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Il Palazzo delle Esposizioni di Roma, inaugurato nel 1883 e chiuso per restauri dal settembre del 2004, è stato riaperto al pubblico. Le sue colonne, i suoi stucchi e le sue grandi scalinate, che rispondono al gusto neoclassico di Pio Piacentini che lo ha progettato, dal 6 ottobre scorso accolgono una grande mostra dedicata al pittore statunitense Mark Rothko (1903-70)[1]. La mostra, che resterà aperta fino all’Epifania del 2008, comprende una settantina di tele, provenienti da varie parti del mondo, che ripercorrono tutto l’itinerario compositivo del pittore. Cercheremo qui di dar conto dell’ispirazione di questo artista, che ormai è tra le figure più note e amate dell’arte contemporanea[2].
La scoperta dell’arte
Mark Rothko nacque il 25 settembre 1903, da una famiglia ebrea a Dvinsk nell’attuale Lettonia, col nome di Marcus Rothkowitz. A differenza dei suoi fratelli, egli viene educato alla scuola ebraica. È qui che avviene la sua primissima formazione, fatta di lettura delle Scritture, di studio del Talmud, di apprendimento dell’ebraico. E questo fino a quando, all’età di dieci anni, la sua famiglia lascia la Russia ed emigra negli Stati Uniti, a Portland (Oregon), dove risiedevano già alcuni parenti impegnati nel campo dell’industria tessile. Il piccolo Marcus, che resta già nel 1914 orfano del padre, si adatta a vendere giornali agli angoli delle strade e a lavorare nella fabbrica dello zio. Ma prosegue gli studi, diplomandosi nel 1921 e vincendo una borsa di studio per Yale, dove entra nell’autunno del ’22 per studiare filosofia e psicologia. L’esperienza dura poco, perché l’anno successivo la borsa di studio non gli viene rinnovata. Si apre dal 1924 una fase nuova nella vita di Rothko che lo vedrà spostarsi a New York e, per puro caso, scoprire l’arte come il suo vero talento. Infatti era andato a trovare un suo amico presso l’Art Student’s League, e lì, vedendo alcuni schizzi di studenti, intuì che quella sarebbe stata la sua vita. La sua prima partecipazione a una mostra è del 1928, e dall’anno successivo insegna presso il Brooklyn Jewish Center.
La stagione dell’insegnamento incide profondamente sull’animo di Rothko: l’esperienza che compie in classe lo illumina e lo fa riflettere. Guardando le produzioni dei suoi giovanissimi alunni egli si rende conto che la pittura «è un linguaggio naturale quanto il canto e la parola»[3]. I dipinti dei bambini risultano «freschi, vividi e differenti»[4]. Sono proprio queste le qualità che un artista deve possedere. Rothko non teme di riconoscere in tali lavori «vere e proprie opere d’arte». Perché? Perché «questi bambini hanno idee spesso acute, che esprimono con vivacità e stupore, riuscendo a trasmetterci quello che provano». Ma soprattutto perché essi trovano e si spera «continuino a trovare la stessa bellezza attorno a loro»[5].
Da queste parole è facile dedurre chi sia l’artista per Rothko, il quale avvia la propria produzione personale parallelamente al suo lavoro pedagogico: l’artista è colui che è in grado di trovare la bellezza attorno a sé e di esprimerla con vivacità e freschezza. Ritroviamo espressioni simili in un testo programmatico del ’38 nel quale Rothko evoca la «capacità di vedere cose ed eventi come se apparissero […] per la prima volta, liberi dai sedimenti dell’abitudine e dalle convenzioni»[6].
Un respiro al di là del caos
L’evoluzione artistica di Rothko lo vede però inizialmente impegnato in rappresentazioni urbane che evocano non la freschezza del reale, ma spazi angusti e solitudini, come quelli della metropolitana. Sono il soggetto dei suoi Subway Paintings. Sopravvive la rappresentazione della figura umana, ma appiattita in una dimensione bidimensionale. Con gli anni Quaranta la rappresentazione dell’uomo scompare per lasciare il posto a motivi mitologici e surreali. La seconda guerra mondiale è iniziata: solamente la rappresentazione di figure mitologiche come Antigone, Persefone e il Caos, ridotte però a segni o smembrate, possono dire la condizione spirituale del periodo, tra realtà e simbolo. Emblematica è soprattutto la tela dedicata a Tiresia, nella quale si avverte l’influsso de La terra desolata di T. S. Eliot. Nei miti Rothko riconosce immagini tragiche, primitive e atemporali. Il mito ritratto in maniera così surreale e frantumato sembra però cedere il passo all’allucinazione.
