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La stampa quotidiana e periodica anche di diverso orientamento ideologico e politico, in questi ultimi mesi, ha dato molto risalto a due anniversari — di fatto avvenuti in tempi molto ravvicinati — che hanno dolorosamente segnato la nostra storia nazionale nel secondo dopoguerra: il sessantesimo dell’armistizio dell’8 settembre 1943 e quello della deportazione di oltre mille ebrei romani dalla «città eterna» (16 ottobre 1943). Due vicende ancora dibattute e controverse in sede storica, dove perfino nella ricostruzione materiale dei fatti pesa ancora il pregiudizio di orientamenti storiografici diversi e che per lungo tempo si sono contrapposti.
L’armistizio dell’8 settembre 1943 e il giudizio del Papa
Per quanto riguarda l’«8 settembre», fin troppo se ne è parlato e discusso sui media nazionali; ci sembra quindi inutile richiamare quelle vicende o tentarne una sintesi storica anche rapida. Si è molto sottolineato, e a dovere, il fatto che il Re (il garante dell’unità nazionale), la corte e alcuni membri del Governo — temendo un’azione di rappresaglia dei tedeschi — abbandonarono precipitosamente la capitale, diretti verso il Meridione (cioè, la parte dell’Italia già occupata dagli Alleati), lasciandola indifesa e consegnandola, quasi senza opporre resistenza, al nuovo nemico. Ma quasi mai si è detto in modo chiaro e preciso che in quel frangente il Papa non abbandonò Roma, sebbene più volte Hitler avesse confidato ai suoi collaboratori di voler — una volta arrivato nell’Urbe — entrare in Vaticano, «ripulire» la Curia romana, prendere prigioniero il Pontefice e trasferirlo in qualche altra parte, in Germania o nel piccolo Stato del Lussemburgo. Nei lunghi mesi di occupazione nemica Pio XII si prodigò infaticabilmente per la difesa della città, dei suoi abitanti, dei suoi innumerevoli luoghi di culto, cari alla memoria cristiana. In quella grave situazione egli fu il solo e autorevole punto di riferimento della popolazione romana abbandonata a se stessa dalla legittima autorità civile.
Nei mesi di occupazione tedesca dell’Urbe, più volte il Papa confidò al p. G. Martegani, a quel tempo direttore della Civiltà Cattolica, che la Santa Sede stava facendo tutto il possibile per andare incontro alle necessità materiali della popolazione romana e che stava lavorando a livello diplomatico per «tener lontani da Roma i bombardamenti»[1]. Egli si lamentava spesso con il nostro direttore di questo nuovo modo di condurre la guerra, «che ormai non fa più distinzione tra obiettivi militari e civili»[2]. Riportando la sua conversazione col Papa nell’udienza del 1° novembre 1943, il p. Martegani annotava: «A proposito della città di Roma, il Santo Padre ha parlato ancora delle trattative che sta svolgendo con entrambi i belligeranti per la sua incolumità: pel suo rispetto quale “città aperta” e per il suo approvvigionamento. Si è anche interessato al bene degli ebrei»[3]. Il Papa infatti era molto preoccupato per le disastrose conseguenze che il perdurare della guerra avrebbe avuto sull’inerme popolazione civile: «Contro la carestia che incombe minacciosa nei Paesi ove passa la guerra — si legge nel Diario — il Santo Padre si è interessato presso i Paesi neutrali più ricchi per ottenere tempestivi aiuti»[4].
Talvolta era la violenza indiscriminata dei combattimenti che rendeva oltremodo difficile l’approvvigionamento dei centri più colpiti, perciò il Papa si lamentava che specialmente in Italia la situazione andasse di giorno in giorno deteriorandosi: «È recente — confidava al p. Martegani — il mitragliamento di una colonna di 50 autocarri vaticani da bassissima quota in pieno giorno, da parte di velivoli anglo-americani; e quanto agli sforzi fatti per ottenere che navi vaticane portino vettovaglie, non si riesce ancora ad avere risposta dal Governo inglese, mentre quello tedesco ha già risposto affermativamente dopo alcune trattative. Bisogna riconoscere che in quest’ultimo periodo ha più riguardi verso il Vaticano il Governo tedesco, che non gli alleati»[5].
