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Il 18 luglio di quest’anno è stato celebrato il centesimo anniversario della nascita di Nelson Rolihlahla Mandela. Co-vincitore del premio Nobel per la pace (1993) e insignito di molte onorificenze, Mandela è stato il primo presidente del Sudafrica democratico post-apartheid (1994-99) ed è riconosciuto come uno dei più grandi statisti del XX secolo.
In questo articolo esamineremo la sua carriera, lo stile della sua leadership, la sua fede e alcune delle polemiche postume su di lui, concludendo che, nonostante i suoi molti difetti, la sua grandezza resta intatta. Anzi, suggeriremo che, soprattutto da personaggio pubblico, egli ha incarnato molti dei precetti fondamentali del pensiero sociale cattolico.
Una breve biografia
Poiché la vita di Mandela è stata illustrata esaustivamente dalla sua autobiografia[1] e dai suoi biografi[2], e la sua storia è ampiamente nota, ne presenteremo soltanto un breve riassunto.
Nato nel 1918 a Mvezo, nei pressi di Mthatha, in quella che è oggi la provincia del Capo Orientale, Mandela era figlio di un capo della tribù Thembu e, dopo la sua iniziazione nell’etnia xhosa, ricevette il nome di Dalibunga («creatore di parlamenti», davvero preveggente). Sebbene questo nome probabilmente volesse esprimere il ruolo previsto per lui nel clan xhosa, risultò profetico riguardo alla sua successiva carriera politica.
Dopo aver frequentato le scuole missionarie metodiste e le università di Fort Hare e di Witwatersrand, Mandela completò gli studi giuridici a Johannesburg. In qualità di avvocato fondò uno studio associato con l’amico Oliver Tambo. Entrambi divennero membri attivi della sezione giovanile dell’ African National Congress (Anc), un movimento politico fondato nel 1912 per estendere i diritti politici e sociali della popolazione di pelle nera in Sudafrica.
A partire da questa loro appartenenza alla sezione giovanile – la cui più vivace militanza politica alla fine degli anni Quaranta indusse l’intero Anc a passare da una politica di conciliazione a una di confronto non violento con l’apartheid[3] –, Mandela e Tambo vissero da protagonisti la Defiance Campaign («Campagna di disobbedienza») del 1952 e l’ascesa del Congresso del popolo, che nel 1955 portò all’approvazione della Carta della Libertà (una «Costituzione dei popoli»).
Coinvolti in una battaglia di massa, Mandela, Tambo e altri 154 membri dell’Anc e dei movimenti apparentati, che formavano l’Alleanza del Congresso, nel dicembre 1956 vennero arrestati con l’accusa di tradimento. Il processo si protrasse per quattro anni, nel corso dei quali l’Anc venne bandito (1960), ma nel 1961 si risolse con l’assoluzione di tutti gli accusati.
Nel frattempo, fallita la protesta non violenta degli anni Cinquanta, per convincere il governo del Partito Nazionale anche soltanto a iniziare ad allontanarsi dall’apartheid, l’Anc decise di passare alla lotta armata. Mandela, che era stato tra i primi a prendere in considerazione tale possibilità (fin dai primi anni Cinquanta), nel 1961 fu uno dei membri fondatori di Umkhonto weSizwe («Lancia della nazione»), un’organizzazione conosciuta con il suo acronimo MK.
Oliver Tambo, suo amico, fu mandato in esilio per istituire l’Anc fuori del Sudafrica. La MK, che inizialmente si era dedicata ai sabotaggi evitando di sacrificare vite umane, verso la fine degli anni Settanta abbracciò la guerriglia (soprattutto urbana), mentre l’Anc cercava di costruire reti politiche clandestine in Sudafrica[4]. Quasi subito Mandela venne catturato e imprigionato con l’accusa di essere espatriato e poi rientrato in Sudafrica illegalmente, senza passaporto. Quando, nel 1963, gli altri membri dell’Alto Comando della MK vennero arrestati dalle forze di sicurezza, Mandela – che risultò il comandante in capo della MK – fu processato insieme con loro, giudicato colpevole e nel 1964 condannato all’ergastolo, da scontare a Robben Island.