Tuttavia c’è in Rothko una forza che gli impedisce di bloccarsi nell’afasia allucinata o nel grido di un caos senza speranza. C’è una passione per «la realtà materiale del mondo e la sostanza delle cose»[7] che lo preserva dal rimanere un artista interessante ma mediocre, chiuso in un mondo di forme mitiche allucinate per esprimere la tragedia del momento storico. Noi non ricordiamo Rothko come un testimone della sua epoca, ma come un artista che ha saputo aprire nuove visioni. Il cammino però non è stato affatto breve. Il 1946 ne rappresenta un momento importante. Rothko comincia a dipingere ciò che la critica ha voluto definire multiforms.
Che cosa sono i multiforms? Come si possono definire? Sono macchie di colore che sembrano sorgere dall’interno dei dipinti e che si incontrano senza soluzione di continuità. Chiazze di colore dunque, che si intrecciano, si compongono e si scompongono come nuvole. Le tele sembrano animarsi e comunicare ciò che Rothko ha definito plasticity, ottenuta in pittura «per mezzo di una sensazione di movimento sia all’interno della tela sia al di fuori, dallo spazio anteriore verso la superficie. L’artista invita così lo spettatore a intraprendere un’escursione nel mondo della tela. Questi deve muoversi insieme alle forme dell’artista dentro e fuori, sopra e sotto, in diagonale e in orizzontale; deve girare attorno alle sfere, passare attraverso i tunnel, planare sui pendii, effettuare a volte una prodezza aerea per volare da un punto all’altro, attratto da un’irresistibile calamita attraverso lo spazio, penetrare in recessi misteriosi»[8].
Tutto questo movimento coinvolge lo spettatore: è come se l’esigenza profonda fosse il superamento radicale della solitudine, e la tela ricominciasse a «respirare e a tendere ancora le proprie braccia (breathing and stretching one’s arms again)»[9]. Questo respiro ha una dimensione drammatica. Non è puro movimento di forme astratte. Le zone di superficie pittorica, cioè le macchie, per Rothko hanno «la concretezza pulsante di carne e ossa, la ricettività di gioia o dolore», che assorbe il respiro della vita. Sono gli attori di un dramma teatrale «in grado di recitare in modo drammatico senza imbarazzo e di eseguire gesti senza vergogna»[10]. Ma perché macchie di colore e non figure umane o elementi ordinari del mondo che ci circonda? Rothko riflette sul fatto che ci fu un tempo nel quale gli artisti vivevano in una società più «concreta» della nostra, dove «il bisogno pressante di un’esperienza trascendente era ben compreso e gli era conferito uno statuto ufficiale». Adesso invece, a suo giudizio, tutto questo non è più, e dunque «l’identità familiare delle cose va ridotta in polvere» per aprire la tela a questa esperienza trascendente, senza la quale l’arte sprofonda nella «malinconia»[11]. Senza una trascendenza è proprio questo, dunque, il sentimento che regna sovrano sulla vita dell’uomo: la malinconia.
Un «matrimonio di spiriti»
Col passare del tempo l’intuizione della vivacità dell’essere, avuta sin dagli inizi del suo insegnamento a Brooklyn, assume la forma di un respiro profondo: l’opera tende le braccia verso il suo osservatore. Qui si riconosce una delle esigenze fondamentali di Rothko e della sua arte: concepire il quadro come esperienza che lo spettatore è chiamato a compiere in prima persona senza altre mediazioni. «Un quadro vive in compagnia, dilatandosi e ravvivandosi nello sguardo di un visitatore sensibile»[12]: Rothko non prevede mediazioni critiche tra opera e spettatore, e neanche lunghe spiegazioni. La comprensione dei suoi dipinti «deve essere il frutto di un’esperienza consumata tra il quadro e l’osservatore. Il riconoscimento dell’arte è un autentico matrimonio di spiriti. E nell’arte, come nel matrimonio, la mancata consumazione è una condizione per l’annullamento»[13].