Ma qual era il punto di vista di Pio XII sull’armistizio concluso dal Governo italiano, presieduto a quel tempo dal generale Badoglio, con gli Alleati anglo-americani? Nel già citato Diario si fa riferimento alla vicenda dell’«8 settembre» in due passi: il primo riporta il pensiero del Papa sul modo con cui fu gestita l’intera questione[6]: «Quanto al modo con cui fu svolto l’armistizio disse [il Santo Padre] di disapprovare la bugia diplomatica; e dichiara di non essersene mai personalmente servito»[7]. Pio XII faceva qui riferimento al modo piuttosto ambiguo con cui furono portate avanti dal Governo italiano le trattative sull’armistizio e in particolare all’infelice dichiarazione che il generale Badoglio fece alla radio subito dopo la destituzione di Mussolini il 25 luglio 1943: «La guerra continua». In un altro punto del Diario, sempre a questo proposito, si legge: «L’armistizio poi [disse il Papa] non poteva essere fatto peggio: oggi ci troviamo peggio che in guerra, e patiamo da un lato le violenze tedesche e dall’altro il cinismo e il ricatto degli altri che agiscono con bombardamenti spietati»[8]. Nelle parole del Papa, oltre la critica all’operato del Governo Badoglio, si coglie forte la preoccupazione per la sorte di milioni di civili indifesi, vittime della «violenza» e delle rappresaglie naziste e dei devastanti e «spietati» bombardamenti alleati.
Subito dopo l’«8 settembre», alcuni alti esponenti del mondo militare italiano di orientamento nazifascista si adoperarono per convincere la Santa Sede a non appoggiare il Governo Badoglio e a non riconoscere sul piano del diritto internazionale l’armistizio firmato dal Governo italiano con gli Alleati. Da una relazione di mons. A. Marchioni, incaricato della Nunziatura d’Italia, alla Segreteria di Stato, veniamo a sapere che il maresciallo R. Graziani, che si considerava «cattolico praticante», intervenne presso la Santa Sede per perorare la causa nazifascista. L’anziano maresciallo, infatti, definiva l’armistizio come opera della massoneria, del comunismo e dell’ebraismo internazionale e, sebbene con grande prudenza, denunciava l’orientamento filo-alleato seguito in quel momento dalla Santa Sede: «L’armistizio di Badoglio — disse Graziani a mons. Marchioni — è stato un vero e proprio tradimento ed una pazzia. L’esercito italiano, sparpagliato fuori le frontiere, con armi del tutto insufficienti, scompaginato nel morale, stretto nelle morse delle poderose divisioni tedesche in Italia, non avrebbe potuto assolutamente difendersi dalla giustificata reazione dell’alleato tradito. Non si ha un’idea della punizione ordinata dalla Germania che avrebbe ridotto l’Italia a terra bruciata. Solamente in grazia dell’amicizia del Führer per il Duce fu possibile trattenere, nei limiti limitati l’ira tedesca […]. La dichiarazione di guerra alla Germania fatta da Badoglio getta formalmente l’Italia nella guerra civile e fratricida e costringerà i tedeschi a nuove misure restrittive. Secondo il Maresciallo, Badoglio sarebbe stato spinto all’uno e all’altro atto (armistizio e dichiarazione di guerra) dalla massoneria; una persona sensata non avrebbe potuto concepire tali azioni e tanto meno attuarle […]. Il Maresciallo proseguiva: “Ora la situazione è la seguente: da un lato vi è la massoneria, l’ebraismo e il comunismo, personificati dall’Inghilterra, dall’America e dalla Russia; dall’altro vi è la Germania che combatte queste tre forze oscure e dissolvitrici. È vero che la Germania non è e non può farsi paladina di un ordine nuovo cristiano né della difesa della Chiesa per i suoi precedenti storici e per la sua recente politica anticattolica e anticristiana; ma queste sono cose che si aggiusteranno dopo. E poiché le suddette tre forze sono state sempre nemiche acerrime della Chiesa, il Vaticano dovrebbe dare il suo appoggio o per lo meno mostrare la sua simpatia per chi le combatte. È noto, invece, che gli ambienti vaticani aspettano gli alleati»[9].
L’incaricato della Nunziatura rispose prontamente al Maresciallo che la Santa Sede non intendeva appoggiare nessuna delle due parti belligeranti e che desiderava nelle questioni di natura politica rimanere imparziale e che, però, avrebbe continuato a lavorare per l’opera di pacificazione nazionale e ad aiutare le popolazioni bisognose di assistenza. «La Santa Sede, e per essa il Santo Padre, è e vuole restare neutrale in questa competizione bellica, sebbene non resti e non possa restare neutrale tra il bene e il male. Il Papa è il Padre comune e tutti gli sono egualmente figli […]. Per quanto riguarda poi i cittadini italiani, la Chiesa, e tanto più il Vaticano, non può spingerli a seguire una situazione politica così complessa e delicata come l’attuale; né si può consigliarla ad unirsi ai tedeschi (come desidererebbe il Maresciallo, ad evitare la guerriglia delle bande armate e il susseguente brigantaggio), perché questo sarebbe un intervento politico a favore di uno dei belligeranti e a favore di una parte dei cittadini contro l’altra, della nazione medesima; il clero compie, invece, il proprio dovere sacerdotale inculcando la calma, la tranquillità, l’ordine per fare in modo che azioni inconsulte non producano gravi rappresaglie a danno dei tanti innocenti o dell’intera popolazione»[10].