Fortunati a essere vivi – azioni come quelle che essi avevano compiuto, di solito, secondo la legge sudafricana, comportavano una condanna a morte –, Mandela e i suoi compagni trascorsero in carcere circa trent’anni. Mandela impiegò quel tempo a studiare la psicologia dei suoi carcerieri bianchi, mentre insisteva con fermezza e cortesia sul fatto che lui e i suoi compagni di prigionia dovevano essere trattati con rispetto. Alcuni secondini lo temevano per questo; molti giunsero a rispettarlo; qualcuno gli divenne persino amico[5].
Dagli anni Settanta in poi, lo Stato del Sudafrica si rese conto che l’apartheid era impraticabile. Negli anni Ottanta, mentre crescevano sia la resistenza armata sia quella non violenta, e le sanzioni economiche internazionali facevano pagare un duro dazio al Paese, lo Stato sudafricano avviò con l’Anc negoziati segreti, che si svolsero in vari luoghi. Alcuni ministri del governo incontrarono Mandela nella sua cella; questi parlò loro apertamente, facendo loro notare che i risultati delle loro conversazioni sarebbero stati trasmessi ai leader dell’Anc in esilio.
Nel 1990, dopo che l’Anc e altri movimenti di liberazione vennero riabilitati e Mandela fu rilasciato, ebbero inizio i negoziati per la transizione verso la democrazia. Essi non furono facili. Fazioni politiche rivali combattevano per il controllo del territorio nelle aree urbane e rurali del Sudafrica. Queste rivalità vennero ulteriormente infiammate da azioni di «guerra sporca», alcune delle quali rivendicate da estremisti sostenitori del governo e delle forze di sicurezza. Qualcuno ha addirittura ritenuto che atti del genere facessero parte di una politica del governo volta a indebolire la posizione dell’Anc al tavolo delle trattative.
Nonostante ciò, e nonostante la loro profonda diffidenza (che talora sconfinava nell’aperta ostilità) nei confronti del presidente in carica, Frederik de Klerk, Mandela e la sua squadra – di cui faceva parte l’attuale presidente sudafricano Cyril Ramaphosa – raggiunsero un accordo. Le elezioni generali, che si svolsero alla fine dell’aprile 1994, le prime aperte a tutte le razze, si svolsero quasi senza incidenti. Il 10 maggio 1994, alla presenza di migliaia di persone e seguìto in diretta televisiva da milioni di persone in tutto il mondo, Nelson Mandela prestava il giuramento presidenziale negli uffici di Pretoria.
La presidenza
Fin dall’inizio Mandela dichiarò che avrebbe ricoperto un solo mandato per un quinquennio (sebbene la Costituzione gli desse la possibilità di due mandati). Sotto la sua presidenza, nel 1997 fu adottata una nuova Costituzione. Le clausole riguardanti i diritti socio-economici e culturali la fecero salutare universalmente come una delle Costituzioni più inclusive e progressiste al mondo. Sottolineando la separazione dei poteri, essa istituì organi di vigilanza finanziati dallo Stato al fine di controllare l’attività del governo, e una Corte costituzionale per interpretare la legislazione presente e futura alla luce della Costituzione.
La presidenza di Mandela si contraddistinse per l’accento posto sulla riconciliazione e sulla costruzione della nazione, al fine di unire un Paese che aveva attraversato decenni di conflitto non dichiarato e tre secoli di razzismo bianco. Due eventi illustrano il suo metodo: la Coppa del mondo di rugby del 1995 e la Commissione per la verità e la riconciliazione del 1996-98.
Sotto il profilo dell’amministrazione ordinaria, la presidenza Mandela ha dato risultati contrastanti. Pur impegnandosi a ridurre il divario tra la maggioranza della popolazione povera e la minoranza benestante (divario che per lo più rispecchiava quello tra i cittadini neri e quelli bianchi), e pur varando programmi per l’edilizia residenziale pubblica e per il welfare, come pure una decisa azione di promozione e di rafforzamento economico della popolazione coloured, gli esiti sono stati incerti. Alcuni obiettivi non si sono realizzati a causa di incompetenza burocratica o della corruzione, o per l’insufficiente capacità dello Stato di far fronte a problemi così grandi.