Siamo tra il 1949 e i primi anni Cinquanta. Nelle tele di Rothko comincia a delinearsi una disposizione orizzontale e parallela tra le macchie di colore, che diventano come rettangoli che ora hanno la stessa larghezza, ora invece si espandono sia verso il basso sia lateralmente. Le tele sono grandi fino a rasentare i tre metri di altezza: «Dipingere un quadro di dimensioni ridotte vuol dire mettere se stessi fuori dalla propria esperienza, considerare un’esperienza attraverso uno stetoscopio o una lente riducente. In qualunque modo dipingete un quadro di dimensioni più grandi ci siete dentro. È qualcosa che non si riesce a controllare»[14]. D’altra parte, in tal modo anche lo spettatore non può che esservi risucchiato dentro: «Voglio creare uno stato d’intimità – una transazione immediata. I dipinti di grande formato vi mettono al loro interno»[15]. Lo spettatore è dentro, il pittore è dentro: la loro è «la scala dell’esperienza umana»[16]. Rothko non prevede alternative: per fare l’esperienza di un quadro bisogna «entrarci dentro», affacciarsi sul panorama che dispiega. Niente può sostituire questa immediatezza. Il margine alla fine apparirà allo spettatore, immerso nel colore, come un orizzonte più che come un limite.
Descrivere questi muri luminosi è impossibile. Diciamo pure che lo stesso Rothko postula tale impossibilità. Si possono leggere però le esperienze di visione. La pittura dell’artista statunitense genera non riflessione ma esperienza, che si esprime in narrazioni, racconti e testimonianze. A volte anche altre opere d’arte, come testimonia il cinema di Antonioni, che a lui si è ispirato[17].
Muri di luce: la tela come finestra
In questa fase predominano i gialli e i rossi luminosi e intensi. Alcuni dipinti mostrano lungo i meridiani interni zone particolarmente intense e luminose che condensano in una striscia sottile tutta l’energia del quadro e racchiudono in sé un potenziale cinetico di grande tensione[18]. Nel 1950 Rothko, mentre era in viaggio in Europa, era rimasto particolarmente affascinato dall’Italia[19]. È da notare, in particolare, il suo interesse per il convento di San Marco a Firenze, dove era rimasto colpito profondamente dagli affreschi dell’Angelico[20]. Rothko conosceva bene l’arte italiana già da prima, e le sue riflessioni, in particolare sul Rinascimento, sono ampie e documentate[21]. Giotto, Tiziano, Michelangelo e Leonardo gli sono particolarmente cari. Giotto colpisce Rothko per l’uso audace del colore, che contribuiva a creare lo spazio all’interno di un dipinto, anche al di là di ogni fedeltà prospettica[22]. È colpito da Leonardo, in particolare per il potere espressivo che la luce ha nei suoi quadri[23]. L’artista statunitense ha abbracciato in modo esclusivo la forza emotiva della luce e del colore. Lo comprende bene, ad esempio, l’osservatore che contempla un quadro come Orange and Yellow (1956)[24]. Rothko non è interessato alla rappresentazione; non ha nulla da «mostrare». Al contrario, crea la possibilità di una epifania che si compie in quel luogo soggettivo nel quale la luce ci colpisce[25].
In questa tela, Rothko cerca la vibrazione di una luce viva, si potrebbe dire un assoluto con cui entrare in relazione, come se la tela fosse l’ultima incarnazione dell’icona, vista dalla parte ebraica. È, per citare la Lettera agli Ebrei, «l’evidenza delle cose che non si vedono» (Eb 11,1). Lette così come «icone ebraiche», potremmo dire rasentando l’ossimoro, assumono il loro pieno significato i contrasti cromatici di tutte le tele di Rothko. Essi sono di grande tensione e colpiscono lo spettatore. Ma si deve andare al di là. Rothko non è, come potrebbe apparire, un pittore semplicemente interessato ai rapporti tra forma e colore. Il suo interesse era più profondo, più radicale, come ha affermato in un’intervista: «Sono interessato solo ad esprimere emozioni umane fondamentali — la tragedia, l’estasi, l’estinzione e via di seguito — e il fatto che molte persone collassano e piangano quando si trovano di fronte ai miei dipinti è una prova che comunico queste emozioni umane fondamentali». Prosegue l’artista, dando un senso forte, nient’affatto puramente emotivo a questa esperienza: «Quanti piangono davanti ai miei quadri vivono la stessa esperienza religiosa che ho vissuto io quando li ho dipinti»[26]. Questo, per Rothko, è l’«essenziale» dei suoi quadri, che «sfugge» se ci si interroga solamente sui rapporti cromatici. C’è in ballo, dunque, l’«esperienza di una realtà trascendente»[27], «una sorta di preghiera a un dio sconosciuto»[28].
