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La preparazione del messaggio papale
La seconda guerra mondiale ebbe termine con la scomparsa dell’uomo che ne era stato la causa, cioè con il suicidio di Hitler avvenuto il 30 aprile 1945 nel bunker di Berlino, dove si era rifugiato negli ultimi tempi per sfuggire ai bombardamenti alleati sulla capitale del «Reich millenario». Formalmente però essa si concluse, almeno in Europa, con la capitolazione della Germania il 7 maggio 1945, la quale fu firmata a Reims dal generale A. Jodl, che pare abbia sussurrato subito dopo averla sottoscritta: «È quello che da lungo tempo aspettavamo». L’annuncio ufficiale fu diffuso soltanto il pomeriggio del giorno successivo e fu accolto con tripudi di gioia nelle maggiori capitali delle potenze vincitrici, in particolare negli Stati Uniti, le cui città non erano state bombardate. «New York è impazzita», scriveva il Daily Mirror. Il londinese Evening News riferì che 200 tonnellate di stelle filanti «fluttuarono come farfalle dalle finestre più alte di Manhattan». Winston Churchill il giorno stesso parlò alla radio al popolo britannico, duramente provato da sei anni di guerra, per annunciare la vittoria degli eserciti alleati: ormai, disse, i malfattori «sono prostrati davanti a noi». La Germania, invece, era in preda alla confusione e al disordine: ormai era un nazione vinta, sottomessa, senza più un Governo proprio, senza un punto di riferimento per milioni di persone abbandonate alla mercé dei vincitori: in Germania, scrisse un corrispondente di guerra inglese, «non c’è nient’altro se non la distruzione. Quello che una volta era lo Stato tedesco è ora un vuoto al centro dell’Europa»[1].
In questo modo ebbe termine la guerra più sanguinosa che l’umanità avesse conosciuto, sia per il numero dei caduti sia per la forza distruttrice degli armamenti in essa utilizzati: milioni di persone, militari e civili, trovarono la morte sui teatri di battaglia, oltre che nei campi di sterminio, o nelle città a causa dei bombardamenti aerei. La guerra, divenuta presto totale, aveva infatti eliminato la tradizionale distinzione tra «fronte esterno» o militare e «fronte interno», costituito dai civili inermi, rendendo in tal modo tutti vulnerabili e ugualmente esposti alla morte. Approfittando della guerra, inoltre, i nazisti misero in esecuzione il folle progetto di «soluzione finale» degli ebrei europei: la macchina della morte programmata per il genocidio di un intero popolo lavorò quasi indisturbata soprattutto negli ultimi anni di guerra, favorita dalla complicità dei Governi filonazisti, oltre che dalla confusione, dall’ignoranza o dall’inerzia di molti.
Il 9 maggio 1945, il giorno successivo all’annuncio della resa incondizionata della Germania, Pio XII indirizzò al mondo un breve radiomessaggio ricordando innanzitutto le vittime di quella immane tragedia: «Inginocchiati in spirito dinanzi alle tombe, ai burroni sconvolti e rossi di sangue, ove riposano le innumerevoli spoglie di coloro che sono caduti vittime dei combattimenti o dei massacri disumani, della fame o della miseria, Noi li raccomandiamo tutti nelle Nostre preghiere […] al misericordioso amore di Gesù Cristo loro Salvatore e loro Giudice». Egli, inoltre, incoraggiò i popoli a lavorare alacremente per «riedificare il mondo», eliminare al più presto il caos materiale e spirituale prodotto dalla guerra e gettare le basi per una convivenza pacifica tra le nazioni, improntata al rispetto dei diritti di tutti. «È ardua certamente — continuava il Papa —, ma è pur santa l’impresa che vi attende per riparare gl’immediati e disastrosi effetti della guerra: vogliamo dire il disfacimento dei pubblici ordinamenti, la miseria e la fame, il rilassamento e l’imbarbarimento dei costumi, l’indisciplinatezza della gioventù. In tal guisa […] voi preparate alle vostre città e ai vostri villaggi […] una sorte più accettevole e il vigore di un sangue rinnovato»[2]. Va sottolineato che il breve radiomessaggio augurale del Papa, benché intenso e interiormente sentito, fu più di circostanza che, potremmo dire, di contenuto. Egli intenzionalmente lasciò a un successivo messaggio — cioè all’allocuzione che avrebbe tenuta davanti al collegio cardinalizio in occasione del suo onomastico (il 2 giugno, festa di sant’Eugenio) — il delicato compito di sviluppare con maggiore ampiezza i temi della responsabilità della guerra e della necessaria costruzione della pace.
