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ABSTRACT – Nella preghiera del Padre Nostro c’è una petizione che costituisce da tempo un motivo di disagio pastorale. Ci riferiamo all’espressione: «E non c’indurre in tentazione». A causa di una traduzione dal latino fin troppo letterale, Dio risulta così essere l’artefice di un’operazione dannosa per l’orante: mai può essere attribuita a Dio l’azione del «tentare» l’uomo, perché ciò sarebbe contraddittorio con la sua natura di Padre benevolo.
Per questo motivo esegeti e responsabili ecclesiali, fra cui anche papa Francesco di recente, hanno chiesto di modificare la formulazione usata da secoli nella preghiera liturgica. Sì, perché in Italia, per esempio, il testo della Bibbia è stato già modificato con la traduzione del 2008, curata dalla Cei. Ma il cambiamento non è ancora entrato nella liturgia, e quindi nella consuetudine dei fedeli. Tanto che il Consiglio permanente della Cei, ha deciso di convocare un’assemblea straordinaria dei vescovi per discutere e approvare la terza edizione del Messale Romano, all’interno del quale sarà contenuta la nuova traduzione della preghiera.
La difficoltà generata da questa petizione del Padre Nostro non è nuova nella storia della Chiesa. Già nei primi secoli dell’era cristiana, circolava una versione latina che rendeva il testo di Mt 6,13 in maniera diversa da quella che poi si è imposta con la Vulgata. Essa recitava: «Et ne passus nos fueris induci in tentationem», il che equivale grosso modo a dire: «Non consentire a che noi siamo indotti in tentazione». L’interpretazione di autorevoli Padri occidentali, come Tertulliano, Cipriano, Ambrogio, Agostino e Girolamo, ha ispirato i commentari seguenti, fino ai nostri giorni, dando all’espressione in questione il senso di «non permettere che noi entriamo (e/o soccombiamo) nella tentazione», oppure: «non abbandonarci alla/nella tentazione». Pare che le moderne traduzioni si indirizzino concordemente in tal senso.
Alla luce di ciò si può comunque provare a fornire un apporto innovativo. Da un lato, attenendosi strettamente alla lettera del testo evangelico (in greco). Dall’altro, approfondendo il senso di questa difficile petizione, la quale non si limita a invocare il Padre per superare le tentazioni e vincere le seduzioni del Maligno – cosa questa senz’altro necessaria –, ma anche a supplicare il Dio buono che conceda il suo aiuto a chi è piccolo e fragile, così da attraversare la notte senza perdersi.
La proposta è dunque di rendere la frase con: «Non introdurci nella prova», oppure, con un equivalente dinamico: «Non metterci alla prova». La chiave della questione, più che nel verbo, sembra essere infatti nel senso proprio della parola greca che in italiano abbiamo tradotto con «tentazione». In questo senso, è importante intendersi e comprendere in che senso Dio «ci mette alla prova».
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«DO NOT TEMPT US». Regarding a complicated request in the Lord’s Prayer
There is a petition in the Lord’s Prayer which gives cause for pastoral unease. Here, we refer to the expression: «And lead us not into temptation». Thus, God is the creator of an operation which would seem harmful to the person praying. For this reason, exegetes and ecclesial leaders, including Pope Francis have recently asked that the formulation of this liturgical prayer that has been used for centuries be changed. The Author tries to provide an innovative contribution on this: on the one hand, strictly following the letter of the Gospel text (in Greek); and on the other, deepening the sense of this difficult petition. The key, more than in the verb, seems to be in the proper sense of the word which has been translated with «temptation».