Si comprende bene dunque come tutta la tensione di Rothko non si diriga verso l’espressione di sé, dei suoi pensieri, dei suoi sentimenti o delle sue idee o visioni, ma verso la creazione di uno spazio di visione di cui artista e spettatore siano entrambi partecipi: «Non ho mai pensato che dipingere abbia niente a che vedere con l’espressione di sé. […] Ogni insegnamento incentrato sull’espressione di sé in arte è sbagliato e ha a che vedere piuttosto con la terapia»[29]. Rothko prosegue affermando che l’opera d’arte ha la vocazione ad essere non un «messaggio», ma una finestra sulla realtà, un’apertura sul mondo, capace di trasformare il modo ordinario di vedere le cose. L’artista è colui che ha il dono di aprire questa finestra sul mondo lì dove prima c’era un muro.
Il pittore dunque dichiara: «Io preferisco comunicare una visione del mondo che non appartiene totalmente a me stesso. L’espressione di sé è noiosa. Voglio parlare di quanto sia estraneo a me stesso – un vasto ambito di esperienza»[30]. L’opera parla della realtà e «dell’esperienza umana nel suo insieme»[31], non del mondo ristretto del suo autore. Essa può persino sorprendere, spiazzare l’artista. Scrive Rothko in proposito: «I quadri devono essere miracolosi: non appena uno è terminato, l’intimità tra la creazione e il creatore è finita. Questi diventa uno spettatore. Il quadro deve essere per lui, come per chiunque altro ne farà esperienza più tardi, una rivelazione, una risoluzione inattesa e inaudita di un bisogno eternamente familiare»[32]. Questa rivelazione assume tratti di trascendenza. Sappiamo che Rothko fu profondamente colpito dai mosaici bizantini visti nella sua visita in Italia del 1950. Il loro sfondo oro esprime la profondità di una trascendenza che egli ha evocato in vari momenti riferendosi a «un rituale accolto come riferimento a un regno trascendente (a ritual accepted as referring to a trascendent realm)»[33]. In tal senso ci si potrebbe spingere fino a leggere le sue tele come painted veil, un velo del Tempio dipinto o un’iconostasi, che insieme tende a nascondere e mostrare una Presenza[34].
Dai «Murals» alla «Rothko Chapel»
Nel 1958 presso il padiglione statunitense della XXIX Biennale di Venezia fu presentato un gruppo di opere di Rothko. Fu allestita una «Stanza Rothko» che riuniva dieci opere realizzate tra il 1957 e il 1958. In esse si coglie il passaggio a un cromatismo dai toni più scuri: dagli squillanti rossi, arancioni, gialli, si passa ai blu-verde, ai marroni, ai contrasti rosso-nero. Alla metà del 1958 furono commissionati all’artista alcuni dipinti parietali con cui decorare uno spazio nel Seagram Building di Park Avenue a New York. Rothko avrebbe dovuto decorare 50 metri quadri destinati al ristorante Four Season[35]. Questi murals, orientati insolitamente in orizzontale, comunicano un senso claustrofobico grazie a una tavolozza cromatica basata su rosso cupo e marrone. Il senso di chiusura è dato da elementi che sembrano colonne, porte e finestre che comunque fanno intuire una dimensione ulteriore e altamente misteriosa. Il lavoro ai Seagram Murals non fu affatto lineare e si concluse con un nulla di fatto. Rothko infatti, dopo essere andato a cena in questo ristorante, rimase sconvolto dall’ambiente pretenzioso e rinunciò a consegnare le tele ormai già pronte: «Vidi la loro destinazione finale. Era ovvio che le due cose non erano fatte l’una per l’altra»[36].