Dai Rapporti inviati dai Nunzi in Segreteria di Stato risulta, inoltre, che l’armistizio fu accolto in alcuni Paesi a maggioranza cattolica (Spagna, Stati dell’America Latina ecc.) con qualche apprensione. In essi infatti cogliamo la preoccupazione delle autorità ecclesiastiche, e spesso anche di quelle civili, di questi Paesi per l’incolumità del Papa, nonché la paura per possibili azioni di rappresaglia dei nazisti occupanti contro la Chiesa italiana, i suoi ministri e i suoi beni. Mons. V. Valeri, nunzio nella Francia di Vichy, scrisse che in questa nazione la notizia dell’armistizio era stata accolta dalla stampa progressista favorevolmente, anche se una parte della popolazione (la media borghesia e i militari) considerava i bombardamenti alleati sulle città italiane come giuste misure di rappresaglia per essersi il Governo italiano di Mussolini schierato con Hitler. I francesi infatti, aggiungeva il Nunzio, non perdonano all’Italia l’attacco improvviso sferrato al loro territorio nell’estate del 1940 dall’esercito regolare italiano. Il Delegato apostolico in Grecia fece sapere alla Santa Sede che una parte dei militari italiani che si trovavano da quelle parti avevano trovato generosa ospitalità nelle case della gente del luogo; alcuni invece si erano dati alla macchia. Molti soldati, inoltre, anziché consegnare le armi al nemico preferivano venderle a bassissimo prezzo ai greci.
Il nunzio in Svizzera, mons. F. Bernardini, informava la Segreteria di Stato che in questo Paese la notizia dell’armistizio era stata accolta con qualche apprensione sia dalla popolazione sia dalle autorità civili. Si era sparsa la voce (in buona parte fondata) che una numerosa massa di profughi — molti dei quali erano fuggiti dai campi di concentramento — aveva attraversato, o stava per farlo, la malsicura frontiera italiana, e che tra i nuovi arrivati c’erano molti comunisti e socialisti, non graditi né alla popolazione né alle autorità civili[11]. Mons. Bernardini informava poi che molti profughi italiani erano passati per la nunziatura e che i vescovi e la Chiesa cattolica svizzera si stavano attivando per l’accoglienza dei nuovi arrivati, tra i quali segnalava il professor F. Carnelutti dell’Università di Milano, il professor A. Colonnetti, dell’Università di Torino e membro dell’Accademia Pontificia, il conte S. Jacini di Milano, sei studenti gesuiti non italiani (un greco, un tedesco e quattro maltesi) dell’Aloisianum di Gallarate, nonché i «teneri figli» del generale Cadorna. «I laici — scriveva mons. Bernardini — desiderano che non si propaghi la notizia della loro evasione per timore di rappresaglie verso i propri cari». La relazione del Nunzio terminava con le nobili parole del prof. Carnelutti: «Questi profughi sono così disorientati, ma insieme così disposti a ricevere la luce del Vangelo, che in questo forzato esilio di tanti italiani si possono gettare germi fecondi per quella ricostruzione spirituale che è la prima necessità della Nazione italiana»[12].
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
Da parecchio tempo, le cronache italiane sono colme di delitti perpetrati contro le donne. Il fenomeno riguarda tutte le età e condizioni sociali, tanto da sembrare endemico nella nostra società. A questo tema è dedicato un episodio monografico di Ipertesti Focus, il podcast de «La Civiltà Cattolica».
Sotto le finestre del Papa
L’altro anniversario, di cui quest’anno ricorre il sessantesimo, è quello dell’infausto 16 ottobre 1943, quando «sotto le finestre del Papa», come è stato detto, reparti speciali delle SS — arrivate in città appositamente per questa operazione, che a quanto pare fu ordinata direttamente da Berlino — «rastrellarono» nell’ex ghetto ebraico più di mille ebrei[13]. Dalle fonti a nostra disposizione risulta che il Papa fu informato della retata soltanto la mattina del 16, quando ormai l’operazione era terminata, e le vittime si trovavano in stato di arresto presso il Collegio Militare sul Lungotevere. Immediatamente il Papa, attraverso il Segretario di Stato, presentò all’ambasciatore della Germania presso la Santa Sede, E. von Weizsäcker, le sue più vive rimostranze per quanto la notte precedente era accaduto nella città eterna. «È doloroso per il Santo Padre — disse il cardinale Maglione —, doloroso sopra oltre ogni dire che proprio a Roma, sotto gli occhi del Padre Comune, siano fatte soffrire tante persone unicamente perché appartengono ad una stirpe determinata»[14]. A queste parole l’ambasciatore pose al cardinale la seguente domanda: «Che cosa farebbe la Santa Sede se le cose avessero a continuare?». Maglione rispose con decisione: «La Santa Sede non vorrebbe essere messa nella necessità di dire la sua parola di disapprovazione»[15].
