
C’è stato un tempo in cui si è creduto che l’era dei colpi di Stato militari fosse finita, in Africa come altrove. Purtroppo, la realtà, almeno nel continente africano, sembra essere diversa, visti i recenti colpi di Stato in successione, alcuni riusciti, mentre altri sono falliti. I più recenti sono quelli del Mali, della Guinea e del Ciad[1], e attualmente un altro è in corso in Sudan. Ciò è tanto più preoccupante, in quanto questi eventi si stanno verificando nella zona della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao), ossia in una delle Comunità regionali che ha messo in atto forti misure per consolidare la democrazia e il buon governo[2].
Questa apparente contraddizione a livello regionale tra quanto previsto dalle norme e la realtà sul campo è di fatto la migliore rappresentazione di una tensione all’interno dell’intera Unione Africana (Ua). Infatti, a partire dagli anni Novanta del Novecento, con la fine della Guerra fredda e la nuova ondata democratica nel continente, si è cominciato a credere nella democrazia. L’allora Organizzazione dell’unità africana (Oua) ha iniziato a mettere in atto misure per incoraggiare i suoi Stati membri ad adottare il processo democratico per i cambiamenti politici. Così, mentre i colpi di Stato militari erano il modus operandi prima degli anni Novanta, durante il decennio successivo c’è stata una netta diminuzione della loro attuazione[3].
Durante questo periodo e fino a oggi, l’Oua prima e l’Ua poi hanno istituito un quadro normativo volto a combattere i «cambiamenti di governo anticostituzionali» (Cga) in Africa. Tra le misure più emblematiche e di valore normativo, sono da menzionare la Convenzione di Lomé del 2000; l’ Atto costitutivo dell’Unione Africana del 2000; e il Protocollo sugli emendamenti all’ Atto costitutivo del 2003, così come la Carta africana per la democrazia, le elezioni e la governance del 2007. Ma anche prima del 2000 c’erano stati documenti importanti che incoraggiavano l’istituzione di procedure democratiche come mezzo per cementare la pace e la sicurezza, al fine di consentire lo sviluppo economico e sociale di cui l’Africa ha tanto bisogno. Oggi esiste un’ampia giurisprudenza in materia, con decisioni dell’Ua e del suo Consiglio di pace e sicurezza (Cps).
Tuttavia, nonostante tutto questo arsenale normativo e giuridico, a partire dall’anno 2000 assistiamo a una recrudescenza dei Cga[4]. Perciò ci chiediamo: perché le disposizioni dell’Oua e dell’Ua non riescono a contenere e a scoraggiare i colpi di Stato e a far adottare il processo democratico come unico mezzo per il cambio del governo?
Dai colpi di Stato al processo democratico
L’evoluzione politica del periodo post-indipendenza in Africa è segnata dai colpi di Stato[5] come strumento per accedere al potere, e quindi per cambiare governo. Infatti, dopo l’idillio della liberazione – in cui la maggior parte dei Paesi aveva conosciuto un sistema multipartitico che aveva permesso la realizzazione delle prime istituzioni attraverso competizione politica ed elezioni democratiche – questo sistema multipartitico è scomparso alla stessa velocità con la quale era apparso, lasciando il posto alla soluzione del partito unico, confuso con lo Stato. Sotto l’influenza del comunismo socialista, che aveva fornito la base ideologica per le lotte per l’indipendenza, questo modello di «Stato-partito» ha fagocitato tutto lo spazio politico e ha imposto un’unica ideologia. Opporvisi significava opporsi allo Stato, e soprattutto all’unità di quei Paesi i cui pezzi erano appena stati messi insieme, ricongiungendo popoli che, a volte, erano stati nemici giurati.
Il multipartitismo delle indipendenze, che riuniva opinioni politiche diverse attorno a una causa comune – mandare via il colonizzatore e riconquistare la libertà sovrana –, non tardò a ripiegare nelle sue trincee etniche. La gestione del potere divenne nepotista, perché era necessario fare affidamento sulla solidarietà etnico-tribale e regionalista per poter controllare tutto il resto. Se l’unità divenne l’ideologia dominante, fu perché le società politiche africane post-indipendenti erano ancora sull’orlo del collasso, in quanto la maggior parte dei Paesi era composta da più nazioni che avevano difficoltà a fondersi in un’unica identità nazionale.