Ben altro esito ebbero gli Harvard Murals. Rothko dipinse per l’Holyoke Center della prestigiosa Università un trittico e altri due grandi dipinti da parete, tutti su sfondo rosso cupo, con una ispirazione simile a quella dei dipinti preparati per il Seagram Building. Il rettore dell’Università, Nathan Pusey, nel vederli commentò che erano molto tristi. Rothko diede una spiegazione religiosa, affermando che «la sensazione cupa del trittico doveva comunicare le sofferenze della passione di Gesù, che i due grandi dipinti più chiari rimandavano all’Oriente e alla Resurrezione»[37]. Probabilmente, come qualcuno ha sostenuto, fu semplicemente un modo per renderli più accetti al rettore, un fervente metodista del Midwest. Può darsi però che ci fosse dell’altro, di più profondo.
In ogni caso, poco dopo, John e Dominique de Menil, una coppia di abbienti collezionisti di Houston, nel 1965 gli commissionarono alcuni dipinti per una cappella da realizzare nella cattolica University of St. Thomas della loro città. L’idea venne ai de Menil proprio dopo aver contemplato i murals per il Seagram Building e per l’Holyoke Center. A muoverli verso un interesse profondo per l’incontro tra arte e religione fu la figura carismatica del domenicano Marie-Alain Couturier, noto per i suoi contatti e il suo ruolo attivo nella realizzazione delle opere di carattere religioso di artisti come Braque, Matisse (e la sua celebre cappella di Vence), Rouault, Léger, Bazaine, Chagall o un architetto come Le Corbusier.
L’opera frutto di questo incontro è quella oggi ben nota come la Rothko Chapel. L’artista fu entusiasta della commissione, come ci appare chiaro da una lettera che egli scrisse ai coniugi: «La grandiosità di ogni livello di questa esperienza e il significato del compito nel quale mi avete coinvolto supera tutti i miei preconcetti. E mi insegna ad andare al di là di quanto ritenevo possibile per me. Di questo vi ringrazio»[38].
A Rothko fu garantita anche la possibilità di occuparsi dell’architettura dell’edificio. Egli scelse una pianta ottagonale, capace di ricordare un fonte battesimale, in modo da collocare i dipinti attorno alla persona che entra nello spazio sacro. La luce doveva penetrare dall’alto, da una cupola, ed essere filtrata da teli. In tre anni furono realizzate 14 opere di grande formato. Niente prova un riferimento esplicito al numero delle stazioni della Via Crucis, e tuttavia non sembra improbabile, visto che il luogo di culto avrebbe dovuto essere in origine cattolico. Ricordiamo inoltre che l’amico pittore, anch’egli ebreo, Barnett Newman, in quegli anni completava le sue 14 Stations of the Cross, oggi esposte alla National Gallery of Art di Washington. Ma soprattutto notiamo che il motivo della croce si trova già agli inizi della produzione di Rothko, cioè nel 1941-42, quando dipinge uno dei suoi tanti Untitled, nel quale Cristo appare smembrato come a rendere in pienezza la consapevolezza tragica dell’evento del Golgota, che sembra diventare anche simbolo della tragedia che si stava compiendo nel conflitto mondiale.
Per la prima volta sono quadri monocromi: al centro un trittico in una tonalità marrone. Da questa tonalità ombrosa si staccano sfumature che vanno dall’indaco al cremisi, al blu, fino a diventare «vellutati poemi della notte»[39]. Essi, pur usando colori cupi, sembrano misteriosamente risplendere dall’interno. La Rothko Chapel è diventata uno spazio interreligioso, ed è attiva come tale[40]. Non è un museo, dunque. È pensata non come spazio espositivo ma come spazio di culto. È un luogo dove l’esperienza artistica e quella contemplativa restano in piena tensione.
Dore Ashton, amico e biografo di Rothko, a proposito di questa cappella ricorda come l’artista si fosse nutrito di letture patristiche sin da quando era giovane[41]. Ashton scrive dell’attrazione per Origene, Clemente di Alessandria, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa. Ciò che colpiva Rothko in queste letture pare fosse la capacità di vedere l’universo come un essere organico, come un tutt’uno che respira. Ma soprattutto la capacità di intuire significati allegorici. In questa dinamica egli prediligeva il simbolismo della scala, che spinge ad andare oltre. La bellezza sensibile in tale visione è una scala che ci conduce verso la sua origine. Già M. Butor, in un suo celebre saggio apparso su Critique, la rivista di George Bataille, commentando la tela White and Greens in Blue del 1957, scriveva: «Il differenziale cromatico fra le due macchie in alto fa arretrare quella più grande in un’estrema lontananza, mentre la macchia bianca appare chiaramente soltanto in prossimità delle altre, fondendosi diversamente nel margine, sottoponendosi alla sua potenza, affermandone la continuità. Stabilisce chiaramente un legame fra noi e la luce venuta da altrove; è un invito a salire i gradini di questa scala di Giacobbe»[42].