Lo stesso giorno il Papa inviò urgentemente suo nipote, Carlo Pacelli, da mons. Aloys Hudal, rettore della chiesa nazionale tedesca di Roma e amico di alcuni alti gerarchi nazisti del Reich, perché intercedesse presso di essi in favore degli arrestati e perché le retate contro gli ebrei non si ripetessero un’altra volta. Il generale Stahel, al quale il monsignore si era rivolto, pare abbia trasmesso subito un messaggio di Hudal alle autorità competenti e allo stesso Himmler, che avrebbe dato l’ordine di sospendere gli arresti, in considerazione del carattere particolare della città di Roma[16]. In ogni caso la retata terminò bruscamente così come era iniziata e 8.000 ebrei romani ebbero miracolosamente salva la vita, ma la sorte degli oltre mille ebrei «rastrellati» la notte tra il 15 e il 16 ottobre era ormai segnata; per essi infatti non c’era nulla da fare, anche perché l’ordine era partito dal quartiere generale del Führer e quindi non poteva essere in nessun modo annullato[17]. Qualche giorno dopo i prigionieri furono ammassati nei vagoni ferroviari e subito dopo avviati verso i campi di sterminio. Anche successivamente la Santa Sede si diede da fare, utilizzando pure la via diplomatica, per chiedere informazioni sui deportati o per far pervenire loro pacchi contenenti indumenti pesanti per l’inverno che si avvicinava o altre cose simili preparate dalla comunità israelitica di Roma, ma purtroppo tutto fu inutile.
Nei giorni successivi alla retata gli ebrei romani si misero in salvo o abbandonando la città, cercando rifugio nelle campagne vicino a Roma, oppure trovando accoglienza nelle numerose case religiose della città, nelle parrocchie e negli edifici extraterritoriali di proprietà della Santa Sede. Tutto questo fu possibile perché il Papa stesso permise ai religiosi, alle religiose e ai sacerdoti romani di aprire le loro case ai «fratelli bisognosi». Proprio a questo fa riferimento il Diario della Civiltà Cattolica quando nella già citata nota del 1° novembre 1943 dice che «[il Papa] s’è anche interessato al bene degli ebrei».
Un recente Convegno svoltosi a Roma il 24 settembre scorso, organizzato dal coordinamento degli storici religiosi, si è occupato di questa materia, mettendo in piena luce, come si chiedeva da tempo, le «prove» del coraggioso impegno di tante comunità religiose e parrocchie cittadine nell’opera di salvataggio degli ebrei romani. Dalla ricca documentazione presentata risulta che non meno di 4.000 ebrei trovarono rifugio nelle case religiose dell’Urbe. Secondo la storica suor G. Loparco, una delle organizzatrici del Convegno, nei giorni appena successivi al 16 ottobre molti istituti religiosi furono letteralmente invasi dagli ebrei; all’inizio essi «si dirigono — commenta la studiosa — verso gli istituti più vicini all’ex ghetto. Man mano invece, si spostano in periferia, pensando di essere più sicuri. Così anche gli Istituti più periferici conoscono le ondate di questa sorta di esodo»[18].
Come è noto, oltre agli ebrei perseguitati, anche numerosi uomini politici, carabinieri, ufficiali del regio esercito trovarono rifugio presso case religiose; per esempio, erano ospitati presso il palazzo extraterritoriale di San Giovanni in Laterano i componenti del Comitato di Liberazione Nazionale di Roma al completo, tra i quali c’era anche il socialista Pietro Nenni. In verità già diversi anni prima la Santa Sede aveva dato ospitalità ad alcuni importanti uomini politici perseguitati dal regime fascista nelle case sottoposte alla sua giurisdizione. Il caso più celebre è quello del leader ex popolare, poi democristiano, Alcide De Gasperi, che per diversi anni dimorò dentro le mura vaticane, nonostante le continue rimostranze del regime, lavorando come bibliotecario nella Biblioteca Apostolica Vaticana.