In questo contesto, è ovvio che l’unico modo per cambiare governo dovesse essere anticostituzionale, perché la Costituzione stessa non prevedeva un cambiamento. Era ammesso e persino accettato che il presidente restasse in carica a vita. Ma siccome in molti casi questa presidenza a vita significava il dominio politico permanente di una parte della popolazione sulle altre – e quindi l’esclusione a vita dalla sfera del potere –, è naturale che gli altri gruppi cercassero con ogni mezzo di rovesciare questo «potere a vita», al fine di assumere le stesse funzioni a proprio vantaggio. Va anche notato che, dagli anni delle indipendenze fino a oggi, ci sono stati più di 200 colpi di Stato (tra riusciti e falliti)[6]. Stef Vandeginste, professore di diritto all’Università di Anversa, osserva che dal 1956 al 2001 ci sono stati 80 colpi di Stato riusciti, 108 falliti, con almeno 30 Paesi che hanno sperimentato un colpo di Stato riuscito[7]. E Solomon Dersso, fondatore di Amani Africa Media and Research Services, segnala che tra il 1952 e il 2014 ci sono stati 91 colpi di Stato riusciti[8].
Tuttavia, l’uso dei colpi di Stato in Africa non era semplicemente dovuto a fattori interni ai Paesi: anche l’elemento continentale vi ha contribuito in qualche misura. Infatti, il rapido raffreddamento dell’entusiasmo democratico e multipartitico che aveva caratterizzato la lotta per l’indipendenza non turbava troppo l’Oua, dal momento che lo Stato-partito era la regola in tutto il continente e la democratizzazione non figurava tra gli obiettivi di questa organizzazione. L’Oua si preoccupava della totale indipendenza, della lotta contro il neocolonialismo e l’imperialismo, dell’unità e dello sviluppo dell’Africa, più che delle forme di governo in atto all’interno dei vari Stati membri.
Inoltre, il principio di non ingerenza negli affari interni di ciascun Paese era fermamente e gelosamente osservato. Dopo un’indipendenza conquistata a caro prezzo, i Paesi africani non volevano che un’altra potenza venisse a dettare legge in casa loro. È vero che la Carta dell’Oua «condanna senza riserve gli omicidi politici e le attività sovversive degli Stati vicini o di qualsiasi altro Stato», ma ciò non aveva nulla a che vedere con l’ordine costituzionale o con la promozione di un ordine democratico, obiettivo per il quale l’Oua non disponeva di adeguati strumenti normativi o giuridici.
Nemmeno il contesto internazionale era favorevole. Con la Guerra fredda, infatti, le due grandi ideologie dell’epoca – il capitalismo liberale e il comunismo socialista – avevano bisogno più di trovare «clienti» per espandere le loro aree di influenza che di spingere i Paesi africani a democratizzarsi. Ecco perché questi ultimi hanno scelto il «movimento dei non allineati», per evitare di essere vittime del fuoco incrociato. Una posizione che, da una parte, offriva un sostegno a chi deteneva il potere, che non subiva pressioni esterne per la democratizzazione; dall’altra, non dava loro la certezza della permanenza al potere, perché anche i colpi di Stato venivano orchestrati sotto l’influenza delle due suddette ideologie, al fine di mantenere la loro egemonia. Così, in un contesto di clientelismo politico sia all’interno sia all’esterno, senza norme costituzionali per cambiare governo e senza alcuna pressione a livello continentale, l’unica opzione che restava erano i colpi di Stato, per cambiare sia gli attori interni sia i partner internazionali.
