In un precedente articolo è stato presentato Naji al-Ali, un fumettista palestinese che nelle sue vignette, già 30 anni fa, chiedeva la fine della guerra[1]. Anche in Israele ci sono fumettisti ebrei impegnati per la pace. Uno dei più importanti è Michel Kichka, nato a Liegi nel 1954 ed emigrato a 20 anni a Gerusalemme. È autore del recente romanzo grafico L’autre Jérusalem[2]. Il volume è l’ultimo di una trilogia in cui Kichka manifesta sia il proprio affetto sia la propria preoccupazione per l’Israele di oggi. Il primo, del 2012, La seconda generazione. Quello che non ho detto a mio padre[3], si presenta come un’autobiografia, ma è anche un drammatico interrogativo dei figli dei sopravvissuti alla Shoah. Il secondo volume, del 2018, Falafel sauce piquante, ha una prima parte in cui Kichka narra la propria vita a Gerusalemme e una seconda che racconta il suo lavoro di fumettista e l’impegno politico per la pace[4]. Infine, nel 2023, L’autre Jérusalem, ancora un testo autobiografico, tenta di rispondere alle domande fondamentali della sua vita: perché disegnare, perché l’umorismo, perché scrivere. L’epilogo è un’analisi inquietante su Israele.
«La seconda generazione»
L’idea de La seconda generazione nasce dal romanzo grafico di Art Spiegelman, Maus[5], che racconta la storia dell’autore sopravvissuto ai campi di concentramento. Kichka confessa di averlo comprato in una mostra e, dopo aver cominciato a leggerlo, non è riuscito a staccarsene prima della fine[6].Egli, tuttavia, sviluppa il racconto in modo diverso. Mentre Spiegelman mette al centro la storia del genitore, sia pure in un atteggiamento critico, Kichka parte dalla propria esperienza di bambino della seconda generazione, per mettere in discussione prima il silenzio del padre sul campo di concentramento e poi la sua trasformazione in testimone pubblico della Shoah. Il volume è in bianco e nero, in modo da riflettere l’atmosfera triste e drammatica del racconto.
Il padre di Kichka, reduce dai campi di concentramento, è l’unico superstite della famiglia. Tornato in Belgio, si sposa e ha quattro figli, ma non racconta nulla della sua storia, salvo qualche fuggevole cenno: «Questa minestra mi ricorda Auschwitz. Sapete perché?». «No, papà». «Perché là non ce l’avevamo!»[7]. Lascia di tanto in tanto trasparire dei segni della Shoah che non si possono nascondere: il numero impresso sul braccio, qualche frecciata ai nazisti («i crucchi»), l’interpretazione dei successi scolastici dei figli come una rivalsa su Hitler
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