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La prima invasione del Libano da parte degli israeliani avvenne nell’estate 1982[1], anche se già l’anno precedente c’era stato un micidiale raid aereo su Beirut da parte dell’aviazione israeliana, accompagnato da azioni di guerriglia nel sud del «Paese dei cedri»: qui a partire dal 1970, dopo gli accordi del Cairo, si era installato il comando generale dell’Olp, mentre un gran numero di profughi palestinesi si era insediato in parte nella periferia di Beirut, in parte nella zona sud del Libano, territorio tradizionalmente abitato da contadini sciiti. Gli israeliani, con la distruzione dell’Olp e della sua infrastruttura politico-militare, miravano, da un lato, ad annullare sul campo l’organo di rappresentanza politica dei palestinesi e le sue formazioni armate, considerate alla stregua di organizzazioni terroristiche; dall’altro lato, a normalizzare la situazione in Cisgiordania e a Gaza in senso favorevole agli interessi israeliani, portando a termine l’annessione dei territori occupati nella guerra dei Sei Giorni (1967). Tale strategia, in quel momento, era sostenuta soprattutto dagli Stati Uniti. Essi infatti non avevano simpatia per l’Olp, per il suo programma rivoluzionario e per i suoi legami con i movimenti radicali e di sinistra europei o con i regimi antimperialisti del Terzo Mondo. Il movimento palestinese, insomma, era considerato dall’amministrazione statunitense come un anello importante del circuito della «sovversione comunista internazionale».
Beirut e gli israeliani
Nessun serio ostacolo fu posto dai Paesi occidentali agli israeliani, intenzionati a colpire i membri dell’Olp ovunque si trovassero. Così, Beirut, allora la capitale politica e culturale più importante del mondo arabo, fu assediata, assetata e distrutta senza pietà dall’artiglieria e dall’aviazione israeliana, senza che la comunità internazionale intervenisse per frenare il massacro. La città fu divisa in due parti dalla cosiddetta «linea verde», presidiata da micidiali cecchini che sparavano sui nemici[2].
Nella parte est, quella cristiana, viveva la borghesia filoccidentale e cosmopolita; nella parte ovest, quella musulmana, vivevano in condizioni precarie, a volte misere, soprattutto sciiti, drusi e i nuovi arrivati palestinesi. Gli israeliani, insieme al progetto di eliminare gli attivisti dell’Olp, con il pretesto della lotta contro il terrorismo internazionale, sotto lo sguardo impassibile e colpevole del mondo intero — in particolare con la complicità di alcuni Paesi arabi — operarono nel contempo la liquidazione di quel poco che ancora rimaneva del vecchio nazionalismo arabo antimperialista, che fino a poco tempo prima aveva animato le piazze delle principali capitali arabe e allevato un’intera generazione di politici e militari carismatici, capaci di tenere testa alle richieste o alle pretese dell’Occidente.
L’attacco israeliano fu fermato dagli alleati americani soltanto dopo 70 giorni di assedio ininterrotto. Tra le tanti stragi compiute, soltanto quelle più note di Sabra e Chatila (16 settembre 1982) riuscirono ad attirare l’attenzione del mondo intero.
L’esercito israeliano, che occupò il sud del Libano dal 1982 al 1985, in effetti permise (o non ostacolò) la nascita e lo sviluppo di milizie sciite fondamentaliste, nonché il riarmo dei palestinesi in questa regione. Per quale motivo? La strategia portata avanti a tale riguardo fu di favorire la divisione, e quindi la discordia, tra i gruppi indigeni, per poter controllare meglio la situazione e intervenire a tempo opportuno. A Beirut ovest, già dal febbraio 1984, fu la milizia sciita (laica) di Amal a imporsi come forza dominante, una volta che la VI brigata dell’esercito libanese fu distrutta dai bombardamenti israeliani su quella parte della città. I soldati sciiti appartenenti ad essa, subito dopo il conflitto, la abbandonarono per unirsi alla milizia di Amal. In quel periodo, nella parte sud del Libano e nella periferia di Beirut, iniziarono a organizzarsi gruppi di islamisti radicali, chiamati Hezbollah (cioè «partito di Dio»). Essi erano finanziati dagli iraniani e controllati e indottrinati dai guardiani della rivoluzione.