Solo negli anni Novanta, con la caduta del muro di Berlino e la sconfitta del comunismo, la situazione è mutata anche nella scena politica africana. In coincidenza con quella che alcuni entusiasti liberali chiamarono «la fine della storia», cominciò a soffiare un vento democratico. Sotto la pressione internazionale e con le richieste interne di una nascente società civile, i vecchi partiti unici accettarono, loro malgrado, di aprire ancora una volta lo spazio politico al multipartitismo. Furono introdotte nuove Costituzioni e furono adottate leggi a sostegno del processo democratico, con effetti significativi.
Lo studioso Ndubuisi Ani osserva che tra il 1989 e il 1994 sono passati da un sistema a partito unico a un sistema multipartitico 35 Paesi, in 18 dei quali si è avuto un cambio di leadership[9]. Se, nella maggior parte dei casi, gli ex leader politici sono rimasti al potere, essi hanno comunque ammesso la competizione politica, e il dibattito pubblico ha preso timidamente avvio. Alcuni hanno perso le elezioni e hanno accettato di cedere il potere. Sono state tentate anche altre esperienze, in particolare quelle delle conferenze nazionali[10], come modo di concretizzare questa corrente democratica e per dare una base popolare alle nascenti istituzioni politiche. È stato in questa euforia democratica che i colpi di Stato sono diminuiti e che l’Oua ha iniziato a creare strutture politiche e giuridiche per rafforzare il processo democratico, allo scopo di vietare i Cga.
Norme democratiche e lotta contro i cambiamenti anticostituzionali
Oggi c’è grande abbondanza di giurisprudenza e di testi normativi sulla lotta contro i Cga. Non è stato semplicemente il contesto internazionale a influenzare il cambiamento interno. Anche il livello continentale aveva vissuto profonde trasformazioni politiche. In effetti, l’intero continente era ormai indipendente, tranne il Sudafrica. La liberazione non era quindi più un argomento mobilitante. Inoltre, la caduta del muro di Berlino non consentiva più di essere «non allineati». Di conseguenza, i vari gruppi al potere si sono trovati senza altra scelta se non quella di accogliere, loro malgrado, le istanze democratiche. D’altra parte, coloro che avevano sofferto esclusione politica e violazioni dei diritti umani hanno vissuto questa fase di respiro democratico quasi come una seconda indipendenza africana.
È così che l’Oua dopo il 1990 ha sviluppato un discorso incentrato sul rafforzamento del processo e delle istituzioni democratiche come garanzia della pace e della sicurezza, oltre che dello sviluppo e del benessere degli africani. Da qui il suo sostegno al ruolo forte del Consiglio di pace e sicurezza dell’Unione Africana. E questo ha portato alla creazione dell’Ua, che non è semplicemente un’espressione di sentimenti panafricanisti, ma anche un cambio di paradigma, come si può osservare confrontando la Carta dell’Oua e l’ Atto costitutivo dell’Ua.
Se il discorso di consolidamento democratico per la pace e la sicurezza, lo sviluppo e il benessere risale ai primi anni Novanta, quello contro i Cga è stato inaugurato ad Harare (Zimbabwe) durante il Consiglio dei ministri del 1997, che ha condannato il colpo di Stato in Sierra Leone. Si è concretizzato poi nella Dichiarazione quadro per una risposta dell’Oua ai cambiamenti di governo anticostituzionali, pubblicata a Lomé (Togo) nel 2000 e nota come la Convenzione di Lomé.
Questa Dichiarazione si apre con la constatazione che i colpi di Stato stanno riemergendo in Africa e che i Cga – che si pensava di aver eliminato per sempre – sono un pericolo per la pace e la sicurezza del continente. La Conferenza dei capi di Stato e di governo ricorda poi le diverse iniziative già intraprese e propone «un quadro per una reazione dell’Oua di fronte ai cambiamenti di governo anticostituzionali» in quattro punti: 1) un insieme di valori e princìpi comuni per una governance democratica; 2) una definizione di cambiamento anticostituzionale; 3) alcune misure da intraprendere gradualmente dall’Oua di fronte a un Cga; 4) un meccanismo di attuazione[11]. Come si vede, i primi due punti riguardano i valori, mentre gli altri due riguardano i mezzi per attuarli.