Va anche ricordato che tale opera di salvataggio degli ebrei romani e dei ricercati politici creò non poche tensioni nei rapporti tra Vaticano e occupanti tedeschi, i quali non erano ignari — come è stato dichiarato anche da alcuni gerarchi nazisti al processo di Norimberga — dell’aiuto che la Santa Sede prestava a questi ricercati. Il Papa in un’udienza del 27 dicembre 1943 al p. Martegani, lamentandosi delle perquisizioni operate nella notte tra il 21 e il 22 dicembre dai tedeschi al Seminario Lombardo, al Russicum e all’Orientale, disse che ormai «non faceva più affidamento nella sicurezza dei rifugi ecclesiastici»[19], e che in ogni caso bisognava essere più guardinghi e prudenti nell’affrontare la questione dei «rifugiati», per non spingere i tedeschi ad azioni generalizzate di perquisizione negli istituti religiosi e nei palazzi di proprietà della Santa Sede. «Esercitare sì la carità — disse il Papa al p. Martegani — con tanti casi pietosi che si presentano, ma evitare l’uso di documenti falsi e di qualsiasi pur sola apparenza di frode»[20].
Tale cautela fu suggerita al Papa dalla vicenda del cappuccino francese p. Benoît Marie, il quale diresse (con base operativa situata in via Sardegna nel collegio internazionale del suo Ordine a Roma) un programma di assistenza clandestina agli ebrei, fornendo ai ricercati, fra l’altro, documenti di identità falsi. Il 19 novembre 1943 un funzionario italiano del Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione informò la Segreteria di Stato che il p. Benoît Marie sarebbe stato denunciato per la falsificazione di alcune carte annonarie recanti la sua firma e il timbro del suo ufficio. I beneficiari di questi documenti falsificati erano per la maggior parte ebrei, i quali, a detta del funzionario, avrebbero dovuto essere consegnati ai tedeschi insieme al cappuccino francese. A conclusione del suo colloquio in Vaticano, il funzionario accettò di insabbiare tutta la faccenda, ma a patto che il frate cessasse la sua attività «fraudolenta».
Come il Papa aveva temuto, nella notte fra il 3 e il 4 febbraio 1944, la polizia fascista, sotto il comando delle SS, fece irruzione nell’abbazia di San Paolo fuori le Mura, arrestando tutte le persone che vi erano rifugiate, molte delle quali indossavano l’abito religioso. La Santa Sede denunciò immediatamente al Governo tedesco la violazione del proprio territorio sottoposto a garanzie di diritto internazionale[0]: «Il Santo Padre si è mostrato molto addolorato per la violazione della Basilica extraterritoriale di San Paolo: almeno il modo è certo una patente violazione, perché bisognava assolutamente chiedere prima al Vaticano gli eventuali ricercati. L’autorità tedesca dice di non saper nulla dell’ordine eseguito»[0]. In realtà la strategia usata in quell’occasione dalla polizia nazifascista seguiva alla lettera l’indicazione che una volta Hitler espresse a un suo ufficiale su come bisognava agire con il Vaticano, e cioè entrare senza timore nei sacri palazzi, fare quello che doveva essere fatto e poi alla fine presentare le scuse al Papa.
I cardinali Ottaviani e Boetto e gli ebrei
I protagonisti principali di tale operazione di salvataggio degli ebrei romani furono per lo più semplici religiosi e religiose, sacerdoti e laici coraggiosi. Tra essi troviamo però anche monsignori e alti prelati, come, per esempio, mons. Alfredo Ottaviani, poi cardinale e segretario della Sacra Congregazione del Sant’Uffizio, e l’arcivescovo di Genova, card. Pietro Boetto, gesuita. L’impegno del monsignore romano a sostegno degli ebrei perseguitati risulta da un documento, finora inedito, nel quale il «tenente colonnello Battistelli Mario» denunciava alla Segreteria di Stato l’attività filo-ebraica svolta a Roma dall’ecclesiastico. Egli avvertiva, inoltre, di aver denunciato l’attività di mons. Ottaviani all’autorità occupante. «Come mai mons. Ottaviani — scriveva il Battistelli — rilascia agli ebrei certificati di battesimi e di arianità? Così facile e comodo si può diventare cristiani pur non abiurando alla religione ebraica? Che fede possono avere i veri cattolici quando si è constatato che del cattolicesimo se ne fa un mercato? Come mai mons. Ottaviani ha accolto nei Palazzi Lateranensi e negli annessi collegi ebrei ricercati? I nomi si conoscono sia di quelli che hanno ottenuto i certificati di battesimo sia di quelli che sono stati nascosti nei collegi al coperto della Guardia Palatina e in proposito si è creduto opportuno informare il comando tedesco e il Partito Repubblicano Fascista»[23].