In alcuni mesi, scrive Geoges Corm, «la metà del Paese posto a sud della strada da Beirut a Damasco, che era stata durante i decenni precedenti un luogo di nutrito panarabismo laico e socialisteggiante, si trasformò quasi in una repubblica islamica di tipo iraniano, e vi si vedevano sempre più turbanti»[3]. Ben presto in questa regione iniziò la caccia ai comunisti, e cominciò ad essere formulata la richiesta di installare in Libano una Repubblica islamica sul modello dell’Iran. Gli islamisti poco alla volta presero il sopravvento sui «fratelli laici» delle milizie di Amal. I frequenti rapimenti di cristiani che si trovavano nella zona sud di Beirut, ormai controllata dagli sciiti, provocò l’esodo di migliaia di essi nell’altra parte della città; la parte sud, poco alla volta, si andò così svuotando della presenza non gradita di occidentali.
Il Libano trampolino per l’Iran e la Siria
Secondo Corm, il Libano «divenne per l’Iran un trampolino eccezionale, come era stato per i palestinesi alcuni anni prima»[4]. Muovendo da questa regione, così importante nelle vicende mediorientali, l’Iran tesserà la sua politica di influenza su tutta l’area e diventerà negli anni successivi uno degli attori più significativi della politica mediorientale.
La guerra tra drusi e sciiti a Beirut ovest nel marzo 1987 offrì alla Siria l’occasione per entrare in Libano, al fine, affermava la propaganda di Damasco, di aiutare la popolazione civile musulmana terrorizzata dalla violenza. In realtà i siriani non intendevano lasciare campo libero ad altre potenze (come l’Iran); essi volevano raccogliere i frutti di quanto avevano seminato negli anni precedenti e assicurarsi una parte non secondaria nella contesa politica; a tale scopo appoggiarono l’azione di Hezbollah nel sud del Paese. Tale progetto fu ulteriormente rafforzato dal giovane figlio del presidente Hafez al Assad, morto nel 1999, Bashir, il quale fece di Hezbollah il suo maggior alleato in Libano.
Il «Partito di Dio» nel corso degli anni diventò, nella parte sud del Libano, un vero e proprio movimento militare di massa, dipendente dagli ayatollah sciiti, finanziato ed equipaggiato dall’Iran e dalla Siria. Nel 2000, dopo atti di guerriglia logorante, esso costrinse le forze di occupazione israeliane ad abbandonare definitivamente il Paese dei cedri: tale fatto diventerà in tutto il mondo islamico, e non soltanto sciita, il simbolo della «resistenza libanese», non più incarnata dalla lotta dei palestinesi. Ciò accrescerà di molto il prestigio di Hezbollah libanese, che diventerà uno dei protagonisti più significativi nel complicato e variabile mondo mediorientale. I generosi sussidi iraniani gli consentivano, inoltre, di essere presente sul territorio, portando avanti un’opera di assistenza molto attiva nei confronti degli ambienti sciiti più poveri; questo gli attirò la simpatia e il sostegno di gran parte della popolazione musulmana. Investì, però, anche sulle nuove tecnologie legate alla comunicazione, facendo della propria antenna televisiva, Al Manar (il faro), la maggior concorrente di Al-Jazeera nel mondo islamico radicale.
Gli sciiti libanesi, nonostante i successi politici di Hezbollah, furono chiaramente penalizzati nella nuova strutturazione della compagine istituzionale dello Stato. Gli accordi di Taëf del 1989, che fissavano gli equilibri politici emersi dalla guerra civile, da un lato, ratificavano l’indebolimento della parte cristiana (alla quale veniva conservata la presidenza della Repubblica) nella gestione dello Stato; dall’altro, trasferivano gran parte del potere effettivo ai sunniti, grazie a una rivalutazione della funzione e del ruolo del primo ministro. Agli sciiti, benché fossero una parte consistente della popolazione libanese, fu assegnata una rappresentanza politica molto inferiore alla loro forza e al peso politico che stavano assumendo nel Paese: ciò negli anni successivi creò notevole instabilità e screditò l’azione del Governo, ritenuto troppo succube degli interessi occidentali. Negli ultimi anni molti sciiti che abitavano la parte sud del Libano, sia per sfuggire agli orrori della guerra, sia per cercare fortuna nella città, si erano trasferiti nella periferia sud di Beirut, dove la maggior parte viveva, accanto ai profughi palestinesi, in villaggi improvvisati e in condizioni di assoluta miseria. In tale contesto gli attivisti di Hezbollah trovarono militanti e simpatizzanti: essi fornirono un’espressione politica nuova a una popolazione che viveva in condizioni di vita deplorevoli, sottorappresentata nelle istanze del confessionalismo ufficiale.