La Conferenza indica nove elementi che dovrebbero caratterizzare il primo punto: 1) l’adozione di una Costituzione democratica redatta attraverso un processo democratico; 2) il rispetto della Costituzione e delle leggi; 3) la separazione dei poteri e l’indipendenza del potere giudiziario; 4) il pluralismo politico; 5) l’alternanza democratica e il riconoscimento dell’opposizione; 6) elezioni libere e regolari; 7) la libertà di espressione e di stampa; 8) il riconoscimento costituzionale dei diritti e delle libertà fondamentali; 9) la garanzia e la promozione dei diritti della persona umana.
Come sottolinea il testo, «lo stretto rispetto di questi princìpi e il rafforzamento delle istituzioni democratiche ridurranno notevolmente i rischi di cambiamenti anticostituzionali nel continente»[12]. Dovremo dunque chiederci cosa manchi in questa definizione di democrazia che in fin dei conti non ha risolto il problema dei Cga. In questo ci può aiutare l’analisi del secondo punto, ossia la comprensione di cosa si intende per «cambiamenti di governo anticostituzionali».
La Conferenza elenca quattro situazioni che possono costituire un Cga: 1) un colpo di Stato militare contro un governo democraticamente eletto; 2) un intervento di truppe mercenarie per rovesciare un governo democraticamente eletto; 3) un intervento di gruppi armati dissidenti e movimenti ribelli per rovesciare un governo democraticamente eletto; 4) il rifiuto, da parte di un governo in carica, di cedere il potere al partito vincitore a seguito di elezioni libere, eque e regolari[13]. Questo ci fa capire che c’è un cambiamento anticostituzionale solo quando è perpetrato contro un governo democratico. In altre parole, un colpo di Stato che rovesci un governo salito al potere con un precedente colpo di Stato si squalificherebbe.
Questo conferisce ulteriore importanza a ciò che si intende per democrazia. E, al tempo stesso, è qui che risiede una delle cause dell’instabilità nell’Africa. Qual è l’organismo autorizzato a certificare il carattere democratico delle elezioni? Una risposta potrebbe essere: gli osservatori internazionali, compresi quelli dell’Unione Africana. Ma l’esperienza mostra che in genere i partiti al potere raramente perdono le elezioni, e gli osservatori dell’Unione Africana raramente osano contraddirli.
Per quanto riguarda i provvedimenti da adottare in caso di Cga, è prevista la condanna immediata da parte delle istituzioni continentali, in collaborazione con le organizzazioni regionali; poi si concede al nuovo governo un periodo di sei mesi per il ripristino dell’ordine costituzionale; se, al termine di tale periodo, non si riesce a ristabilire l’ordine costituzionale, si devono applicare sanzioni mirate.
La Convenzione di Lomé pone le basi per quella che diventerà la dottrina africana contro i Cga. Ma sarà la Carta africana per la democrazia, le elezioni e la governance del 2007, nota come la Carta di Addis Abeba, che sistematizzerà tutti gli sforzi sviluppati per un intero decennio. Già nel suo preambolo, essa ricorda i valori, i princìpi e le pratiche dell’Ua che mirano a rafforzare la pace e la sicurezza, la democrazia e lo sviluppo, il buon governo e lo stato di diritto. Ma al tempo stesso è preoccupata per «i cambiamenti di governo anticostituzionali che costituiscono una delle principali cause di insicurezza, instabilità, crisi, e persino di scontri violenti in Africa». La stessa idea viene ripetuta nell’art. 2.4. Va notato, tuttavia, che questo paragrafo segue altri tre che sottolineano che gli obiettivi primari della Carta sono la promozione: 1) dei valori e dei princìpi universali della democrazia e dei diritti umani; 2) del principio dello Stato di diritto; 3) del regolare svolgimento di elezioni trasparenti, libere ed eque. Queste ultime sono la fonte della legittimità dei governi e del loro cambiamento democratico.