Avendo ereditato un’economia fragile e bisognosa di investimenti diretti dall’estero, prima del 1994 Mandela e l’Anc decisero di non perseguire un socialismo radicale, e optarono per una sorta di socialdemocrazia. Non ci sarebbero state massicce nazionalizzazioni dell’industria; la redistribuzione della terra avrebbe obbedito a processi moderati e legali, basati sulla formula politica «acquirente volontario, venditore volontario», che non avrebbe messo a rischio gli investimenti o la sicurezza alimentare.
A trarre beneficio da questa politica, in ultima analisi, furono la classe ricca e quella media (ovvero sia i «vecchi» bianchi sia la «nuova» borghesia nera in rapida ascesa). Quando, nel 1999, concluse il suo mandato, Mandela fu il primo a riconoscere che gli obiettivi della Carta della libertà non erano stati ancora realizzati.
Una volta in pensione, egli si concentrò su opere di carità che aveva avviato già da presidente, investendovi una parte sostanziosa del suo stipendio: il suo Children’s Fund («Fondo per i bambini»),e nel 1999 la Nelson Mandela Foundation, impegnata nell’istruzione, nello sviluppo e nella prevenzione dell’Hiv/Aids. I suoi appassionati interventi pubblici su quest’ultimo tema sono stati un fattore determinante per suscitare nel governo sudafricano quel senso di vergogna che l’ha portato a introdurre i farmaci antiretrovirali nel servizio sanitario pubblico. Nonostante la salute precaria, Mandela è rimasto un interlocutore pubblico di alto profilo, opponendosi fortemente alla guerra in Iraq, favorendo la riconciliazione tra la Libia e l’Occidente, e invitando il dittatore dello Zimbabwe, Robert Mugabe, a dimettersi.
Quando morì, il 5 dicembre 2013, Mandela fu pianto in tutto il mondo. Molti sudafricani, tra cui parecchi dei suoi critici, notarono con tristezza il contrasto tra la sua presidenza e quella apertamente corrotta del presidente di allora, Jacob Zuma.
L’eredità di Mandela: un capitale morale
Qual è, dunque, l’eredità che Mandela ci ha lasciato? Seguendo Tom Lodge, che secondo noi è il suo miglior biografo, perché è al tempo stesso simpatetico e critico, inizieremo con l’interpretarne la vita in base al concetto di capitale morale[6]. Al contrario del culto carismatico della personalità, la cui retorica populista si rivolge direttamente ai sentimenti, i personaggi pubblici dotati di un capitale morale associano l’azione e il comportamento, essendo radicati in valori profondi e allo stesso tempo in ciò che è effettivamente possibile in quel momento. Essi agiscono e parlano secondo le proprie convinzioni. La gente li segue perché la loro autorità morale si radica in ciò che sono. In altre parole, noi li seguiamo perché le virtù che mostrano ci risuonano dentro.
Mandela non ha incarnato il suo capitale morale come se fosse un «santo» laico: dopo tutto, si è sposato tre volte; talvolta ha trascurato la sua famiglia (la sua attenzione si concentrava sulla lotta di liberazione); ed era portato alla rabbia e alla testardaggine. Ha incarnato il suo capitale morale, perché ha agito sulla base delle sue convinzioni, dando la priorità a ciò che era possibile.
A metà degli anni Cinquanta, mentre l’Anc rimaneva ancorato alla non violenza, egli prevedette la necessità di usare la forza, in maniera limitata. Ma invece di sfruttare il suo carisma per imporre prematuramente i suoi punti di vista ai suoi compagni, attese finché non venne il momento giusto per suggerire la lotta armata. E anche allora insistette sulla moderazione, consapevole che non si trattava di una mera tattica pragmatica, ma che a lungo termine questo atteggiamento sarebbe stato più fecondo al momento di perseguire la riconciliazione con la comunità bianca che, una volta ottenuta la liberazione, non sarebbe comunque scomparsa dal Sudafrica.
Oltre a ciò, egli considerava i suoi avversari come esseri umani, la cui intrinseca capacità di fare il bene si sarebbe potuta attivare per l’utilità comune. Quando era in carcere, senza mai compromettere la sua profonda convinzione nella propria intima dignità e in quella delle persone di colore e dell’intera umanità, riuscì a fare breccia nella comunità bianca dei suoi carcerieri.