Dalla documentazione di parte ecclesiastica risulta che negli ambienti della diplomazia, e non soltanto in essa, si guardava con interesse a ciò che il Papa avrebbe detto nei suoi messaggi augurali per la fine della guerra. L’ambasciatore della Germania presso la Santa Sede, barone E. von Weizsäcker, era stato negli ultimi mesi di guerra molto attivo e si era fatto portavoce presso la Santa Sede delle richieste del suo Governo, perché appoggiasse presso gli Alleati il progetto tedesco circa la creazione di un nuovo fronte occidentale contro il bolscevismo. «Scopo della Russia — disse in un incontro del 20 febbraio 1945 l’ambasciatore tedesco a mons. Tardini — è di assoggettare la Germania e di bolscevizzare tutta l’Europa, sottomettendola al dominio russo […]. La Germania è già quasi avviata verso il comunismo, perché le distruzioni, le peregrinazioni di milioni di persone hanno ridotto tutto il popolo a una specie di uguaglianza nella miseria»[3]. L’Europa — continuava — ha bisogno di una «situazione di equilibrio generale», ma per costruirlo non si può fare a meno della Germania, salvo che non la si voglia consegnare interamente a Stalin. Disse poi che il regime non intendeva più perseguitare la Chiesa e che il progetto nazista di espansione territoriale era stato male interpretato dagli occidentali: la Germania infatti intendeva soltanto assicurare entro confini certi tutta la popolazione di lingua tedesca. Circa la questione degli ebrei, disse che poteva «essere regolata d’intesa con le altre Nazioni».
Il 25 febbraio l’ambasciatore della Germania ritornò dal Sostituto per perorare ancora la sua causa, chiedendo che le richieste del suo Governo fossero presentate agli Alleati non come proposte ufficiali, ma soltanto come semplici informazioni, avute da «une source quelconque». Precisò poi la sua richiesta, destando stupore nell’interlocutore, in questi termini: «O gli Alleati Occidentali si rendono conto del pericolo comunista e, quindi, a) finiscono la loro azione militare per terra e aria contro la Germania […] in modo che i tedeschi possano cacciare i russi e così: b) si potrà avere una pace di conciliation e si eviterà una terza guerra; o la Germania si getterà tra le braccia del comunismo con danno enorme dell’Inghilterra e degli Stati Uniti». Mons. Tardini, dal canto suo, disse senza troppi complimenti al diplomatico tedesco che gli Alleati non avrebbero accettato nessun compromesso con i nazisti e che la Santa Sede, agendo come le veniva chiesto, avrebbe dato l’impressione «di voler salvare in extremis il nazismo con il quale gli Alleati non vogliono trattare»[4], dando così ai comunisti un’arma in più per attaccare la Chiesa e per screditarla davanti all’opinione pubblica mondiale. Da un appunto della Segreteria di Stato risulta inoltre che, nell’udienza del 1° marzo 1945, il Papa chiese, fra le altre cose, al rappresentante personale del presidente Roosevelt, M. Taylor, se ci fosse una lontana possibilità di conversazioni «con la Germania o per la Germania» allo scopo di porre fine alla guerra. «S. E. Taylor — è scritto nell’appunto — esclude qualsiasi possibilità di intesa o di conversazioni. Nient’altro che unconditional surrender»[5].
Alcuni giorni prima della capitolazione militare della Germania, l’ambasciatore tedesco — venuto a conoscenza che il Papa, firmata la resa, avrebbe parlato al mondo attraverso un radiomessaggio e che in ogni caso nella ricorrenza del suo onomastico avrebbe pronunciato un’allocuzione ai cardinali sul tema della guerra passata — intervenne presso mons. Tardini per fargli presente la difficile situazione morale e materiale in cui si trovava la Germania, perché su questo tema illuminasse la mente del Papa. «A questo riguardo — si legge in un appunto del Responsabile dell’allora I Sezione della Segreteria di Stato — egli si permette di far rilevare quanto ci sia bisogno di guardare all’avvenire piuttosto che al passato, e piuttosto che infierire sui “criminali di guerra” e dare in pascolo alla pubblicità le documentazioni degli orrori passati, si debba piuttosto pensare se non vi siano dei “criminali di pace”, e cioè di quelli che fanno di tutto per prolungare i sentimenti di odio, che ora dovrebbero essere piuttosto sedati e sostituiti con sentimenti più buoni e più atti a ricondurre la pace nel mondo». Continuava poi affermando che ciò che si stava facendo per il dopoguerra, come, ad esempio, la Conferenza di San Francisco[6], non poteva certo giovare alla futura pace tra le nazioni. «Egli confida pertanto — scriveva mons. Tardini — che se Sua Santità avesse a parlare in questa circostanza, venga dalle Sue parole un invito che rassereni gli spiriti e che li induca a pensieri diversi da quelli che la propaganda va agitando per tener vivo l’odio e il risentimento»[7].