Per quanto riguarda invece il cardinale Boetto, da alcune fonti documentali sappiamo che egli si fece carico delle sofferenze degli ebrei e cercò come poteva di andare loro incontro. Una testimonianza in questo senso ci è data dall’ebreo Giorgio Nissim — «Il ragioniere che salvò 800 ebrei» titolava un recente articolo apparso sul Corriere della Sera dedicato alla sua vicenda —, il quale a partire dal 1940 fino al 1943 ricoprì diversi incarichi nell’organizzazione toscana della Delasem, creata dall’Unione delle comunità israelitiche per dare assistenza ai profughi ebrei internati nei campi di concentramento italiani. Una volta sciolta l’organizzazione fiorentina (molti dei suoi capi furono infatti arrestati), Nissim iniziò a collaborare con alcuni sacerdoti di Lucca, impegnati a prestare soccorso agli ebrei della regione[24]. Nel suo Diario — del quale sono state pubblicate alcune anticipazioni — Nissim parla anche dei contatti che ebbe nel 1943 con il cardinale Boetto: «Andavo a Genova — scriveva il ragioniere — con mezzi di fortuna per ritirare il denaro da don Repetto, segretario dell’arcivescovo, poi consegnavo le somme a don Paoli».
Un documento inedito conservato nel nostro archivio ci informa dell’opera di assistenza svolta dal cardinale in favore degli ebrei romani, in particolare di quelli che dopo il 16 ottobre 1943 avevano lasciato Roma e si erano rifugiati, per paura dei tedeschi, nelle vicinanze dell’Urbe. Si tratta di un appunto datato 31 luglio 1944 (avente valore dichiarativo) redatto da un funzionario della Nunziatura in Italia; in esso è scritto: «Mons. Bagnoli, vescovo di Avezzano, è venuto qui in Nunziatura e mi ha consegnato la somma di 15.000 lire, ricevute dall’Eminentissimo Boetto, arcivescovo di Genova, per sussidiare gli ebrei bisognosi dimoranti in diocesi. Non gli è stato possibile distribuire la somma in parola poiché, per paura dei tedeschi, gli ebrei si occultano completamente, né valse a rintracciarli il vivo interessamento dei singoli parroci. Mi onoro pertanto di rimettere all’Eccellenza Vostra Reverendissima le 15.000 lire»[25].
Tale opera di assistenza fu svolta nel silenzio e nel nascondimento — come certamente molte altre azioni compiute dallo stesso arcivescovo o da altri — e soltanto per caso risulta testimoniata da un documento, redatto per uso interno della Nunziatura. Ci sorprende, però, che l’opera meritoria che il cardinale Boetto svolse in favore degli ebrei perseguitati durante il periodo di occupazione nazista non sia stata sufficientemente messa in luce dalla pubblicistica che si occupa della materia. Anche di questo, pensiamo, potrebbero occuparsi alcuni giornalisti, anziché, come è accaduto la scorsa estate a Genova[26], andare alla ricerca di notizie storiche sensazionali, della cui attendibilità c’è da dubitare, e che gettano discredito sulla Chiesa di quella città, che, anche in tempi difficili, come abbiamo visto, diede prova di coraggio e di generosità anche verso i «lontani».
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[1] ARCHIVIO DELLA CIVILTÀ CATTOLICA (ACC), Diario delle consulte di Civiltà Cattolica, 28 giugno 1943. Su questa materia si vedano i numerosi documenti di parte vaticana in Actes et Documents du Saint Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale (ADSS), Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 1965-81.
[2] ACC, Diario delle consulte,14 giugno 1943. In altre udienze il Papa ritorna a parlare dei bombardamenti: «Anche per l’eccidio di Castelgandolfo — si legge nel Diario — operato dai bombardamenti anglo-americani, il Santo Padre è molto indignato. Roosevelt aveva promesso impegno solenne, e aveva dato assicurazioni ripetute, di voler evitare cose simili sulle zone della Santa Sede. Anzi il Papa condanna tutto il sistema dei bombardamenti sui civili, come fanno gli anglosassoni; ed è veramente addolorato che, in particolare nei riguardi di Roma, ci siano anche autorevoli cattolici inglesi a chiedere quei procedimenti» (ivi, 14 febbraio 1944). E ancora: «Il Santo Padre s’è intrattenuto nel suo discorso di ieri agli sfollati dal balcone di San Pietro. Ha accennato alle molte difficoltà già superate per aiutare Roma […]. Ha detto poi che le sue energiche proteste per i bombardamenti di Roma sono state raccolte in America, ma non in Inghilterra. Il Santo Padre ancora una volta ha ripetuto la sua volontà di aiutare per l’approvvigionamento di Roma, ma ha anche notato le difficoltà; fra l’altro ci sono stati camions presi dai ribelli italiani» (ivi, 13 marzo 1944).