Una volta libero e più tardi da presidente, mentre insisteva senza compromessi sulla richiesta di essere trattato con rispetto, cercò di capire le paure dei bianchi (compresi coloro che erano mossi da interessi economici) e di affrontarle: non con menzogne o con mezze verità, ma volendo convincere i suoi interlocutori del fatto che i sacrifici che avrebbero dovuto sostenere per promuovere l’uguaglianza non erano la punizione per le ingiustizie del passato, bensì, in ultima analisi, un bene anche per loro. Cercò di riconciliare i bianchi con il nuovo Sudafrica, incontrandoli lì dove erano – in spazi sociali, come il rugby – e attirandoli nella più ampia comunità nazionale.
In questa strategia rientrò il sostegno brillantemente dato agli Springboks, la squadra nazionale di rugby, nella Coppa del mondo che si tenne in Sudafrica nel 1995[7]. Pur trattandosi tradizionalmente di uno sport praticato dalla minoranza bianca, e pur essendo la squadra stessa composta quasi interamente di bianchi, Mandela spinse l’intero Paese a sostenere gli Springboks: partiti con poche speranze di vittoria, essi giunsero quasi incredibilmente alla finale contro la Nuova Zelanda, uno squadrone che sembrava inarrestabile. Il giorno in cui si doveva assegnare la coppa, Mandela arrivò allo stadio vestito con la maglia del capitano della squadra, tra le grida gioiose di «Nelson! Nelson!» che provenivano dalla folla sudafricana prevalentemente bianca. Contro ogni previsione, il Sudafrica alla fine vinse. E l’intero Paese fece festa per tre giorni.
Quella disponibilità di Mandela non sarebbe mai andata a costo della verità morale: lo evidenzia il processo della Commissione per la verità e la riconciliazione (Trc)[8]. Non si potevano coprire i crimini politici e i peccati sociali con una sorta di amnistia di Stato. Mandela era convinto che solo affrontando il passato tutti i sudafricani avrebbero costruito un futuro comune: questa era un’idea costante che soggiaceva ai suoi discorsi di quel periodo.
Tuttavia, in modo inaspettato, dato che si trattava di uno Stato a schiacciante maggioranza protestante, la Trc assunse, in qualche modo, la forma di un sacramento della riconciliazione pubblico, collettivo e secolarizzato, perché Mandela istintivamente riconobbe che la confessione, per quanto esercitata in maniera imperfetta e priva della penitenza, era un bene per tutta la nazione.
Lo scopo della Trc era triplice: dire la verità sulle atrocità commesse da tutte le parti (ai responsabili veniva offerta l’immunità giudiziaria soltantose avessero detto tutta la verità); risarcire o indennizzare le vittime; e, si sperava, riconciliare vittime e carnefici.
Si trattò di un successo, e tuttavia condizionato. Ci furono momenti di rimorso, di conversione e di riconciliazione. Molte famiglie di persone morte scoprirono chi aveva ucciso i loro cari e dove erano stati sepolti, e in una certa misura potettero elaborare il loro lutto. Alcune vittime ricevettero un risarcimento almeno simbolico per la loro sofferenza.
Ma i problemi non mancavano: non c’erano abbastanza soldi per risarcire le vittime; alcuni responsabili dei crimini non si erano fatti avanti; e l’enorme numero dei casi da esaminare rendeva impossibile venirne a capo. Alcuni critici obiettarono che nel raccontare le loro storie le vittime dovevano subire un doppio trauma, che poi avrebbero fatto fatica a curare. Al contrario, altri ritennero che gli autori dei crimini se la fossero cavata troppo facilmente. Altri ancora obiettarono che la Trc, concentrandosi sulle atrocità commesse, non aveva affrontato i danni economici, sociali e culturali arrecati dall’apartheid, per non parlare del modo in cui vi si sarebbe dovuto porre rimedio. E una parte del movimento di liberazione si risentì profondamente per il fatto che le atrocità commesse dai suoi membri fossero trattate nella stessa sede in cui si giudicava il regime dell’apartheid. Tuttavia Mandela continuò a sostenere la Trc, anche davanti all’opposizione di una parte dell’Anc. Insistette sul fatto che, per quanto inadeguati e limitati ne fossero i metodi, la Trc era essenziale per il benessere del Sudafrica. Nessuno, da nessuna parte, in futuro avrebbe potuto fingere di non sapere.