Di ben altro tenore era invece la richiesta che il nuovo ambasciatore francese presso la Santa Sede, J. Maritain, facendosi interprete dei desideri del suo Governo, aveva presentato alla Segreteria di Stato. Maritain soltanto di recente (cioè il 10 maggio) aveva presentato al Papa le sue lettere credenziali, mentre la sua nomina era stata accettata in Vaticano con qualche riserva, sebbene egli fosse uno dei maggiori filosofi cattolici. Il generale de Gaulle, al quale il nunzio a Parigi, mons. A. Roncalli, aveva cercato di far intendere la sorpresa che c’era in Vaticano per quella nomina inaspettata, disse che la nomina di Maritain ad ambasciatore francese presso la Santa Sede sarebbe durata soltanto pochi mesi, «e che egli pensava di sostituirlo, in circostanze meglio chiarite, con un personaggio più qualificato e già provato della miglior tradizione della diplomazia Francese»[8]. In realtà non andò proprio così: Maritain, che aveva accettato quell’incarico non troppo volentieri, lo ricoprì fino al 14 giugno 1948, cioè per tre anni.
Il 25 maggio 1945 l’ambasciatore francese comunicò alla Segreteria di Stato il punto di vista del suo Governo sulla delicata materia del trattamento da riservare alla «questione tedesca». Egli infatti sapeva che nella festa per il suo onomastico, come era avvenuto anche in passato, il Papa avrebbe pronunciato un’allocuzione sui temi della guerra e della riconciliazione tra le nazioni, e che essa avrebbe avuto risonanza mondiale. A tale proposito si legge in un appunto di mons. Tardini: «L’ambasciatore Maritain dice che sarebbe giunto il momento di dire una parola non solo di rammarico e di conforto, ma anche di deplorazione delle atrocità commesse dai tedeschi, e dei sistemi scientifici impiegati per torturare e sopprimere le persone, spessissime volte innocenti. L’opinione pubblica attende d’essere confortata nel suo giudizio morale nel vedere che la Chiesa condanna cose così inumane e che anche in questa contingenza, decisiva per l’orientamento spirituale di molte coscienze, le dottrine di Cristo coincidono con le supreme necessità della vita morale ed umana»[9].
Le rimostranze dei due ambasciatori furono presto riferite a Pio XII, generalmente molto attento alle richieste delle grandi potenze in materia politica e di tutela dei diritti umani. Esse influirono sensibilmente sulla redazione del messaggio papale per la festa di sant’Eugenio, suggerendone non soltanto alcuni contenuti, ma anche particolari prospettive di lettura. Ricordiamo che alcuni passaggi dell’allocuzione prendono a prestito espressioni indicate nelle due note. Sebbene le rimostranze degli ambasciatori fossero di tono e di contenuto diverso, esse esprimevano bene alcune preoccupazioni che in quel momento stavano molto a cuore al Papa e delle quali avrebbe trattato nel prossimo messaggio. Questo, come vedremo, si richiamava idealmente all’enciclica contro il nazismo del suo predecessore Pio XI, la Mit brennender Sorge del 1937, alla redazione della quale egli, che a quel tempo era Segretario di Stato, aveva collaborato attivamente.
L’allocuzione di Pio XII ai cardinali per la festa di sant’Eugenio
«In Europa la guerra è finita»; voi vedete — disse il Papa nell’allocuzione ai cardinali trasmessa dalla Radio Vaticana — che essa lascia dietro di sé una concezione e un’attività dello Stato, la quale non tiene in nessun conto i sentimenti più sacri dell’umanità e calpesta i princìpi della fede cristiana e i diritti della Chiesa. «Il mondo intero stupito contempla oggi la rovina che ne è derivata». Rovina che «noi avevamo veduta venir di lontano» durante la nostra lunga permanenza in Germania «per dovere dell’ufficio commessoCi». In quegli anni si ebbe l’occasione di conoscere a fondo «le grandi qualità del popolo tedesco» e l’intelligenza e lungimiranza dei suoi rappresentanti. «Perciò nutriamo fiducia che esso possa risollevarsi a nuova dignità e a nuova vita, dopo aver respinto da sé lo spettro satanico esibito dal nazionalsocialismo, e dopo che i colpevoli […] avranno espiato i delitti da loro commessi». Da notare che il Papa mentre invocava per il popolo tedesco nuova dignità e nuova vita, ammetteva come legittima la giusta punizione dei colpevoli per i delitti commessi nel tempo di guerra. Egli però condannava ogni tentativo di addebitare indiscriminatamente al popolo tedesco — come chiedevano alcuni, accecati dall’odio e dal sentimento di vendetta — la responsabilità dei crimini compiuti in tutta Europa dai nazisti.