[3] Ivi, 1° novembre 1943.
[4] Ivi.
[5] Ivi, 1° maggio 1943.
[6] Il generale Badoglio, il giorno stesso in cui veniva reso pubblico l’armistizio, inviò alla Santa Sede, attraverso l’ambasciatore italiano, un lungo comunicato nel quale egli illustrava le condizioni che lo spingevano a compiere quel passo: «Prego V. E. fare conoscere codesto Governo seguente comunicazione: “Nell’assumere il Governo d’Italia al momento della crisi provocata dalla caduta del regime fascista, la mia prima decisione e il conseguente primo appello che io rivolsi al popolo italiano fu di continuare la guerra per difendere il territorio italiano dall’imminente pericolo di una invasione nemica. Non mi nascondevo la gravissima situazione nella quale si trovava l’Italia, le sue deboli possibilità di resistenza, gli immensi sacrifici ai quali essa doveva andare ancora incontro. Ma su queste considerazioni prevalse il sentimento di dovere che ogni uomo di Stato responsabile ha verso il suo popolo: quello di evitare cioè che il territorio nazionale diventi preda dello straniero. E l’Italia ha continuato a combattere, ha continuato a subire distruttivi combattimenti aerei, ha continuato ad affrontare sacrifici e dolori, nella speranza di evitare che il nemico, già padrone della Sicilia — perdita delle più gravi e delle più profondamente sentite dal popolo italiano — potesse passare nel continente. Malgrado ogni nostro sforzo ora le nostre difese sono crollate. La marcia del nemico non ha potuto essere arrestata. L’invasione è in atto. L’Italia non ha più forza di resistenza. Le sue maggiori città, da Milano a Palermo, sono o distrutte o occupate dal nemico. Le sue industrie sono paralizzate. La sua rete di comunicazioni, così importante per la sua configurazione geografica, è sconvolta. Le sue risorse, anche per la gravissima crescente restrizione delle importazioni tedesche, sono completamente esaurite. Non esiste punto del territorio nazionale che non sia aperto all’offesa del nemico, senza una adeguata capacità di difesa, come dimostra il fatto che il nemico ha potuto sbarcare — come ha voluto, dove ha voluto e quando ha voluto — un’ingente massa di forze, che ogni giorno aumentava di quantità e di potenza, travolgendo ogni resistenza e rovinando il Paese. In queste condizioni il Governo Italiano non può assumere più oltre la responsabilità di continuare la guerra che è già costata all’Italia, oltre alla perdita del suo Impero coloniale, la distruzione delle sue città, l’annientamento delle sue industrie, della sua marina mercantile, della sua rete ferroviaria, e finalmente l’invasione del proprio territorio. Non si può esigere da un popolo di continuare a combattere quando qualsiasi legittima speranza, non dico di vittoria, ma financo di difesa si è esaurita. L’Italia, ad evitare la sua totale rovina, è pertanto obbligata a rivolgere al nemico una richiesta di armistizio”». (Copia di questo documento è conservata nel nostro archivio: ACC, Fondo non ordinato). Colpisce, nel Comunicato di Badoglio, l’insistenza con la quale egli definisce «nemico» (per ben sei volte nel testo) l’esercito anglo-americano e considera la sua avanzata nel meridione della penisola come una rovina per la nazione, mentre nessuna parola di condanna è rivolta all’ex alleata, la Germania hitleriana.
[7] ACC, Diario delle consulte, 11 ottobre 1943.
[8] Ivi, 31 gennaio 1943. Ci furono anche vescovi che criticarono l’atteggiamento troppo remissivo con cui i capi militari italiani lasciarono una parte del Paese in mano agli occupanti, tra questi il vescovo di Alatri, mons. Facchini, che, in un’omelia tenuta il 30 gennaio 1944 nella cattedrale della sua diocesi, avrebbe detto «che era necessario mostrare ai tedeschi i denti, in quanto, se così fosse stato fatto fin dall’8 settembre, la popolazione non si troverebbe in questa situazione». Per tale dichiarazione apertamente antitedesca, e quindi di carattere politico, fu richiamato dalla Segreteria di Stato.
[9] ACC, Fondo non ordinato. Il documento, finora mai pubblicato, è datato 18 ottobre 1943.