In materia di economia, sebbene fosse addolorato per la lentezza del progresso verso l’uguaglianza, Mandela cercò di bilanciare la sua visione della giustizia e quella storica dell’Anc con ciò che appariva possibile nell’altalenante clima economico globale. Qualcuno ha giudicato ondivaga la gestione dell’economia durante la sua presidenza, e molti commentatori di sinistra si sono lamentati del fatto che le sue politiche economiche non fossero abbastanza a favore dei poveri. Troppo era stato concesso ai sostenitori del regime precedente; il capitalismo e la metanarrazione del neoliberismo globale erano stati abbracciati con eccessivo entusiasmo. Queste critiche si sono intensificate dopo la morte di Mandela.
Qualche lettore potrà osservare che la condotta pratica di Mandela, in particolare durante la sua presidenza e in tutto il periodo successivo, si è trovata in consonanza con i temi dell’etica sociale cattolica – la riconciliazione, la pace (ma non il pacifismo assoluto), la giustizia economica, l’attenzione agli emarginati e al bene comune, per citare solo alcuni aspetti –, e concludere che egli aveva una visione del mondo profondamente cristiana. Paradossalmente, sebbene Mandela in pubblico apparisse non molto religioso, una ricerca recente ha rivelato la sua profonda fede fin dalla sua infanzia metodista, che lo ha sostenuto quando era prigioniero a Robben Island, nel corso della sua presidenza e fino alla morte[9].
Sebbene frequentasse di rado la chiesa, Mandela leggeva la Scrittura, pregava e stabilì stretti rapporti con i leader religiosi di tutte le fedi, ma – temendo lo sfruttamento della religiosità personale praticato da alcuni politici, ed essendo consapevole delle diversità religiose del Sudafrica – evitò dichiarazioni pubbliche sulla propria fede personale.
Polemiche postume
La fama postuma di Mandela ha subìto un grave colpo dopo la sua morte, per i dubbi sollevati sulla sua eredità di statista. Dall’estrema sinistra egli è stato contestato per le sue politiche economiche e per la sua disponibilità, ritenuta eccessiva, ad accogliere la minoranza bianca del Sudafrica.
Qui è necessario fare un piccolo chiarimento. In Sudafrica la sinistra è al tempo stesso variegata e popolare. Fondato nel 1921, il Partito comunista sudafricano (Sacp) – all’epoca l’unico partito politico aperto a tutte le razze – ha svolto un ruolo molto importante nella lotta per la liberazione. I suoi membri di solito erano anche membri dell’Anc e dei suoi movimenti alleati, inclusi i sindacati, durante e dopo l’era della lotta.
Il Sacp propugnava la teoria della «rivoluzione democratica nazionale» che prevedeva due tappe: dapprima la creazione di un Paese democratico, che in secondo tempo sarebbe dovuto diventare uno Stato socialista. Una forma modificata di tale teoria è stata successivamente adottata dall’Anc, e si è inserita nella visione teorica del partito di governo dopo il 1994. In ogni caso, sia l’Anc sia il Sacp in pratica sembravano abbracciare una forma di socialdemocrazia europea.
Il Sacp, che tra i sudafricani gode di un diffuso sostegno popolare a causa della sua reputazione di coraggio nella lotta contro l’apartheid e della sua attenzione ai poveri e, più recentemente, per la sua forte opposizione alla diffusione della corruzione nell’Anc durante la presidenza di Jacob Zuma, si mostra meno ostile nei confronti di Mandela e della sua presidenza. Pur essendo critico verso gli errori da lui commessi, e pur rammaricandosi del fatto che il nuovo corso insediatosi nel 1994 sia stato meno socialista di quanto il Sacp avrebbe voluto, il partito è realistico. Riconosce i limiti che le condizioni nei primi anni Novanta imponevano a Mandela e alla sua squadra. Il 1994 non ha visto la resa di un regime sconfitto a un Anc vittorioso, ma un trasferimento di potere negoziato. Inoltre, quel patteggiamento avveniva in un periodo di crescente conflitto civile, che rischiava di sfociare nell’anarchia violenta. Il compromesso era essenziale, sebbene pregiudicasse la visione del Sacp.