In tale solenne messaggio intitolato «Nefasti del nazionalsocialismo e requisiti essenziali per una vera pace»[10], Pio XII si sentì in dovere di dare ragione dei motivi che spinsero la Santa Sede nell’estate del 1933 — cioè a pochi mesi dall’ascesa al potere del nazionalsocialismo in Germania — a sottoscrivere un Concordato con il nuovo regime. Egli sapeva infatti che la stampa comunista e anticattolica addebitava al Papa la responsabilità di aver aiutato Hitler a consolidare il suo potere in Germania. Nell’allocuzione è detto che la proposta di stipulare il Concordato partì non da Roma, ma dal Governo del Reich. Governo che, sebbene non godesse delle simpatie della Santa Sede e dei vescovi tedeschi a motivo delle dottrine anticristiane da esso professate, era pienamente legittimo in quanto investito legalmente del potere. «Non è che la Chiesa, dal canto suo, si lasciasse illudere da eccessive speranze, né che con la conclusione del Concordato intendesse in qualsiasi modo approvare la dottrina e le tendenze del nazionalsocialismo […]. Tuttavia bisogna riconoscere che il Concordato negli anni seguenti procurò qualche vantaggio, o almeno impedì mali maggiori»[11]. Tuttavia, come è ormai tristemente noto, il Concordato non impedì che negli anni successivi i diritti della Chiesa fossero apertamente disconosciuti, anzi calpestati: le organizzazioni cattoliche furono soppresse, le scuole confessionali chiuse, le congregazioni religiose sciolte, il clero attaccato in ogni modo e screditato sia sui giornali sia nelle aule dei tribunali; in tal modo la pratica religiosa in Germania divenne col tempo impossibile.
Tale sistema demoniaco — continuava il Papa — fu svelato al mondo per quello che realmente era dall’enciclica Mit brennender Sorge; in essa il nazionalsocialismo era definito come «apostasia orgogliosa da Gesù Cristo e dalla sua redenzione», culto della forza, idolatria della razza e del sangue, oppressione della libertà e della dignità umana. In ogni caso, ammoniva Pio XII, nessuno può rimproverare alla Chiesa «di non aver denunciato e additato a tempo il vero carattere del movimento nazionalsocialista e il pericolo a cui esso esponeva la civiltà umana».
Nella sua allocuzione il Papa sottolineava che il nazismo non soltanto attaccò le dottrine della fede cristiana, ma fece di tutto per distruggere la Chiesa nei territori del Reich: anzi era espressa intenzione di Hitler, una volta riportate le vittorie militari, di farla finita per sempre con la Chiesa cattolica e con il cristianesimo in generale. «Testimonianze autorevoli ed ineccepibili Ci tenevano informati di questi disegni». «Continuando l’opera del Nostro Predecessore, Noi stessi durante la guerra non abbiamo cessato, specialmente nei nostri Messaggi, di contrapporre alle rovinose e inesorabili applicazioni della dottrina nazionalsocialista, che giungevano fino a valersi dei più raffinati metodi scientifici per torturare e sopprimere persone spesso innocenti, le esigenze e le norme indefettibili della umanità e della fede cristiana». Questo passo nell’economia del messaggio è di grande importanza: infatti attraverso queste parole il Papa intendeva, come gli era stato chiesto dall’ambasciatore francese Maritain, condannare tutti i crimini compiuti dai nazisti, in particolare quelli posti in essere con «raffinati metodi scientifici» nei campi di sterminio dove milioni di persone furono barbaramente uccise. L’allusione alla soluzione finale posta in esecuzione dai gerarchi nazisti contro gli ebrei europei risulta, a nostro avviso, suggerita in questo passo. Dal punto di vista dell’espressione, su tale punto il Papa riprese quasi alla lettera le parole dell’ambasciatore Maritain.