Pertanto, nelle sue finalità di cui si parla nell’art. 3.10, la Carta conferma «il rigetto e la condanna dei cambiamenti di governo anticostituzionali». A tal fine, gli Stati-partito si impegnano a rafforzare l’ordine e le istituzioni democratiche e ad adottare tutte le misure necessarie per assicurare alla giustizia «chiunque tenti di rovesciare un governo democraticamente eletto con mezzi anticostituzionali»[14]. D’altra parte, essi si impegnano a mettere in atto meccanismi e istituzioni per lo svolgimento di elezioni regolari[15]. Ma il nucleo del problema che qui ci interessa viene tratatto nel capitolo VIII, dedicato alle «sanzioni in caso di cambiamento di governo anticostituzionale». In effetti, questo capitolo ridefinisce cosa si intende per Cga. Alle quattro situazioni già menzionate nella Convenzione di Lomé, la Carta aggiunge un quinto caso che costituirebbe un Cga: «qualsiasi emendamento o revisione delle Costituzioni o degli strumenti giuridici che leda i princìpi dell’alternanza democratica»[16].
Questa aggiunta sembra essere rivoluzionaria, ma in effetti rimane ambigua riguardo alla determinazione di quale tipo di emendamento e revisione ostacoli l’alternanza democratica. Torneremo su questo punto. Per il momento, facciamo notare che la Carta inasprisce le misure punitive contro gli autori di un Cga quando fallisce la via diplomatica. Si prevedono la sospensione immediata dello Stato membro dall’Ua, pur rimanendo l’obbligo di onorare i suoi impegni verso di essa, e sanzioni economiche e giudiziarie contro gli autori dei Cga. È anche previsto il divieto, ai responsabili, di partecipare a elezioni eventualmente organizzate per ristabilire l’ordine costituzionale[17]. Sono questi i principali strumenti che costituiscono il nucleo normativo e giuridico dell’Ua contro i Cga.
La questione del limite dei mandati elettorali
L’Ua pensava di aver debellato le pratiche dei Cga con l’arrivo del processo democratico. Pertanto, era come se rimanesse sorpresa dal ritorno di tali pratiche. I colpi di Stato erano diminuiti notevolmente tra il 1990 e il 2000, ma sono ripresi dopo il 2000. Il periodo di calma corrisponde al primo avvio del processo democratico che, nella maggior parte dei casi, aveva previsto due mandati elettorali, variabili tra i quattro e i sette anni[18]. Tuttavia, il periodo che segna la rinascita dei Cga corrisponde alla fine di questi due mandati. Si può allora riconoscere una prima causa di tale rinascita: gli emendamenti costituzionali sul numero di mandati presidenziali. Gli studiosi Micha Wiebusch e Christina Murray osservano che nel periodo 1990-2000 la maggior parte delle Costituzioni prevedeva i limiti di mandato, ma dall’aprile del 2000 fino al luglio del 2018 tali limiti sono stati modificati 47 volte in 28 Paesi[19]. Ed è proprio nello stesso periodo che sono ricomparsi i colpi di Stato. C’è quindi una correlazione tra il mancato rispetto del limite dei mandati elettorali – soprattutto presidenziali – e l’uso di mezzi anticostituzionali per cambiare il governo. Nella maggior parte dei casi questi colpi di Stato hanno avuto luogo, con successo o meno, in Paesi – ad esempio, in Niger, Burundi, Mali, Ciad, Guinea, Sudan – che hanno riformato le loro Costituzioni per modificare i limiti del mandato presidenziale. D’altra parte, si nota che i Paesi che hanno mantenuto e praticato i limiti di mandato non hanno subìto tentativi di Cga.