Il conflitto interno libanese e l’affermazione di Hezbollah
La questione politica, legata agli assetti di potere creati con gli accordi di Taëf, esplose nel 2004, quando il capo dello Stato, Émile Lahoud, spalleggiato dai siriani, chiese al Parlamento la proroga del suo mandato. Ora, tra il primo ministro Rafiq Hariri, appartenente a una delle più ricche famiglie sunnite del Libano, e il capo dello Stato, da anni si era aperta una contesa politica: Hariri, amico della Francia e degli Stati Uniti, in tutte le capitali arabe e occidentali aveva presentato il capo dello Stato libanese come il protettore di Hezbollah — che dopo l’11 settembre 2001 era nella lista nera statunitense delle organizzazioni terroristiche — e degli interessi siriani. Insomma, nell’opinione pubblica occidentale il primo ministro Hariri passava per essere un moderato filo-occidentale, mentre il presidente Lahoud al contrario era considerato un sostenitore convinto degli interessi iraniani e siriani in Libano. Inoltre, aveva fatto sempre resistenza a cedere alle richieste statunitensi di disarmare Hezbollah o almeno di ritirare le sue milizie dalla frontiera con Israele. Nella lotta contro il Presidente, il capo del Governo aveva dalla sua parte Walid Joumblatt, il capo druso, e alcune personalità del mondo maronita[5].
In ambito internazionale fu soprattutto la Francia a fare di tutto per ostacolare il reincarico al presidente Lahoud. Nel settembre 2004 il presidente Chirac sottopose a Washington il progetto di far adottare al Consiglio di Sicurezza dell’Onu una Risoluzione che impedisse al Parlamento libanese la riconferma del Presidente uscente. Tale progetto fu prontamente accolto dall’amministrazione statunitense, che rimproverava alla Siria il mancato sostegno in occasione della guerra contro l’Iraq. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nella Risoluzione 1559, votata il 2 settembre 2004, chiedeva al Parlamento libanese di non emendare la Costituzione, così da permettere il prolungamento del mandato presidenziale, ma, allo stesso tempo, invocava il ritiro immediato di tutte le truppe siriane dal Libano, il disarmo di Hezbollah, il dispiegamento dell’esercito libanese lungo la frontiera con Israele, il disarmo dei campi palestinesi. Tale Risoluzione fu accolta con esultanza dai sostenitori del primo ministro Hariri e fu invece molto contestata da coloro che appoggiavano il presidente Lahoud, in particolare da Hezbollah e dai siriani. Secondo alcuni osservatori internazionali, tale Risoluzione rappresentava una grave intromissione negli affari interni di uno Stato membro dell’Onu; perciò sotto il profilo del diritto internazionale fu considerata illegittima[6].
L’assassinio di Rafiq Hariri
Nel contesto, creato dalla Risoluzione Onu 1559 e caratterizzato da un’ondata di ostilità senza precedenti nei confronti della Siria e del presidente Lahoud, avvenne l’assassinio di Rafiq Hariri. Egli fu vittima di un attentato terroristico nel centro di Beirut il 14 febbraio 2005: oltre al primo ministro rimasero uccisi il ministro dell’Economia, che si trovava con lui in macchina, e altre 18 persone, tra guardie del corpo e passanti. Il fatto provocò un’indignazione internazionale senza precedenti, paragonabile a quanto era avvenuto in Italia nel 1978 con l’assassinio di Aldo Moro e in Svezia nel 1986 per la morte di Olof Palme. Naturalmente i media di mezzo mondo videro dietro questo attentato la mano della Siria. In Libano l’attentato fece esplodere tutta l’ostilità nutrita da una buona parte della popolazione nei confronti dell’occupante siriano, che per lunghi anni aveva agito da padrone e da arbitro della situazione. Furono soprattutto i giovani sunniti, cristiani e drusi, a scendere in piazza in quel momento per manifestare e per chiedere il ritiro dei siriani dal territorio libanese. Tali manifestazioni esprimevano anche il malessere sociale ed economico in cui versava il Paese: i giovani non riuscivano a trovare lavoro, a entrare nel mondo delle professioni liberali; inoltre si contestava alla manodopera siriana di fare concorrenza (tenendo sottocosto le retribuzioni) ai nativi, nonché l’invasione sul mercato di prodotti siriani a basso prezzo. «La Siria diventa così il capro espiatorio di tutti i mali del Libano, il che consente di cancellare di colpo tutte le responsabilità che gravano sui nuovi eroi della libertà, benché costoro in passato siano stati i più fedeli sostenitori dell’egemonia siriana sul Libano e gli ideatori di reti di corruzione»[7].