Subito dopo egli ricordò il sacrificio di migliaia di sacerdoti cattolici trucidati nei campi di concentramento nazisti, in particolare in quello di Dachau. «In prima linea, per il numero e per la durezza del trattamento, si trovavano i sacerdoti polacchi. Dal 1940 al 1945 furono imprigionati nel campo medesimo 2.800 ecclesiastici e religiosi di quella nazione, fra i quali il Vescovo ausiliare di Wladislavia, che vi morì di tifo. Nell’aprile scorso ve ne erano rimasti soltanto 816, essendo tutti gli altri morti».
Nell’ultima parte del messaggio il Papa auspicava non soltanto il ripristino integrale di tutti i diritti naturali violati, ma metteva anche in guardia dall’abbandonarsi al sentimento di sfiducia e di delusione per non cadere nella rete di coloro che predicavano la rivoluzione sociale e il disordine. Alle grandi potenze vincitrici ricordava poi i diritti delle piccole nazioni, perché non venissero dimenticati o disconosciuti, e auspicava che tutti i Paesi cooperassero attivamente per una nuova organizzazione della pace nel mondo. «Quale amara delusione sarebbe, se essa fallisse, se fossero resi vani tanti anni di sofferenza e di rinunce, lasciando nuovamente trionfare quello spirito di oppressione dal quale il mondo sperava di vedersi finalmente liberato per sempre». L’ultima parola del Papa è però per la Chiesa, nuovamente perseguitata in alcuni Stati dell’Europa dell’Est, ad opera di un nuovo esercito invasore: «Purtroppo abbiamo dovuto deplorare in più di una regione uccisioni di sacerdoti, deportazioni di civili, eccidi di cittadini senza processo o per vendetta privata; né meno tristi sono le notizie che Ci sono pervenute dalla Slovenia e dalla Croazia». Nelle parole del Papa, oltre alla deplorazione delle violenze perpetrate in quei giorni contro civili innocenti ad opera dell’armata rossa, è preconizzato il dramma della «Chiesa del silenzio», il suo lungo calvario vissuto dietro la silenziosa cortina di ferro che presto l’avrebbe separata dal resto del mondo.
Il messaggio papale e le sue interpretazioni
L’allocuzione del 2 giugno 1945 ebbe una vasta eco nel mondo, fu ascoltata attraverso la radio in molti Paesi da milioni di persone e fu ripresa dalla stampa, soprattutto europea, anche se con meno interesse rispetto ai tradizionali radiomessaggi natalizi. Va sottolineato che la parola del Papa in quel particolare momento fu, per così dire, interpretata secondo gli orientamenti ideologici e politici che nei vari Paesi si andavano già prefigurando: siamo cioè agli esordi della «guerra fredda», per il momento però ancora soltanto annunciata o temuta. La stampa moderata o di destra scrisse che il Papa nel suo messaggio aveva condannato il nazismo non soltanto, ma anche tutte le forme di totalitarismo, e quindi anche il comunismo, sebbene nell’allocuzione non si parlasse di questo esplicitamente. Invece la stampa di sinistra sottolineò le passate «complicità» della Santa Sede nei confronti dei regimi totalitari sconfitti militarmente, accusando il Papa di aver aiutato Mussolini, Hitler e altri leader fascisti a consolidare il loro potere.
In particolare, la stampa inglese rilevò con maggior vigore il carattere anticomunista del messaggio papale. Il Times fu il primo a sottolineare in un editoriale tale aspetto: «Il Papa ha parlato in modo altrettanto franco — scrisse il giornale londinese — circa il nazismo e il bolscevismo». Mons. G. Godfrey, delegato apostolico nel Regno Unito, scrisse in Vaticano dicendo che questo era anche l’orientamento generale della stampa inglese: «In fondo, malgrado le restrizioni che continuano ora, sebbene con evidente diminuzione, contro la critica ostile ai metodi di Stalin, sembra che il pensiero del Santo Padre sia stato ben inteso, e che si capisce che i pericoli di nuove tirannie e persecuzioni non sono ancora eliminati. Benché al tempo presente, la critica avversa ai metodi russi si faccia sempre più evidente nella stampa e nei discorsi pubblici, c’è sempre il timore che con una rottura fra gli Alleati la conservazione di una pace durevole diventerà una chimera»[12].