Appare così evidente la prima lacuna nella struttura normativa dell’Ua. Mentre essa si mostra severa e intransigente nei confronti dei colpi di Stato di tipo militare o di altre soluzioni violente per cambiare il governo, non prevede nulla per quelli che molti chiamano «colpi di Stato costituzionali», messi in atto per restare al potere a tempo indeterminato[20]. Nelle quattro situazioni della Convenzione di Lomé che potrebbero essere qualificate come Cga non si dice nulla riguardo al cambiamento della Costituzione. La prescrizione aggiunta dalla Carta di Addis Abeba è piuttosto vaga sugli emendamenti costituzionali che mirano ad abolire i limiti di mandato nei casi che «ledano i princìpi dell’alternanza democratica». La Carta, infatti, non vieta la modifica o la revisione delle norme che regolano i mandati; piuttosto dispone, nell’articolo 10.2, che «gli Stati-partiti devono assicurare che il processo di emendamento o revisione della loro Costituzione si basi su un consenso nazionale che includa, all’occorrenza, il ricorso al referendum». In altre parole, se la Carta non proibisce di toccare le disposizioni relative ai mandati, come si può concludere che la loro modifica e revisione violi o meno i princìpi dell’alternanza democratica? Peraltro, mentre tutti i colpi di Stato militari sono stati perseguiti con le sanzioni previste, non ci sono mai state sanzioni nei confronti di questi colpi di Stato costituzionali.
Inoltre, sebbene nella Carta si parli diffusamente di democrazia, in nessun punto viene menzionata l’espressione «limiti di mandato» come un imperativo democratico per l’Africa[21]. Ora, se è un dato di fatto che la causa principale dell’instabilità politica sono i Cga dovuti alla mancanza di limiti di mandato, la Carta dovrebbe incoraggiare i capi di Stato e di governo a non rimanere al potere a tempo indeterminato, vietando la modifica o la revisione dei limiti di mandato, perché è proprio questo che mina i princìpi e l’alternanza democratici.
L’origine del fallimento dell’Ua nello sradicare i Cga va dunque rintracciata nel fatto che la struttura istituzionale non ha incluso i limiti di mandato come cardine di tutto l’edificio democratico in Africa. La questione quindi è duplice: da una parte, bisogna comprendere perché senza un limite di mandato ci saranno sempre tentativi di Cga, nonostante il quadro normativo esistente; dall’altra, ci si deve domandare se l’Ua sia effettivamente in grado di includere i limiti di mandato nel suo quadro normativo.
Per quanto riguarda la prima questione, l’entusiasmo democratico del primo decennio post-Guerra fredda era dovuto alla speranza che fosse stata trovata una soluzione contro la permanenza al potere senza limiti. Di per sé, il funzionamento della democrazia non è necessariamente legato ai limiti di mandato. Lo dimostrano le democrazie parlamentari, dove i primi ministri e i cancellieri possono restare in carica per più mandati finché i loro partiti hanno la maggioranza e accordano loro la fiducia. Ma in Africa – senza considerare che la maggior parte dei Paesi hanno regimi presidenziali – ci si aspettava che la democrazia instaurasse l’alternanza al potere, a causa della configurazione spesso tribale del potere stesso. Inoltre, conquistare il potere equivale ad avere il controllo delle risorse economiche, e quindi della loro redistribuzione sociale.
Ora, in alcuni Paesi – nei quali si sono verificati Cga – la democrazia, inaugurata in pompa magna, ha di fatto consentito soltanto il perpetuarsi dello stesso regime e della stessa persona attraverso una nuova forma di legittimazione. I «colpi di Stato costituzionali» sono diventati mezzi legali utilizzati per evitare di rientrare nei Cga, impedendo l’alternanza democratica. La cosa peggiore è che questi governi, pur rimanendo al potere senza scadenza, non migliorano le condizioni socioeconomiche delle popolazioni e sono caratterizzati da evidenti violazioni dei diritti umani. E non potrebbe essere altrimenti, perché, senza alternanza al potere, l’opposizione politica e la società civile iniziano a rumoreggiare; il che li rende poi bersagli di chi è al governo, che si rifiuta di cedere il potere.