La manifestazione di Hezbollah
Di fronte all’ampiezza di tale mobilitazione, Hezbollah decise di far sentire ai libanesi e al mondo il peso della sua forza politica e chiamò i suoi sostenitori a una grande manifestazione in favore della Siria e per denunciare la Risoluzione 1559 dell’Onu. Il 17 marzo, piazza Riad El-Solh — vicino alla piazza dei Martiri dove si era tenuta la manifestazione del partito di Hariri — diventò il luogo di raduno di circa mezzo milione di persone, appartenenti a varie correnti politiche e a diverse confessioni religiose, tutte favorevoli a mantenere i legami con la Siria. Il capo di Hezbollah vi prese la parola e denunciò il complotto internazionale di cui era stato vittima il Libano, espresse poi il suo sostegno alla Siria per i sacrifici fatti per salvaguardare l’unità del Paese, contrastare l’aggressione israeliana e fermare la guerra civile nel sud Libano. In risposta a tale manifestazione, a un mese dalla morte del primo ministro Hariri, fu organizzato un raduno grandioso, al quale parteciparono da cinquecentomila a un milione di persone: questa volta la maggior parte erano sunniti. La manifestazione ebbe uno spiccato carattere anti-siriano e soprattutto anti-Hezbollah; da molti fu definita «la primavera di Beirut» e fu posta in parallelo con la rivoluzione arancione avvenuta in quel tempo in Ucraina.
Il Governo di Siniora
Dopo il ritiro siriano della primavera del 2005, il Libano fu governato da una coalizione filo-occidentale, sotto la guida del primo ministro sunnita Fouad Siniora, uomo di fiducia dell’ex-primo ministro ucciso Rafid Hariri. Tale maggioranza era appoggiata dai sunniti, dai drusi e da una parte della dirigenza cristiana maronita. Questa composita alleanza riuniva ex-nemici che, nel corso degli ultimi decenni, si erano combattuti con accanimento e crudeltà, come, ad esempio, drusi e maroniti. L’opposizione al Governo era guidata dagli sciiti (cioè dalle milizie di Amal e da Hezbollah) e dalla Corrente patriottica libera, composta essenzialmente da cristiani guidati dal generale maronita Michel Aoun. Questi, ex-capo del Governo, nel 1989 aveva condotto, con l’appoggio di Saddam Hussein, una lotta senza quartiere contro la presenza siriana in Libano, senza ottenere alcun risultato. Finito il mandato, lasciò il Paese e si trasferì in Francia. Ritornato a Beirut, procedette, dopo il ritiro delle forze siriane, a un capovolgimento delle alleanze, fenomeno molto comune nella recente storia libanese, avvicinandosi alle milizie di Amal e di Hezbollah. Questa situazione apparentemente curiosa è spiegabile tenendo presente due fattori: 1) L’indebolimento delle forze cristiane, private della loro posizione tradizionalmente dominante, dopo che gli accordi di Taëf del 1989 aveva indotto i capi maroniti a cercare la protezione dei musulmani. 2) Le grandi famiglie dei notabili filo-occidentali, come i Gemayel, scelsero di allearsi con i sunniti capeggiati dalla ricca famiglia degli Hariri; altri, come il generale Aoun, strinsero alleanza con gli sciiti, sottorappresentati a livello istituzionale, ma forti dal punto di vista elettorale. Il calcolo di Aoun (che contava sull’appoggio delle masse maronite meno abbienti e sui greco-ortodossi) consisteva nel cercare un avvicinamento e quindi un’alleanza politica con un’altra minoranza confessionale, capace di far fronte alla marea sunnita, e la individuò nei suoi nemici di un tempo, cioè gli sciiti. Ciò, inoltre, a suo modo di vedere, avrebbe permesso di preservare la specificità del Libano, come un Paese formato da un insieme di minoranze religiose. La lista del generale Aoun ottenne la maggioranza dei deputati cristiani eletti in Parlamento nel 2005.