Il respiro dell’Oriente cristiano fluiva nella sua ispirazione anche grazie alle sue visite a Ravenna e a Torcello. Sappiamo come il battistero veneto e la chiesa di Santa Fosca colpirono molto l’artista. Proprio dalla visita all’isolotto della laguna di Venezia probabilmente egli trasse ispirazione per la pianta ottagonale della sua cappella. Quando Rothko avverte la grandezza della committenza di un luogo sacro, questa esperienza lo conduce al di là di ciò che riteneva possibile per se stesso. In tale situazione Ashton legge almeno una «condizione psicologica di religiosità»[43]. Lo sviluppo del progetto ha dato forma a questa possibilità astratta realizzando non un luogo in cui fare «un’esperienza di meditazione privata come quella a cui si sottopone chi contempla un mandala, ma una esperienza del vertice del lavoro della vita di un uomo spirituale»[44].
Dominique de Menil, nel suo discorso di inaugurazione il 26 febbraio 1971, a un anno esatto dalla morte dell’artista, affermò: «Rothko volle conferire ai suoi dipinti la massima efficacia possibile. Li voleva intimi e senza tempo, e in effetti sono intimi e senza tempo. Ci circondano senza racchiuderci. Le loro superfici cupe non bloccano il nostro sguardo. Una superficie chiara è più attiva, induce l’occhio a fermarsi. Ma attraverso i toni rosso-bruni possiamo continuare a vedere nell’infinito. Siamo ricoperti di quadri, e solamente l’arte astratta può condurci sulla soglia del divino. C’è voluto molto coraggio, per Rothko, per decidersi a dipingere quadri neri come la notte. Eppure sento che proprio quella era la sua grandezza»[45].
Il nero tra solitudine e mistero
Rothko aveva inaugurato nel 1964 la pittura monocroma con i cosiddetti Blackform Paintings, nei quali un’unica superficie di forma tendenzialmente quadrata fluttua su un fondo dalla tinta unita, fino a quadri nei quali sembra che sia nero dipinto su nero. La mostra romana presenta al visitatore, ad esempio, il dipinto No. 8 che, a un primo sguardo, appare una semplice tela dipinta di nero. Se però lo spettatore ha pazienza e si sofferma più a lungo senza passare subito oltre, scoprirà un gioco di contrasti tra il luminoso e il cupo, tra l’opaco e il lucido. Poi pian piano, e in questo Rothko sembra sfidare lo spettatore a una partecipazione intensa e senza vie di fuga, l’occhio comincia a cogliere le sfumature marroni in basso. Soltanto l’esperienza diretta può svelare all’osservatore queste sfumature. È ovvio che nessuna riproduzione a stampa potrà mai rendere la visione del quadro, che, riprodotto, apparirà sempre e comunque una semplice tela perfettamente nera. Quale il significato di questa tela? Subito dopo lo stupore, lo spettatore che è rimasto paziente a guardare da questa finestra apparentemente cieca si rende conto che Rothko si è spinto oltre l’impossibile, cioè ha riempito di luce il nero. Di più: ha fatto sì che la luce si sprigionasse dal nero.
Tra il 1969 e il 1970, gli ultimi due suoi anni di vita, Rothko approfondisce ed estremizza l’uso di colori più cupi. È il tempo dei Black on Gray, o anche Brown on Gray, Paintings. Qui la bipartizione orizzontale è perfetta con rigore e distacco: la metà inferiore è grigia, quella superiore nera o marrone. Lungo la linea di separazione tra i due colori l’orizzonte si increspa come a esprimere una forte tensione tra le due aree. Commenta Oliver Wick, il curatore della mostra romana: «È ancora visibile un lontano riferimento paesaggistico, sembra di osservare il nulla da un angolo della terra»[46]. Ha ragione. È come se si osservasse lo spazio dalla luna. Wick decodifica la visione con la parola isolamento. In realtà, potrebbe essere accostata a questa una potente sensazione di mistero, di tensione verso un aldilà di cui è testimone proprio l’orizzonte intermedio tra i due campi di colore. Un mistero avvolto drammaticamente nel buio.