Negli Stati Uniti invece la stampa filogovernativa (New York Times, New York Telegraph, Washington Star ecc.) nel fare cenno al messaggio papale non toccò minimamente tali tasti; essa si limitò semplicemente a ripeterne il contenuto — così come trasmesso dalle grandi agenzie di stampa — senza particolari commenti. L’indirizzo seguito in quel momento dall’Amministrazione statunitense, e che poco dopo sarebbe radicalmente cambiato, consisteva nel tenere per il momento ben salda l’alleanza tra le potenze vincitrici, in particolare con l’Unione Sovietica, per farla partecipare alla rinascita della democrazia in Europa e assicurare la sua partecipazione alle nuove organizzazioni internazionali deputate al mantenimento della pace nel mondo.
Nella stessa direzione della stampa inglese si mosse anche quella svizzera, come, ad esempio, La Gazette de Lausanne, La Suisse, Le Journal de Genève e altri. Il settimanale irlandese The Standard, dopo aver trattato della persecuzione della Chiesa sotto il nazismo, attirava l’attenzione dei lettori sul pericolo grave del comunismo, «che fu già sorgente di orribili persecuzioni religiose in Russia, nella Spagna e nel Messico», e concludeva mettendo in evidenza l’instancabile opera del Papa nel contrastare le dottrine totalitarie, in particolare quella comunista[13]. Il giornale spagnolo filogovernativo Arriba, commentando le parole del Papa, affermava: «Nessuno può meravigliarsi che Sua Santità, dopo paziente e significativo silenzio, abbia elevato un anatema che chiude con altissima sanzione teorie già vinte militarmente. Però il Santo Padre ha saputo anche distinguere, ricordando le qualità del popolo tedesco e l’eroismo dei cattolici. Prendendo motivo dai fatti di Slovacchia e di Croazia, egli mette in guardia tutti sul pericolo del comunismo».
Come fu commentato invece il messaggio del Papa dalla stampa di sinistra, e in particolare da quella comunista? A questo riguardo il commento fatto da Radio Mosca il 7 giugno 1945 assunse un valore, per così dire, paradigmatico, nel senso che sintetizzava bene il punto di vista della sinistra radicale sull’attività della Santa Sede nel tempo della guerra. Il testo radiofonico fu certamente redatto da una persona che conosceva bene e da vicino i fatti vaticani, probabilmente da un comunista italiano residente in Russia. Qui ne riportiamo alcuni passi significativi, anche perché in essi troviamo già sviluppati alcuni motivi che diventeranno centrali nei decenni successivi nella polemica antipacelliana: «Chi ha udito il discorso del Papa in occasione della festa di sant’Eugenio — disse Radio Mosca — è rimasto oltremodo meravigliato nell’apprendere che il Vaticano, durante i trascorsi anni del predominio di Hitler in Europa, ha agito con coraggio e audacia contro i delinquenti nazisti. I fatti invece operati veramente dal Vaticano dicono il contrario. Del resto, se il Vaticano ha agito in questo modo, lo ha fatto per continuare la vigile politica di protezione di Hitler e di Mussolini. Per amore della verità ricorderemo alcuni passi e fatti […]. Nessuna atrocità compiuta dagli hitleriani ha suscitato lo sdegno e l’indignazione del Vaticano. Esso ha taciuto quando operavano le macchine tedesche della morte, quando fumavano i camini dei forni crematori, quando sulla pacifica popolazione di Londra venivano lanciate centinaia di proiettili volanti, quando la dottrina hitleriana di eliminazione o di sterminio di nazioni e popoli si trasformava in una dura realtà». Ora invece — continuava — il Papa riempie il suo discorso di allusioni contro l’Unione Sovietica e il comunismo internazionale per «provocare divergenze e seminare la sfiducia tra gli alleati», ma i primi commenti della stampa mondiale dimostrano che tale astuta manovra non è passata inosservata all’opinione pubblica. Inutile ricordare cha la stampa comunista internazionale, e non soltanto essa, si allineò supinamente alle direttive di Mosca su tale materia. In tal modo iniziò la leggenda nera, la quale in qualche misura è arrivata fino ai giorni nostri, di un Pio XII amico e alleato dei nazisti; del Papa di Roma sostenitore, per motivi di interesse politico, dei regimi totalitari fascisti e nemico giurato della democrazia popolare.
Conclusione
Perché Pio XII per l’allocuzione della festa di sant’Eugenio scelse il tema del rapporto tra Santa Sede e nazionalsocialismo? Pensiamo per tre motivi importanti, che in verità abbiamo in parte già rilevato.