Questa è la ragione della dicotomia tra la posizione dell’Ua e quella delle popolazioni locali, quando ci sono colpi di Stato militari. L’Ua ricorre alle sue sanzioni, che spesso non hanno effetto, mentre la popolazione celebra i golpisti come liberatori, come è accaduto di recente in Mali e in Guinea. Ovviamente le popolazioni restano spesso disilluse, e abbastanza presto; ma quel breve momento di novità dà loro qualche speranza che il cambiamento sia possibile. Ebbene, è solo una vera alternanza alla guida delle istituzioni che può garantire la democrazia in Africa. E questo può avvenire nelle condizioni attuali solo imponendo i limiti di mandato. Di conseguenza, se l’Ua non riesce a inserire nel suo quadro normativo e giuridico la misura delle limitazioni del mandato come elemento chiave della democrazia in Africa, allora ci si dovrà aspettare i Cga, perché sono l’estrema risorsa per avere un’alternanza. A questo proposito, dovrebbe essere modificato e riformulato il più chiaramente possibile il quinto caso di Cga previsto nella Carta di Addis Abeba, specificando che un emendamento o una revisione costituzionale volti ad alterare o rimuovere la limitazione dei mandati violano «i princìpi e l’alternanza democratici», e quindi si configurano come un caso di Cga. E quindi dovrebbero poi arrivare i provvedimenti previsti per qualsiasi altro Cga.
Questo ci porta ad affrontare la seconda questione: l’Ua è nelle condizioni di condannare e sanzionare i «colpi di Stato costituzionali»? Attualmente, è difficile credere che questo possa accadere. Mentre c’è stato un cambio di paradigma dall’Oua all’Ua, che ha spostato l’attenzione dalla liberazione dell’Africa e dalla lotta contro l’imperialismo e il neocolonialismo alla democratizzazione e allo sviluppo, gli attori non sono cambiati. Coloro che hanno adottato questa narrativa democratica e di sviluppo lo hanno fatto per ragioni pragmatiche piuttosto che per convinzioni personali, e sotto la pressione sia internazionale sia interna. Così sono riusciti a mettere in piedi sistemi elettorali formalmente democratici nei quali chi è al potere non perde mai, per soddisfare le esigenze democratiche di facciata, senza un reale e profondo rinnovamento.
Sono gli stessi leader a tempo indeterminato di ieri che si sono trasformati in paladini della democrazia. In tale contesto, è difficile immaginare che essi mettano in pratica una misura che li allontanerebbe dal potere che vogliono mantenere a tutti i costi: sarebbe come tagliare il ramo su cui sono seduti. Inoltre, il principio di sovranità nazionale rimane un caposaldo del sistema dell’Ua, anche se l’art. 4 (h) cita alcuni casi in cui può essere superato, come i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra e il genocidio. Un’iniziativa per limitare i mandati nel Continente rischia dunque di essere respinta, perché verrebbe messa in questione la sovranità di ogni popolo, tanto più che, come abbiamo visto, formalmente non sono i limiti di mandato a determinare una democrazia effettiva. Questi due ostacoli fanno ritenere che attualmente sarebbe difficile per l’Ua adottare tale misura.
Siamo dunque di fronte a una causa persa? Sebbene ci siano alcuni potentati in agguato, emergono segnali di speranza dai movimenti giovanili e della società civile che sono riusciti a spodestare coloro che avevano usato tutti i mezzi per restare aggrappati al potere. Pensiamo al Burkina Faso e alla Tunisia. Ci sono anche casi in cui il movimento della società civile ha resistito ed è riuscito a impedire la modifica costituzionale che permette altri mandati, come in Senegal. Oppure casi di Corti supreme che si sono opposte alla possibilità di ulteriori mandati, come recentemente è avvenuto in Malawi. E poi ci sono alcuni Paesi dove i presidenti sono riusciti a usurpare il potere, ma non sono mancate proteste popolari, che sono costate anche vite umane, come in Guinea e in Burundi.
Tutti questi esempi testimoniano la presenza di una coscienza civica impegnata attivamente per garantire il rispetto del limite dei mandati. Questo fa sperare che, un po’ alla volta, i leader capiranno che tale questione è la base della pace e della sicurezza per il proprio Paese e per tutta l’Africa, perché consolida e assicura il processo democratico.