La parte della sinistra che ha attaccato più fortemente l’eredità di Mandela è un nuovo partito, gli Economic Freedom Fighters (Eff), ossia i «Combattenti per la libertà economica». Composti da una fazione secessionista della sezione giovanile dell’Anc e guidati dal leader espulso da quel movimento, Julius Malema, essi annoverano tra le loro file alcuni ex membri dei movimenti sociali di base. Gli Eff sostengono che nel 1994 Mandela e l’Anc hanno tradito la rivoluzione. Utilizzando spesso apertamente una retorica avversa ai bianchi e alla minoranza, essi ritraggono Mandela come un «venduto al monopolio capitalista bianco», un traditore che ha relegato nella povertà la maggioranza degli africani del Sudafrica.
Questa affermazione dev’essere valutata attentamente. Di fatto in quella retorica c’è del vero: la maggior parte degli africani sono ancora poveri, e la minoranza bianca controlla tuttora una parte notevole della ricchezza del Paese. Ma Malema e gli Eff ignorano – intenzionalmente o per scarsa conoscenza storica – le condizioni in cui Mandela e l’Anc hanno negoziato la transizione. La maggior parte dei membri e dei sostenitori degli Eff sono giovani – nati dal 1990 in poi – e sembrano avere imparato ben poco della storia del Sudafrica. Allo stesso modo, al «socialismo» a marchio Eff (se di socialismo in effetti si tratta, perché molti invece vedono in esso un gretto nazionalismo africanista e un ridistributivismo populista) manca la sofisticata elaborazione marxista che distingue il Sacp.
Le radici storiche di questa critica rivolta a Mandela dall’«estrema sinistra», a partire già dalla sua presidenza, si possono trovare nel sorgere dei movimenti sociali di base dei poveri, che protestavano per la lentezza o per il fallimento dell’Anc nel fornire beni e servizi essenziali, e per il fatto che i suoi sostenitori non avevano accesso ai posti di lavoro e alla terra[10]. Anche in questo caso la critica è almeno in parte giustificata: l’Anc non ha dato seguito alla propria retorica elettorale che prometteva una vita migliore per tutti: in alcune zone i servizi forniti dal governo sono stati segnati dall’incompetenza, e in altri dalla nascente corruzione.
Ironia della sorte, questo problema è stato aggravato, dopo la presidenza Mandela, dal suo successore Thabo Mbeki, per la sua adesione ancora più rigida alle politiche economiche neoliberiste[11]. Questa politica, combinata con lo stile di governo sempre più «imperiale» di Mbeki, ha fatto sì che lo stesso Anc lo costringesse alle dimissioni. Ma, paradossalmente, molti scorgono in Mandela la «causa» di disuguaglianze che si sono intensificate sotto il suo successore.
Verso una valutazione
Nella sua brillante introduzione a una ristampa in Sudafrica della prima raccolta degli scritti di Mandela, No Easy Walk to Freedom, l’analista politico William Gumede denuncia la povertà politica e intellettuale dell’Anc del dopo Mandela. La nuova generazione dell’Anc, afferma, sembra più impegnata a «lanciare insulti a chi è diverso da loro, con discorsi ambigui: sostengono di stare difendendo gli interessi dei poveri, eppure vivono con uno stile di vita opulento, utilizzando proprio quelle risorse che sarebbero destinate a tali interessi», e spesso vedono l’Anc come una carriera «piuttosto che un servizio pubblico e una seria ricerca del bene comune»[12].
Ironia della sorte, tra le persone che Gumede critica ci sono molti di coloro che oggi definiscono Mandela un «venduto». Politici come Jacob Zuma, l’ex presidente deposto di recente, e il leader degli Eff Julius Malema hanno fatto la bella vita, mentre approfittavano di una retorica populista – compresi gli attacchi rivolti al presunto tradimento della rivoluzione da parte di Mandela – per promuovere i loro programmi. È forse significativo il fatto che la reputazione di Mandela si sia andata offuscando nella misura in cui l’Anc diventava sempre più corrotto.