Uscita di scena la Siria[8], il campo antioccidentale fu interamente occupato dal partito-milizia Hezbollah, che assunse la funzione di principale oppositore alla politica filoccidentale in Libano. Alla fine, la cacciata dell’esercito siriano dal Libano fece il gioco dell’Iran, che si avvantaggiò moltissimo del nuovo stato di cose. In tale circostanza la seconda guerra israelo-libanese dell’estate del 2006 rappresentò per il «partito di Dio» l’occasione propizia per travalicare la propria base sciita e rivestire di nuovo i panni della resistenza per antonomasia a Israele e per apparire, in tandem con il suo alleato siriano, «l’eroe di tutte le cause antimperialiste, sostituendosi nell’immaginario collettivo anche alla resistenza palestinese, la cui immagine era stata offuscata dalla sconfitta della seconda Intifada e dagli scontri fratricidi tra i nazionalisti di al-Fatah e gli estremisti di Hamas»[9].
La guerra dei trentatré giorni
La seconda guerra israelo-libanese, chiamata anche «dei trentatré giorni» (in riferimento alla durata del conflitto) o «guerra dell’estate», scoppiò il 12 luglio 2006, quando militari Hezbollah, dopo aver lanciato razzi in territorio israeliano, vi entrarono attaccando due veicoli militari. Tre soldati israeliani furono uccisi durante l’attacco, due furono feriti e altri due catturati e condotti in Libano (successivamente si seppe della loro morte). Il giorno seguente, il comando militare israeliano ordinò attacchi fulminei contro obiettivi militari e civili, considerati di interesse strategico. La guerra, nonostante le devastazioni compiute nel Paese dei cedri, si concluse, come vedremo, con un mezzo disastro dal punto di vista stategico-militare per Israele. La comunità internazionale, con la sola eccezione degli Stati Uniti, nel suo insieme condannò l’intervento sia a motivo della durezza devastante dell’attacco (tra i più micidiali condotti dall’esercito della stella di Davide), sia a causa della «sproporzione» — questa fu la parola chiave che girò in quell’estate nelle cancellerie arabe e occidentali — della risposta israeliana rispetto alla provocazione di Hezbollah.
In realtà, il Governo israeliano, secondo alcuni osservatori, colse tale occasione per attaccare, seppure indirettamente, l’Iran, considerato potenza nemica e oltremodo pericoloso per i propri interessi (soprattutto dopo la nomina a capo del Governo dell’islamista radicale Ahmadinejad), e lo fece iniziando a colpire con determinazione Hezbollah, considerato la quinta colonna iraniana in terra libanese. Israele insomma, mal calcolando la forza militare e il radicamento nel territorio del movimento fondamentalista, intendeva far piazza pulita del «partito di Dio» e dei suoi sostenitori nel giro di poche settimane. La pericolosità di Hezbollah, in realtà, era già stata più volte sottolineata negli anni passati da alcuni leader moderati del mondo arabo. Nell’autunno del 2004 il re Abdullah II di Giordania aveva messo in guardia l’Occidente contro «il pericolo di una mezzaluna sciita che si estendesse dall’Iran al Libano, passando per l’Iraq e il Bahrein, dove gli sciiti erano maggioritari, come pure per le minoranze sciite dell’Arabia Saudita e della Siria». Anche il rais egiziano Mubarak, in un’intervista a una televisione di Dubai, aveva dichiarato che gli sciiti dei Paesi arabi, qualunque fosse la loro nazionalità, «erano fedeli in primo luogo all’Iran e ai suoi ayatollah». In tal modo si accreditava la vecchia tesi secondo la quale essi rappresentavano una sorta di quinta colonna persiana all’interno del mondo arabo, specialmente di quello sunnita, secondo un’idea che risaliva al conflitto tra persiani e arabi di dieci secoli prima.
A partire dal 12 luglio, e per 33 giorni ininterrottamente, gli aerei israeliani bombardarono il sud del Libano, dove furono distrutti o rasi al suolo 235 villaggi, e la parte ovest di Beirut, mettendo fuori uso gran parte delle maggiori infrastrutture del Paese, compreso l’aeroporto internazionale, e provocando l’esodo di circa un milione di persone, che si spostarono verso la capitale e il nord del Paese: fu una catastrofe umanitaria pari a quella della prima guerra israelo-libanese, ma si sviluppò in un arco di tempo molto più limitato. In tal modo Israele intese far pagare, all’insieme dei libanesi, le conseguenze della politica antisionista di Hezbollah, spingendoli così a ribellarsi contro di esso.
