
Ricorre quest’anno il centenario della nascita di Franco Basaglia, psichiatra e attivista italiano, una figura chiave nella lotta per la riforma psichiatrica in Italia. Il suo percorso professionale e le idee che ha promosso hanno rivoluzionato il trattamento delle persone affette da disturbi mentali nel Paese e nel resto del mondo. Attraverso la sua visione progressista e umanitaria, Basaglia ha promosso il concetto di destituzionalizzazione e ha sostenuto un approccio basato sui diritti umani e sulla dignità delle persone affette da disturbi psichiatrici.
Il percorso professionale di Franco Basaglia
Nato nel 1924 a Venezia, Basaglia studia medicina all’Università di Padova, laureandosi nel 1949. Inizia la sua carriera come psichiatra, lavorando in vari ospedali italiani. Durante questo periodo egli sviluppa una profonda consapevolezza delle condizioni disumane e delle pratiche coercitive all’interno delle istituzioni psichiatriche. Alla pratica medica unisce una grande varietà di letture, la psicanalisi di Freud, che vede molto in linea con l’analisi della società borghese di Marx e Gramsci[1], ma soprattutto gli autori della corrente detta «dell’antipsichiatria» (Cooper, Laing, Goffman, Foucault, Szász). Essi interpretano la malattia mentale, e in generale la devianza, come una forma di emarginazione e di stigma sociale a opera del potere istituzionale (in questo caso medico, ma riguarda tutte le categorie autoritarie: insegnanti, giudici, politici, forze dell’ordine), e insieme una maniera di esprimere la protesta nei suoi confronti.
Va tuttavia precisato che Basaglia non condivise la prospettiva dell’antipsichiatria e neppure la negazione della malattia mentale[2]. Egli si ritrova piuttosto nella psichiatria fenomenologica di Eugène Minkowski: la malattia psichica è un disperato tentativo di sopravvivenza, di dare organizzazione a un mondo disorganizzato che rischia di sommergere la persona. Per questo i sintomi che la manifestano hanno un preciso significato per il paziente e possono essere compresi solo facendo riferimento alla sua vicenda di vita.
L’esperienza di Gorizia
Nel 1961 Basaglia diventa direttore dell’ospedale psichiatrico di Gorizia. Quando vi entra per la prima volta, l’impressione è devastante: rivive l’esperienza trascorsa in carcere nel 1944, quando venne rinchiuso per attività partigiana, ritrova gli stessi odori di morte e putrefazione; il manicomio non gli appare diverso da un carcere. Il giudizio di Manacorda e Montella, due psichiatri italiani, è ancora più duro: «Gorizia era, come tutti i manicomi italiani, un autentico lager»[3]. Molti venivano chiusi in gabbie, o legati a letti bucati, in modo da poter espletare i propri bisogni senza doversi muovere, e trattenuti contro la loro
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