[10] Ivi. Continua: «Riferiva, inoltre, che la sera precedente aveva lungamente parlato al Comandante Tedesco Kesselring e che questi aveva promesso di diramare, nella sera stessa, un ordine alle sue truppe di rispettare le chiese».
[11] Si legge nella relazione del Nunzio a proposito della fuga in Svizzera di molti italiani di sentimenti antifascisti: «I carabinieri e finanzieri, in generale, fecero di tutto per aiutare i fuggitivi, accompagnandoli fino al punto buono e anche alzando la rete di confine per metterli in salvo: anzi, il passo di Ponte Tresa rimase, da parte italiana, per qualche giorno del tutto incustodito, permettendo un largo esodo di fuggiaschi. Uguale benevolenza dimostrarono i finanzieri e i soldati svizzeri. L’autorità svizzera provvide subito ad impedire che profughi sostassero in case private, temendo, fra l’altro, l’opera di propaganda, soprattutto comunista, di taluni tra essi». (ACC, Fondo non ordinato).
[12] Ivi.
[13] Su questa vicenda si veda S. ZUCCOTTI, Il Vaticano e l’Olocausto in Italia, Milano, Bruno Mondadori, 2001; M. L. NAPOLITANO, Pio XII tra guerra e pace. Profezia e diplomazia di un papa (1939-1945), Roma, Città Nuova, 2002.
[14] ADSS, IX, 505.
[15] Ivi.
[16] Cfr P. BLET, Pio XII e la seconda guerra mondiale, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo,1999, 282.
[17] Secondo R. Katz tale ordine fu dato direttamente da Hitler. Ciò si ricaverebbe, secondo lo storico, da un telegramma dell’ambasciatore a Roma, E. F. Mollhausen, indirizzato a von Ribbentrop e intercettato da un agente americano e immediatamente ritrasmesso a Washington, nel quale apparirebbe la dizione «in base alle istruzioni del Führer». «Per quanto mi riguarda — commenta Katz — è la prova più esplicita sulla conoscenza diretta dell’Olocausto da parte di Hitler, uno dei punti su cui insiste la propaganda negazionista» (in Sette, 28 agosto 2003). La vicenda è minuziosamente ricostruita nel recente libro di R. KATZ, Roma città aperta. Settembre 1943-Giugno 1944, Milano, il Saggiatore, 2003, 106-114.
[18] In Avvenire, 23 settembre 2003, 29.
[19] ACC, Diario delle consulte, 27 dicembre 1943.
[20] Ivi, 1° gennaio 1944.
[21] Così un giornale fascista di Livorno commentava l’opera che il clero italiano svolgeva a favore dei perseguitati del regime nazifasciata: «Molti traditori e nemici interni del nostro partito hanno trovato asilo tra i religiosi. L’istituto dei Preti Lombardi in Roma, il collegio di San Paolo, i conventi dei gesuiti, il monastero delle clarisse di San Quirico, le sacrestie di Torino. Hanno dato prova non refutabile di intesa con il banditismo e la criminalità […]. Il fascismo ha un grave torto presso la Chiesa: quello di averla rispettata e protetta. Quello cioè di averle reso troppo comoda l’esistenza. La Chiesa ha invece bisogno di un poco di persecuzione. Se il fascismo qualche volta l’avesse colpita! Il nostro torto è ventennale, tuttavia — scusate — e se provassimo a porvi rimedio?». Corsivo del Telegrafo, 23 aprile 1944.
[22] ACC, Diario delle consulte, 14 febbraio 1944.
[23] ACC, Fondo non ordinato. La lettera è datata 1° marzo 1944.
[24] Di tale organizzazione faceva parte anche il noto ciclista Gino Bartali (che nel 1938 aveva vinto il Tour de France). Il suo compito, racconta il figlio Andrea, «era quello di portare nella tipografia le foto e le carte per fabbricare i documenti falsi. Arrivava al convento, smontava la bici, infilava il materiale nella canna centrale e ripartiva» (in Corriere della Sera, 3 aprile 2003).
[25] ACC, Fondo non ordinato.
[26] Il quotidiano genovese Il Secolo XIX ha accusato questa estate il cardinale Giuseppe Siri, che successe al cardinale Boetto nella sede episcopale di Genova, e alcuni sacerdoti della diocesi di aver organizzato o coperto, negli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale, la fuga di alcuni criminali nazisti, o ustascia, i quali — secondo il giornale — con passaporti falsi si imbarcarono dal porto di Genova diretti verso l’Argentina. Di tale attività illecita che il cardinale Siri avrebbe svolto in favore dei fuggiaschi, però, non c’è nessuna traccia né negli archivi diocesani di Genova né altrove.