Sotto il profilo umanitario la guerra fu micidiale e screditò in tutto il mondo la superpotenza israeliana, che marciava in forze, utilizzando la tecnologia bellica più avanzata, contro una delle regioni più povere del Medio Oriente, sebbene, come si è detto, Hezbollah fosse armato fino ai denti con materiale bellico di ultima generazione, inviato dall’Iran e dalla Siria. In ogni caso si trattò di una guerra «asimmetrica» e di un attacco «sproporzionato», considerato l’alto numero delle vittime libanesi, tra le quali fu difficile distinguere fra civili e Hezbollah (poiché molti di questi non indossavano divise): secondo una statistica di fonte governativa, il numero di libanesi uccisi fu di 1.400; il numero dei feriti di 3.628, e quello degli sfollati di 973.334. Inoltre, il 30% delle vittime furono bambini sotto i 12 anni[10].
I massacri
Particolare emozione in tutto il mondo civile provocò il cosiddetto «massacro di Cana», piccolissimo villaggio, che si usa identificare con quello nel quale, secondo il Vangelo di Giovanni, Gesù durante una festa di nozze aveva trasformato l’acqua in vino. L’aviazione israeliana, sulla base di informazioni errate, il 30 agosto — quindi dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco — colpì un edificio abitato da 63 civili; sotto le macerie morirono 28 persone, tra cui 16 bambini[11]. Tale massacro fu considerato da tutti i media arabi e occidentali come un crimine di guerra, e la responsabilità morale di esso fu addebitata al comando militare israeliano. Invece, i civili israeliani uccisi durante il conflitto dai razzi a media e lunga gittata lanciati da Hezbollah dalle sue postazioni sul confine libanese, furono 43 (compresi quattro morti per attacchi cardiaci a motivo delle incursioni). I soldati israeliani uccisi in combattimento variano, a seconda delle fonti, da 116 a 120; mentre il numero dei feriti sarebbe di 450[12].
Un’occasione mancata per gli israeliani
Anche per il Governo israeliano la «guerra dei trentatré giorni» fu considerata come una partita persa e una preziosa occasione mancata. Nove mesi dopo il conflitto, i capi militari furono posti sotto inchiesta dalla Commissione Winograd, nominata dalla Knesset, per fare luce sugli errori di conduzione dell’operazione. Si mise in evidenza che lo stato maggiore aveva organizzato l’attacco secondo il modello dell’offensiva statunitense del 2003 in Iraq. Su tale base, si era utilizzata in maniera massiccia l’aviazione, senza riuscire ad annientare le linee difensive della milizia sciita, occultate in un dedalo di sotterranei e rifugi. In più, la popolazione si era mobilitata in favore di Hezbollah, rendendo più difficile l’avanzata: per cui fu dato l’ordine di evacuare tutto il territorio e di fare terra bruciata intorno. I civili furono invitati, attraverso volantini lanciati dagli elicotteri, ad abbandonare la zona di guerra. Anche i servizi segreti erano stati presi in contropiede, ignorando che Hezbollah beneficiava di una vasta riserva di missili a lunga gittata, che, dal confine libanese furono puntati sulla parte nord del territorio israeliano, colpendo perfino la periferia della città di Haifa. Tali missili puntati contro villaggi e città israeliane furono giudicati dalle autorità governative e militari, ma anche da gran parte dalla popolazione israeliana, come una minaccia insostenibile e un attacco alla sopravvivenza e alla sicurezza dello Stato. La guerra, da parte israeliana, e anche da una parte dei media occidentali, appariva perciò giustificata. La cessazione dell’attacco israeliano — che avvenne per intermediazione delle Nazioni Unite ed entrò in vigore a partire dal 14 agosto[13] — nell’intero mondo arabo fu celebrata come un trionfo sul nemico sionista, e il «partito di Dio» ne ricavò una risonanza destinata a riflettersi sul suo protettore, l’Iran. La «vittoria divina» fu attribuita dagli organi di propaganda del partito al comandante di Hezbollah, Hassan Nasrallah, che divenne per gli islamisti radicali di tutto il mondo musulmano un «eroe della causa di Allah».
