siano musulmani pii. Essi trascurano il pidocchio sui propri copricapo, non avendo ricevuto il dono divino «di vedere noi stessi come ci vedono gli altri».
Una propensione, come già detto, che d’altra parte nella storia ha riguardato anche i cristiani. E per non andare troppo indietro, possiamo osservarla tra i fattori che alimentano oggi il conflitto in Ucraina, dopo l’invasione russa. Considerare la soggettività dell’altro permette di farsi un’idea più completa della situazione e di vedere, per esempio, come la tragedia ucraina sia anche una tragedia cristiana. Uno dei segni di questa mancanza di intersoggettività, in termini politici, è il nazionalismo religioso, che purtroppo è presente nelle narrazioni di entrambe le parti e che ciascuna parte contesta all’altra. Se esso prevalesse, sarebbe (anche) la morte dell’ecumenismo.
Il bisogno di pentirsi
Che siamo ebrei, cristiani o musulmani, tutti abbiamo bisogno di praticare il pentimento: teshuvà, metanoia, tawba. È necessario che ci voltiamo, torniamo indietro e cambiamo mentalità. È ancora più chiaro, tuttavia, che anche molti laici dovrebbero pentirsi, ma questo concetto non rientra nel loro modo di pensare. Non esistono un Yom Kippur laico, una Quaresima laica, un Ramadan laico.
Molti anni fa, quando ero dottorando ad Harvard, incontrai a un cocktail party la moglie di un importante professore di economia. Mi chiese che cosa stessi studiando, e io le risposi: «La storia comparata delle religioni». «Religione», disse distrattamente; e poi si interruppe, cercando qualcosa da aggiungere. «Ha causato così tante guerre», disse infine. Replicai: «Più dell’economia?». Le persone di fede non sono le uniche che hanno bisogno di vedere il mondo in modo intersoggettivo, le uniche che hanno bisogno di pentirsi. Per tornare a Robert Burns: «Come vorrei che un qualche Potere ci concedesse in dono / di vedere noi stessi come ci vedono gli altri!».
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[1]. Tommaso d’Aquino, s., Sum. Theol., II-II, q. 40, a. 1.
[2]. Th. Hobbes, Leviatano, Milano, Rizzoli, 2014, 238.