Il 25 febbraio 1970 Oliver Steindecker, assistente dell’artista, trovò Rothko riverso sul pavimento tra il bagno e la cucina, ricoperto di sangue e con i polsi tagliati da una lama. Cosa ci sia stato nel suo animo e da quale abisso insormontabile sia stato travolto non è possibile sapere. Varie, e soprattutto di carattere affettivo, le cause di una depressione che lo serrò negli ultimi mesi della sua vita: non si riprese dal divorzio vissuto qualche mese prima[47]. Al di là di ogni giudizio di ordine biografico, è come se avvertissimo che Rothko si sia confrontato con il negativo della luce e del colore a cui aveva dedicato l’esistenza. Si è teso fino a trovare luce nel nero, ma a questo punto è come se si fosse aperto un abisso che non avrebbe potuto avere che due esiti: Dio o il nulla. La sua tensione verso l’assolutezza resa icona di luce e colore ha toccato il limite; è diventato confine teso tra grigio e nero. È come se vedessimo Rothko affacciarsi dalla zona grigia dei suoi Black on Gray Paintings e da lì osservare spaesato il nero. È l’esperienza che egli fa compiere al pubblico di questi suoi quadri.
Il limite può segnare un tuffo nell’assoluto o lo svelamento dell’infinita vanità del tutto. In questo senso l’opera di Rothko resta un confronto con l’assoluto, ed è religiosa in radice, nel senso che è icona della finitezza tesa all’estremo, una notte oscura che si è rivelata fatale[48]. Riempiendo di luce il nero e fissando tensioni titaniche sul filo dell’orizzonte che separa grigio e nero, l’artista aveva provato a «porre fine a questo silenzio e a questa solitudine», facendo sì che la sua tela ricominciasse a «respirare e a tendere ancora le proprie braccia»[49].
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[1] Precedentemente l’unica retrospettiva, organizzata vivente l’artista dal Museum of Modern Art di New York, fu portata nel 1962 a Roma e presentata alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Successivamente si registra quella commemorativa a Ca’ Pesaro, in occasione della Biennale di Venezia del 1970, subito dopo la sua morte. Segnaliamo il catalogo della mostra: O. Wick (ed.), Rothko, Milano, Skira, 2007.
[2] Raccomandiamo gli scritti dell’artista raccolti in volume dal figlio Christopher: M. Rothko, L’artista e la sua realtà. Filosofie dell’arte, ivi. Oltre a questo volume cfr Id., Scritti sull’arte: 1934-1969, a cura di M. López-Remiro, Roma, Donzelli, 2006, che raccoglie lettere, discorsi e articoli. Ricordiamo anche la precedente selezione più ristretta: A. Salvini (ed.), Scritti, Milano, Abscondita, 2002. Una presentazione globale ma sintetica nella nostra lingua con buone illustrazioni è J. Baal-Teshuva, Rothko 1903-1970. Il dipinto come dramma, Köln, Taschen, 2003. La prima monografia critica italiana sull’artista è R. Venturi, Mark Rothko. Lo spazio e la sua disciplina, Milano, Electa, 2007.
[3] M. Rothko, Scritti sull’arte…, cit., 3.
[4] Ivi, 4.
[5] Ivi, 5.
[6] A. Salvini (ed.), Scritti, cit., 12.
[7] M. Rothko, Scritti sull’arte…, cit., 59.
[8] Id., L’artista e la sua realtà, cit., 100 s.
[9] Id., Scritti sull’arte…, cit., 81, ma abbiamo corretto la traduzione. Cfr O. Wick, «“Classico e moderno: l’uno la negazione dell’altro?”. Mark Rothko, l’Italia e la nostalgia della tradizione», in Id. (ed.), Rothko, cit., 16.
[10] M. Rothko, Scritti sull’arte…, cit., 79.
[11] Ivi, 80.
[12] Ivi, 77.
[13] Ivi, 44.
[14] Ivi, 103.
[15] Ivi, 180.
[16] Ivi, 137.