Quale sarà il «futuro» di Mandela? Molto dipenderà da quanto bene i sudafricani studieranno la loro storia. Una storia ridotta a tweet e a videoclip distribuiti per fini politici populisti non soltanto distorcerà, ma probabilmente minerà ulteriormente la reputazione di Mandela. Non le gioveranno neppure quei bianchi che, ingenuamente o per autocelebrarsi, mitizzano Mandela come una sorta di «zio Tom» che li amava e li comprendeva e assecondava i loro «speciali» bisogni, come invece non fanno i politici «anti-bianchi» di oggi.
Gli storici attuali e quelli futuri hanno un compito oneroso: dire la verità nuda e cruda, demitizzata – per quanto ciò possa essere complesso e politicamente fuori moda – a una comunità che sta rapidamente perdendo la propria consapevolezza di quella storia.
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[1]. Cfr N. Mandela, Long Walk to Freedom: the Autobiography, Boston, Little, Brown & Co., 1995 (tr. it. Lungo cammmino verso la libertà. Autobiografia, Milano, Feltrinelli, 2012); Id., Conversations with Myself, London, Macmillan, 2010 (tr. it. Io, Nelson Mandela. Conversazioni con me stesso, Milano, Sperling & Kupfer, 2018); Id., No Easy Walk to Freedom, London, Heinemann 1990 [1965] (tr. it. La non facile strada della libertà, Roma, Edizioni Lavoro, 1986); N. Mandela – M. Langa, Dare Not Linger: the Presidential Years, New York, Farrar, Strauss & Giroux, 2017 (tr. it. La sfida della libertà. Come nasce una democrazia, Milano, Feltrinelli, 2018).
[2]. M. Benson, Nelson Mandela, London, Penguin 1986 (tr. it. Nelson Mandela. Biografia, Bologna, Agalev, 1988); E. Boehmer, Nelson Mandela: A Very Short Introduction, Oxford, Oxford University Press, 2008; T. Lodge, Mandela: A Life Critical, Oxford, Oxford University Press, 2006; F. Meer, Higher Than Hope: The Authorized Biography of Nelson Mandela, London, Hamish Hamilton, 1988 (tr. it. Il cielo della speranza. Nelson Mandela: la vita e le lettere dal carcere, Milano, SugarCo, 1990); M. Meredith, Mandela: A Biography, New York, Public Affairs, 2010; A. Sampson, Mandela: The Authorised Biography, London, HarperCollins, 1999.
[3]. Cfr C. Glaser, The ANC Youth League, Johannesburg, Jacana 2012, 11-71.
[4]. Cfr J. Cherry, Umkhonto weSizwe, Johannesburg, Jacana, 2011; T. Simpson, Umkhonto weSizwe: the ANC’s Armed Struggle, Johannesburg, Penguin/Random House, 2016; R. Suttner, The ANC Underground in South Africa 1950-1976, Johannesburg, Jacana, 2008.
[5]. Cfr J. Gregory, Goodbye, Bafana: Nelson Mandela, My Prisoner, My Friend, London, Headline, 1995.
[6]. Cfr J. Kane, The Politics of Moral Capital, Cambridge, Cambridge University Press, 2001; T. Lodge, Mandela…, cit., 167-225.
[7]. Cfr J. Carlin, Playing the Enemy: Nelson Mandela and the Game That Made a Nation, New York, Penguin, 2008 (tr. it. Ama il tuo nemico. Nelson Mandela e la partita di rugby che ha fatto nascere una nazione, Milano, Sperling & Kupfer, 2014).
[8]. Cfr A. Boraine, A Country Unmasked: Inside South Africa’s Truth and Reconciliation Commission, Oxford, Oxford University Press, 2001.
[9]. Cfr D. Cruywagen, The Spiritual Mandela: Faith and Religion in the Life of South Africa’s Great Statesman, Cape Town, Zebra, 2016.
[10]. Cfr R. Ballard – A. Habib – I. Valodia (eds), Voices of Protest: Social Movements in Post-apartheid South Africa, Pietermaritzburg, University of KwaZulu Natal Press, 2006.
[11]. Cfr W. M. Gumede, Thabo Mbeki and the Battle for the Soul of the ANC, London, Zed Books, 2008; M. Gevisser, Thabo Mbeki: The Dream Deferred, Johannesburg, Jonathan Ball, 2007.
[12]. W. M. Gumede, «Introduction», in N. Mandela, No Easy Walk to Freedom, Cape Town, Kwela Books, 2013, 25.