L’«apparente» vittoria di Hezbollah
In ogni caso la vittoria dell’«invincibile Hezbollah» contro l’«esercito sionista» celebrata in toni trionfalistici in molte parti del mondo islamico, fu più apparente che reale. In realtà, sottolinea il politologo Gilles Kepel, «il cessate il fuoco si era tradotto in un rafforzato spiegamento delle truppe Onu della Unifil, la forza di interposizione in Libano, e dell’esercito libanese alla frontiera israelo-libanese, rendendo disagevole, per il futuro, ogni eventuale e surrettizia offensiva del partito di Dio, contro lo Stato ebraico»[14]. Ma nel mondo islamico l’effetto simbolico dell’impasse di Tsahal (l’esercio israeliano) ebbe il sopravvento sulle considerazioni di carattere politico-strategico sul post-conflitto. In ogni caso una delle maggiori conseguenze che la guerra dei trentatré giorni provocò nella regione fu il rafforzamento dell’asse Teheran-Hezbollah e, in Libano, uno slittamento del rapporto di forze a detrimento del campo filo-occidentale per le elezioni presidenziali del 2007, chiave di volta dei nuovi equilibri politici.
Come mai gli israeliani, così attenti (e soprattutto informati) a cogliere il momento opportuno per portare avanti un attacco mirato, intrapresero un conflitto che già dai primi giorni si prospettava di difficile esito? Secondo G. Kepel il fatto è che, dopo la delusione dell’avventura statunitense in Iraq, avevano deciso — per limitare gli effetti disastrosi di quella guerra che aveva diviso la comunità internazionale e l’opinione pubblica mondiale — di assumere in prima persona l’iniziativa militare per garantire la propria sicurezza. Nella prospettiva di uno scontro con l’Iran di Ahmadinejad, che minacciava in ogni momento di cancellare Israele dalla carta geografica mediorientale e continuava a reclamare l’accesso all’energia nucleare (sebbene dicesse di farlo a scopi civili), essi pensavano di indebolire la Repubblica degli ayatollah, annientando la capacità bellica di Hezbollah[15]. In tal modo si intendeva lanciare un segnale forte anche ad Hamas, che in quel periodo monopolizzava con la sua proposta radicale la scena politica nei territori occupati, inasprendo e radicalizzando lo scontro sociale.
Attraverso l’azione di Hezbollah l’Iran gradualmente estese la propria ingerenza in questioni che erano fuori della propria influenza e portata politica, in quanto tradizionalmente riservate alla dirigenza araba sunnita: cioè la questione palestinese. L’intrusione di Teheran si rafforzò dopo il 25 gennaio 2006, quando il Governo formato da Hamas, che aveva vinto le recenti elezioni politiche, fu privato dei sussidi che venivano versati all’Autorità Palestinese dalla Comunità europea, dagli Stati Uniti e dagli Stati arabi del fronte filo-occidentale. In tal modo si voleva costringere il partito di Governo a riconoscere lo Stato di Israele, sottoscrivendo gli accordi presi dai precedenti Governi e a rinunciare alla violenza come strumento di lotta politica. Ma la situazione degenerò in lotta aperta tra i due maggiori partiti palestinesi, che finirono per dividersi il territorio in due zone di influenza: Hamas fece di Gaza il proprio quartier generale, cacciando praticamente i componenti di al-Fatah, i quali, con l’aiuto dell’Occidente, assunsero il controllo di parte della Cisgiordania[16].
In questo periodo di grande difficoltà, soprattutto economica, l’Iran, attraverso l’azione di Ahmadinejad, andò in soccorso di Hamas — considerato un’organizzazione islamista sorella, impegnata nella lotta contro il nemico comune, cioè lo Stato di Israele — impegnandosi a versare 250 milioni di dollari all’anno per aiutare il Governo islamista a pagare gli stipendi ai funzionari.
Va anche ricordato che l’esperienza e il metodo di lotta adottato in Libano dal partito di Dio, come per esempio le «azioni martirio», minuziosamente preparate per uccidere i nemici della causa islamica, ebbero un grande influsso su Hamas, sebbene questo fosse un movimento sunnita, nato all’interno della tradizione dei Fratelli Musulmani egiziani; anzi fu considerato il ramo palestinese di tale movimento. Esso, nel giro di poco tempo, assunse tale metodo, quello cioè del «suicidio-offensivo», come strumento estremo di lotta politica, terrorizzando in questo modo il nemico, cioè Israele, che si trovò senza difese nei confronti di tale nuova forma di aggressione. A partire dagli ultimi anni assistiamo da parte sia di Hezbollah, sia di Hamas, a un cambiamento di strategia di lotta e anche di programma politico. A differenza di altre organizzazioni dell’islamismo radicale (come quelle legate ad al-Qaeda o ai talebani), queste si stanno lentamente organizzando come veri e propri partiti politici con un marcato carattere comunitario (cioè con un forte radicamento nella popolazione e nella realtà sociale), nei quali l’elemento nazionalista sta prendendo, poco alla volta, il sopravvento su quello religioso fondamentalista[17].