[17] Cfr J. Weiss, «Temps mort: Rothko e Antonioni», in O. Wick (ed.), Rothko, cit., 45-55.
[18] Cfr Id., «“Classico e moderno”…», cit., 17.
[19] Cfr G. Carandente, «I tre viaggi italiani di Mark Rothko», ivi, 33-39.
[20] Cfr, ad esempio, D. Ashton, About Rothko, Cambridge (Ma), Da Capo Press, 20032, 147-150.
[21] Cfr M. Rothko, L’artista e la sua realtà, cit.
[22] Cfr, ad esempio, ivi, 116 s.
[23] Cfr ivi, 78-81.
[24] Alto 2 metri e 30 centimetri e largo 1 metro e 85, è esposto alla Collection Albright-Knox Art Gallery di Buffalo (NY).
[25] Cfr O. Wick, «“Classico e moderno”…», cit., 29 s.
[26] M. Rothko, Scritti sull’arte…, cit., 170.
[27] J. Baal-Teshuva, Rothko: 1903-1970, cit., 57.
[28] M. Butor, «Le moschee di New York o l’arte di Mark Rothko», in M. Rothko, Scritti, cit., 67. Nel 1994 si tenne a Yale il convegno «Contemplating Rothko: A Symposium on the Religious Nature of Mark Rothko’s Art». Cfr anche S. J. Barnes, The Rothko Chaptel. An Act of Faith, Houston (Tx), The Rothko Chapel, 19962.
[29] M. Rothko, Scritti sull’arte…, cit., 177.
[30] Ivi, 180.
[31] Ivi, 47.
[32] Ivi, 79 s.
[33] Ivi, 80.
[34] M. Gibson, «Rothko. the painted veil», in Rothko, numero fuori serie della rivista Connaissance des arts, 1998, 36-45.
[35] Cfr «Mark Rothko: note sull’incarico per i Seagram Murals», in O. Wick (ed.), Rothko, cit., 169 s.
[36] Ivi.
[37] J. Baal-Teshuva, Rothko 1903-1970, cit., 68.
[38] Citato in D. Ashton, About Rothko, cit., 176.
[39] Ivi.
[40] Cfr https://www.rothkochapel.org/
[41] Cfr D. Ashton, About Rothko, cit., 168-185.
[42] M. Butor, «Le moschee di New York…», cit., 70.
[43] D. Ashton, About Rothko, cit., 177.
[44] Ivi. «Mandala», parola che in sanscrito significa «cerchio», è usata spesso per indicare un disegno composto dall’associazione di figure geometriche che rappresenta, secondo i buddisti, il processo di formazione del cosmo.
[45] In J. Baal-Teshuva, Rothko: 1903-1970, cit., 74 s.
[46] O. Wick, «“Classico e moderno”…», cit., 24.
[47] Non abbiamo accennato fin qui ai dettagli biografici del pittore. Quando si suicidò egli stava facendo uso di antidepressivi. Dopo la separazione (1944) dalla prima moglie Edith Sachar (sposata nel 1932) si era sposato con la giovane Mary Alice Beistle (1945), dalla quale ebbe due figli. Tuttavia nel 1969 si separò anche da quest’ultima. Ciò lo fece cadere in uno stato depressivo dal quale non si risollevò. Era diventato – testimoniano gli amici – diffidente, preoccupato, solitario; abusava di alcool e di fumo.
[48] Sette anni prima, la poetessa Sylvia Plath, giungeva allo stesso esito tragico. Qualche giorno prima aveva scritto Mystic, una poesia di grande intensità, che lascia traccia di un’esperienza spirituale vissuta, di cui nulla sappiamo: Quando si è visto Dio, qual è il rimedio? / Quando si è stati afferrati e sollevati / senza che una sola parte sia tralasciata, / non un dito, / non un capello, e usati, / usati fino in fondo, nelle conflagrazioni del sole, nelle macchie / che si allungano da antiche cattedrali / qual è il rimedio? È questa poesia, con le «macchie» e le «conflagrazioni del sole» cui accenna, che ci viene in mente pensando alla fine di Rothko. Cfr il nostro «“La lunga attesa dell’angelo”. La poesia di Sylvia Plath», in Civ. Catt. 2005 I 27-40.
[49] M. Rothko, Scritti sull’arte…, cit., 81.