1) Innanzitutto, per far conoscere al mondo il calvario che la Chiesa cattolica aveva vissuto sotto il regime hitleriano e nel periodo della guerra. In tal modo egli denunciò non soltanto le dottrine naziste, come aveva fatto il suo predecessore Pio XI, ma condannò anche i crimini compiuti da tale regime nei diversi Paesi occupati: vittime di tali barbarie — disse il Papa — furono anche sacerdoti e vescovi; cosicché anche la Chiesa pagò il suo tributo di sangue all’eresia nazionalsocialista. Interessante a tale riguardo è una testimonianza del Nunzio apostolico in Irlanda, secondo il quale molti ebbero conferma delle atrocità compiute dai nazisti ascoltando l’allocuzione di cui stiamo parlando: «L’impressione che il radiomessaggio produsse in Irlanda — scrisse il Nunzio — fu particolarmente grande. Per moltissimi irlandesi, i quali, anche a motivo della censura, non avevano che insufficienti informazioni ed erano inclinati a trattare le notizie riguardanti la persecuzione della Chiesa in Germania e i campi di concentramento come esagerazioni della propaganda delle Nazioni Alleate, il discorso del Santo Padre fu una rivelazione e una sorgente di sorprese»[14].
2) In secondo luogo, per difendere la Santa Sede dalle accuse che i partiti e la stampa di sinistra mettevano in giro in diversi Paesi europei per screditare la Chiesa cattolica. Essi infatti accusavano il Papa di essere filofascista e filonazista e di aver fin dall’inizio assicurato protezione a tali regimi totalitari, che avrebbe considerato utili per la lotta al comunismo internazionale, e di averne, inoltre, taciuto le atrocità per calcolo politico.
3) In terzo luogo, perché al popolo tedesco non fossero estese indiscriminatamente le colpe delle atrocità compiute dai nazisti. Su questo punto, come si è detto, il Papa invocava l’applicazione del principio della responsabilità soggettiva della colpa, chiedendo che soltanto coloro che avessero compiuto delitti fossero puniti[15]. In questo modo si fece interprete di coloro, primo fra tutti l’ambasciatore tedesco presso la Santa Sede, che auspicavano una vera pacificazione tra i popoli, superando le passate, anche se non ancora sopite, contrapposizioni. Il Papa, in un momento grave e di isolamento internazionale della Germania, si fece così difensore davanti al mondo dei diritti dei tedeschi di entrambe le confessioni, in mezzo ai quali era vissuto per lunghi anni come Nunzio apostolico, spesso colpevoli soltanto di essersi lasciati incantare dal genio demoniaco di Hitler, che prometteva benessere, lavoro, sicurezza, nonché l’illusione di fare della Germania una grande nazione, vendicando così le umiliazioni subite a Versailles nel 1919.
È stato notato che nel messaggio pontificio non si parla esplicitamente degli ebrei. Il che è esatto. Allo stesso modo però non sono menzionati neppure altri popoli e nazioni che subirono pesantemente la devastazione nazista. Certamente in quel periodo il Papa sapeva che milioni di ebrei erano stati uccisi dai nazisti nei campi di sterminio, e appunto a questo fa riferimento nell’allocuzione, quando parla di «raffinati metodi scientifici [utilizzati dai nazisti] per torturare e sopprimere persone spesso innocenti», ma sapeva anche che milioni di polacchi erano stati trucidati dai nazisti, e che in diversi Paesi gli orrori e i disastri della guerra (sia quella terrestre sia quella aerea) erano stati innumerevoli. D’altra parte, egli ebbe modo, di lì a cinque mesi, di rilevare tutto l’orrore per le atrocità naziste, quando, il 29 novembre 1945, ricevette una delegazione di profughi ebrei venuti a ringraziarlo per l’opera della Chiesa cattolica in loro favore durante la seconda guerra mondiale[16]. In ogni caso non c’era ancora in quel periodo la percezione esatta (sia psicologica, sia culturale, sia storico-conoscitiva) di ciò che nel cuore dell’Europa era accaduto agli ebrei negli ultimi anni della guerra. Si sapeva di quell’immane tragedia, ma i suoi contorni e le ragioni metapolitiche che l’avevano provocata erano ancora poco conosciute: lo stesso concetto di Olocausto e di unicità della Shoah non era stato ancora elaborato neppure in ambiente ebraico.
Di fatto le fonti diplomatiche o giornalistiche di quel periodo (perfino Radio Mosca parlava di «camini di forni crematori» fumanti, senza però fare menzione degli ebrei uccisi) non trattano del dramma vissuto dagli ebrei nei termini in cui ne parliamo noi oggi: si faceva difficoltà a tradurre in parole e in concetti una vicenda che in qualche modo usciva dagli schemi tradizionali dei comportamenti di guerra, e che la coscienza, anche collettiva, faceva difficoltà a percepire in tutta la sua drammatica verità. Questo spiega in parte perché nel messaggio pontificio non si parli in modo specifico, ma soltanto in modo allusivo e velato, della tragedia vissuta dagli ebrei europei negli anni della guerra.