Si può anche contare sull’influenza dei modelli. È un dato di fatto che i Paesi che rispettano il limite dei mandati sono piuttosto stabili e non conoscono nessun tentativo di Cga. La speranza è che anche altri Paesi li imitino. E più Paesi adotteranno e rispetteranno il limite dei mandati, più l’opzione per la non limitazione sarà accantonata. Questo potrebbe poi spingere l’Ua ad adottare il limite dei mandati formalmente e definitivamente per la pace e la sicurezza del continente, creando così le condizioni favorevoli al rafforzamento del processo democratico, allo sviluppo e al rispetto dei diritti umani.
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[1]. Nel caso del Ciad, i militari hanno preso il potere a dispetto dell’ordine costituzionale. La versione ufficiale dei fatti afferma che il presidente in carica era deceduto a causa delle ferite riportate durante i combattimenti.
[2]. Cfr Communauté économique des États de l’Afrique de l’Ouest (CEDEAO), Protocole sur la Démocratie et la Bonne Gouvernance, Dakar, 2001.
[3]. Cfr I. K. Souaré, The AU and the Challenge of Unconstitutional Changes of Government in Africa, Pretoria, Institute for Security Studies, 2009, 6. Cfr anche U. Engel, Unconstitutional Changes of Government: New AU Policies in Defense of Democracy, Leipzig, University of Leipzig, 2010, 5.
[4]. Cfr U. Engel, Unconstitutional Changes…, cit., 5; European Parliament, «Actions of the African Union against coups d’état», in At a Glance, novembre 2017, 2. Questo è anche il punto di vista della ricercatrice Julia Leininger, la quale osserva che il processo democratico ha ristagnato o semplicemente è regredito nel nuovo millennio: cfr J. Leininger, A Strong Norm for Democratic Governance in Africa, Stoccolma, Idea, 2014, 6.
[5]. Da intendersi come un colpo di Stato militare, quando non viene indicato diversamente.
[6]. Cfr European Parliament, «Actions of the African Union against coups d’état», cit., 1.
[7]. Cfr S. Vandeginste, «The African Union, Constitutionalism and Power-Sharing», in Journal of African Law 57 (2013/1) 2 s.
[8]. S. A. Dersso, «Unconstitutional Changes of Government and Unconstitutional Practices in Africa», in World Peace Foundation 69 (2016/2) 2.
[9] . N. Ch. Ani, «Coup or not Coup: The African Union and the Dilemma of “Popular Uprisings” in Africa», in Democracy and Security, marzo 2021, 1.
[10]. L’opera classica su questo argomento è quella del filosofo camerunense F. E. Boulaga, Les conférences nationales en Afrique noire. Une affaire à suivre. Paris, Karthala, 1993.
[11]. Cfr Déclaration de Lomé, 12 luglio 2000, art. 2.
[12]. Ivi, 3.
[13]. Cfr ivi.
[14]. La Charte d’Addis Abeba, cap. VI.
[15]. Ivi, cap. VII.
[16]. Ivi, art. 23.5.
[17]. Cfr ivi, artt. 24-26.
[18]. Cfr M. Wiebusch – C. Murray, «Presidential Term Limits and the African Union», in Journal of African Law 63 (2019/1) 131-160.
[19]. Cfr ivi.
[20]. Cfr P. Manirakiza, «Insecurity Implications of Unconstitutional Changes of Government in Africa: from Military to Constitutional Coups», in Journal of Military and Strategic Studies 17 (2016/2) 87.
[21]. Cfr M. Niang, «The Role of the African Union in Encouraging Term Limits for State Leaders», in Odu, 2019, 2.
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WHY MORE COUPS IN AFRICA? The African Union’s responsibilities
The continent of Africa believed it had moved beyond the era in which changes of government took place through military coups. Unfortunately, in recent times there has been an upsurge in these «unconstitutional changes of government» (UCG,) the most recent of which was that of Sudan, which is still ongoing. This is despite the political and legal framework implemented by the African Union and the Organization of African Unity since the 1990s to strengthen the democratic process in order to combat such practices. The article examines the reasons for this failure to prevent UCG and suggests some ways out.