I nuovi capi di questi partiti, molti dei quali si sono formati in università occidentali, hanno maturato la consapevolezza dell’impossibilità di edificare, sia in Libano sia in Palestina, uno Stato confessionale (come si riteneva fino a pochi anni prima); ciò li sta portando a ripensare il loro programma politico e di azione.
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[1] L’operazione «Pace in Galilea» iniziò il 6 giugno 1982 in risposta sia al tentativo di assassinio posto in essere da «terroristi» dell’Olp nei confronti dell’ambasciatore del Regno Unito in Israele Shlomo Argov, sia ai frequenti attacchi con l’artiglieria condotti da militanti di al Fatah, rifugiati in Libano, contro aree popolate nel nord della Galilea. Cfr H. Cobban, The Palestinian Liberation Organization: People Power and Politics, Cambridge, University Press, 1984, 54; A. Bregman, Israel’s Wars: A History since 1947, London, Routledge, 20022, 78; G. Rulli, Libano. Dalla crisi alla «pax siriana», Torino, Sei, 1996, 96-137.
[2] Cfr F. Khosrokhavar, I nuovi martiri di Allah, Milano, Feltrinelli, 2003. Secondo questo autore, il cecchino, il miliziano e il martire sono tre figure fondamentali nei conflitti intra-etnici libanesi. «Il cecchino è l’incubo degli abitanti di Beirut. In città si sviluppa una psicosi, basata sul fatto che è impossibile sfuggirgli una volta che si è nel suo mirino […]. Ogni cecchino uccide in media dieci vittime al giorno. È efficace nell’arco compreso tra 250 e 500 metri e le opportunità di sfuggire sono infinitesimali. Il cecchino non aderisce a nessuna ideologia, si vende al miglior offerente. Il suo ruolo è separare ermeticamente l’est dall’ovest della città e tracciare così una linea di confine insuperabile tra la comunità cristiana e quella musulmana» (p. 169).
[3] G. Corm, Il mondo arabo in conflitto. Dal dramma libanese all’invasione del Kuwait, Milano, Jaca Book, 2005, 106.
[4] Ivi.
[5] Cfr ivi, 323.
[6] Cfr ivi, 234.
[7] Ivi, 330.
[8] Cfr G. Kepel, Oltre il terrore e il martirio, Milano, Feltrinelli, 2009, 85. Sulla situazione politica attuale del Libano si veda L. Larivera, «Tutto fermo in Libano», in Civ. Catt. 2009 III 532-541.
[9] G. Kepel, Oltre il terrore e il martirio, cit., 55.
[10] Cfr W. Charara – F. Domont, Hezbollah. Storia del partito di Dio e geopolitica del Medio Oriente, Roma, Derive e Approdi, 2006, 136.
[11] Ivi, 134.
[12] Il grosso delle truppe israeliane abbandonò il Libano soltanto il 1° ottobre, anche se le ultime truppe continuarono a occupare il villaggio di confine di Ghayar fino al 3 dicembre 2006.
[13] L’11 agosto 2006 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approvò la Risoluzione 1701 per far cessare le ostilità. Essa fu approvata nei giorni seguenti sia dal Governo israeliano sia da Hezbollah, e stabiliva il ritiro delle truppe israeliane dal Libano e il conseguente dispiegamento di una forza internazionale di interposizione Onu al confine libanese, nonché il disarmo completo di Hezbollah, che di fatto non fu mai attuato.
[14] G. Kepel, Oltre il terrore e il martirio, cit., 56.
[15] Cfr Ivi, 59.
[16] Cfr G. Sale, «Hamas e la questione palestinese», in Civ. Catt. 2009 IV 30-43; P. Caridi, Hamas. Che cos’è e cosa vuole il movimento radicale palestinese, Milano, Feltrinelli, 2009, 228.
[17] Cfr W. Charara – F. Domont, Hezbollah. Storia del partito di Dio e geopolitica del Medio Oriente, cit., 128; K. Hroub, Hamas, fondamentalismo islamico e terrorismo suicida in Palestina, Milano, Bruno Mondadori, 2006, 37.