In ogni caso, per non cadere nell’anacronismo, crediamo sia opportuno non giudicare il passato, anche quello più recente, con le nostre categorie mentali, il che equivarrebbe a proiettare in esso pensieri e giudizi che sono soltanto i nostri; bisognerebbe invece avere l’umiltà e l’intelligenza di leggere i fatti del passato entro la cornice storico-temporale in cui si sono svolti. Soltanto così è possibile valutarne pienamente le luci e le tante ombre.
- E. F. MELVILLE, in Evening News, 8 maggio 1945. ↑
- «Radiomessaggio di S.S. Pio XII per la fine della guerra in Europa», in Civ. Catt. 1945 II 217. ↑
- Actes et Documents du Saint Siège relatifs à la seconde guerre mondiale (ADSS), vol. XI, 695. C’è in questo documento un passaggio importante: durante la comunicazione dell’ambasciatore, mons. Tardini intervenne sostenendo che sarebbe bene distinguere tra nazismo e popolo tedesco. A questo punto l’ambasciatore gli chiede: «Crede lei che gli Stati Uniti e l’Inghilterra sarebbero disposti a payer quelque chose se qualcuno eliminasse Hitler e iniziasse trattative? Gli rispondo che la risposta è difficile. Per parte mia crederei che converrebbe agli alleati un annuncio di questo genere; ma d’altra parte li vedo troppo ostinati in quella formula “resa senza condizioni”» (ivi, 694). ↑
- Ivi, 697. ↑
- Ivi, 701. ↑
- In tale Conferenza si misero le basi per la nascita delle Nazioni Unite; si decise inoltre di escludere da essa i Paesi sconfitti, quindi non soltanto la Germania ma anche l’Italia, nonostante fosse stata dichiarata dagli Alleati «cobelligerante». ↑
- ARCHIVIO DELLA CIVILTÀ CATTOLICA (ACC), Fondo non ordinato. Il documento è datato 5 maggio 1945. In questa stessa circostanza l’ambasciatore tedesco suggeriva l’opportunità che i maggiori vescovi tedeschi venissero chiamati a Roma per concordare con il Papa la linea da intraprendere per la ripresa spirituale e morale dei tedeschi: «Egli ricorda come dopo la fine dell’altra guerra da ogni parte si guardava alla Chiesa cattolica e si attendeva da essa il conforto, tanto più ora» (ivi). ↑
- ADSS, vol. XI, 686 s. ↑
- ACC, Fondo non ordinato. ↑
- In Civ. Catt. 1945 II 369-376. ↑
- Continuava: «Infatti, nonostante tutte le violazioni di cui divenne ben presto l’oggetto, esso lasciava ai cattolici una base giuridica di difesa, un campo sul quale trincerarsi per continuare ad affrontare, fino a quando fosse loro possibile, il flutto sempre crescente della persecuzione religiosa» (ivi, 370). ↑
- ACC, Fondo non ordinato. Il documento è datato 7 giugno 1945. ↑
- Nello stesso senso scrissero anche l’Irish Press e l’Irish Independent. ↑
- ACC, Fondo non ordinato. ↑
- Alla stessa stregua la nostra rivista, nel quaderno in cui veniva pubblicata l’allocuzione di Pio XII, condannava le frequenti azioni di rappresaglia poste in essere da alcune bande di partigiani contro fascisti o fiancheggiatori del regime appena sconfitto militarmente, a volte però innocenti: «La vittoria dei patrioti — scriveva La Civiltà Cattolica —, la loro risoluta azione per salvare le città e le industrie da ulteriori danni sarebbe stata indubbiamente più pura e meglio raccomandabile alla storia, se non fosse stata offuscata da questa macchia di sangue civile aggiuntasi al sangue già sparso dagli italiani nei vari settori della guerra. Non noi vogliamo sottrarli alla sentenza di un giudice imparziale anche nelle sue esigenze di applicazioni più dure. Ma avremmo preferito che alla morte, se fossero stati riconosciuti degni di tal pena, fossero giunti dopo un giudizio celebrato dinanzi a un tribunale anche marziale, tale però che assicurasse il minimo indispensabile di garanzie e di serenità nell’emissione della sentenza» («Dopo la tregua delle armi», in Civ. Catt. 1945 II 221). ↑
- Cfr AAS 37 (1945) 317 s. ↑