|
La letteratura storica su Hamas fa coincidere lo scoppio della prima Intifada (8 dicembre 1987) con la fondazione, da parte dello sceicco Ahmad Yassin, del movimento islamista, che fino ad allora aveva rappresentato la branca palestinese, sebbene con una fisionomia ideologico-politica ben precisa, del variegato mondo dei Fratelli Musulmani[1]. L’implicazione propagandistica di tale coincidenza, in realtà un poco forzata anche in sede di ricostruzione storica, consisteva nel far coincidere la sollevazione popolare anti-israeliana con la decisione della fratellanza di passare alla lotta armata di liberazione. Di fatto, la riunione che diede origine ad Hamas si svolse il giorno successivo alla sollevazione, mentre il relativo «comunicato fondativo» fu distribuito l’11 dicembre a Gaza e tre giorni dopo in Cisgiordania[2]. In realtà lo scoppio dell’Intifada del 1987 colse di sorpresa le organizzazioni politiche presenti sul territorio, compresa l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) e, insieme, sia quelle laiche o di sinistra, sia quelle islamiste si impegnarono con tutte le loro forze nella lotta, cavalcando la protesta popolare, anche nella speranza di guadagnare il sostegno della maggioranza dei palestinesi.
La prima Intifada non fu una ribellione armata: si sviluppò dal «basso», quasi spontaneamente, e fu preceduta da scioperi, serrate e da proteste violente, anche se non militarizzate, contro le forze israeliane di occupazione. Le armi di questa prima sollevazione furono, da parte palestinese, esclusivamente sassi, abbondanti nella regione, e bottiglie motolov. Per questo motivo essa fu chiamata dalla stampa internazionale filopalestinese «rivolta delle pietre». La prima Intifada durò a fasi alterne fino al 1993, cioè fino agli accordi di Oslo tra l’Olp e Israele, che diedero vita per la prima volta a una forma di autogoverno palestinese a Gaza e in Cisgiordania. Il casus belli fu offerto dalla morte di un colono israeliano ucciso in un attentato del Jihad islamico e dalla successiva sanguinosa reazione israeliana dell’8 dicembre (4 morti e 9 feriti). Le cause della prima Intifada furono molteplici, anche se variamente concatenate tra loro: escalation di violenza da parte degli occupanti, rabbia crescente dei palestinesi per le umiliazioni subite, scontento popolare nei confronti della strategia diplomatica dell’Olp di Arafat e altro. Secondo alcuni analisti, fino a questo momento la strategia seguita dal partito di Arafat — che aveva assunto la leadership politica e morale del movimento di liberazione — consisteva in una sorta di scambio tacito con l’occupante «assenza di attivismo politico contro lavoro»[3]. Infatti ogni giorno centinaia di migliaia di palestinesi uscivano dai «territori occupati» per lavorare in Israele, dove scarseggiava la manodopera in settori vitali come l’edilizia e l’agricoltura.
Insomma Hamas fu fondata dai Fratelli Musulmani nel momento in cui la situazione nei territori palestinesi era diventata esplosiva, e la stessa popolazione chiedeva ai dirigenti una politica più ferma e indirizzata verso la lotta di liberazione contro l’occupazione israeliana. Proprio in quel tempo tra i Fratelli Musulmani era in atto un dibattito interno sul modo di intervenire nei confronti dell’occupazione e di quella che essi consideravano la minaccia sionista. All’interno del movimento c’erano due tendenze diverse. La prima premeva per una svolta politica indirizzata alla resistenza armata contro l’occupante (come aveva già fatto il piccolo ma attivissimo gruppo islamista dell’organizzazione islamista Jihad Islamico fondata nel 1980 da F. Shiqaqi, che minacciava di sottrarre membri ai Fratelli, accusati di essere inattivi e poco efficaci sul piano politico)[4], superando l’impostazione tradizionale del movimento, secondo il quale bisognava innanzitutto islamizzare la società e successivamente passare alla fase operativa. La seconda, di impronta tradizionalista, affermava al contrario che era compito della fratellanza preparare le generazioni alla lotta futura. Essa sosteneva, inoltre, che nel 1967 gli eserciti arabi erano stati sconfitti da Israele perché costituiti da musulmani tiepidi e guidati da comandanti secolarizzati o atei; tale tendenza, più in generale, individuava la debolezza del mondo musulmano nell’allontanamento dai precetti dell’islàm e nella mancata applicazione della sharia da parte dei Governi. In ogni caso con lo scoppio dell’Intifada gli esponenti della linea dura finirono per imporre il loro punto di vista a tutto il movimento.
Nel ventennio tra il 1967 e il 1987 i Fratelli Musulmani palestinesi ottennero cospicui risultati nel loro progetto di re-islamizzazione della società palestinese; le moschee da loro dirette passarono in Cisgiordania da 400 a 750, mentre nella Striscia di Gaza addirittura triplicarono, passando da 200 a 600. Essi inoltre controllavano l’Università islamica di Gaza e il Fondo islamico, costituito dalle donazioni religiose (wafq), guadagnando affiliati sia nel mondo delle professioni liberali sia nella piccola borghesia cittadina. Crearono, inoltre, centri di assistenza di vario tipo (culturale, medico, di distribuzione di beni e di servizi ecc.) capillarmente presenti in ogni parte del territorio: attività queste molto apprezzate dalla popolazione palestinese e in molti casi capaci di andare incontro alle necessità materiali e morali della povera gente e al loro senso di impotenza e frustrazione.
Dal canto loro gli israeliani si disinteressarono dell’attività assistenziale e religiosa svolta in quegli anni dalla fratellanza; anzi esse furono guardate dagli occupanti favorevolmente, in quanto facevano concorrenza ai Comitati giovanili controllati dai laici del partito di Fatah, che in quel tempo esercitava l’egemonia politica. Sul piano politico Yassin, preoccupato che la crescita del suo movimento e delle sue numerosissime iniziative assistenziali fossero ostacolate dagli israeliani, evitò appelli espliciti alla resistenza armata contro l’occupante. La pratica visibile della fratellanza, secondo R. Guolo, era quella «neotradizionalista», consistente nella reislamizzazione della società attraverso i princìpi dell’islàm e l’assistenza ai più bisognosi[5]. In ogni caso, dopo la prima Intifada la fratellanza si «palestinizzò», facendo prevalere — alla luce dell’esperienza iraniana del 1979 — il messaggio di liberazione nazionale, anche mediante la lotta armata, su quello tradizionalista di matrice religiosa.
Per capire il programma ideologico-politico di Hamas è necessario esaminarne lo statuto del 18 agosto 1988. Da quella data nel movimento sono cambiate molte cose; l’assunzione di responsabilità di governo nel 2006 ha fatto sì che alcuni princìpi contenuti nella Carta, all’inizio ampiamente utilizzati nella propaganda, venissero successivamente un poco sfumati o reinterpretati. Ancora oggi, però, tale testo rimane un punto di riferimento imprescindibile per chi voglia comprendere a fondo la natura e il progetto politico di Hamas, parola che significa «fervore», ed è insieme acronimo di «movimento di resistenza islamico». All’art. 2 Hamas si definisce come branca palestinese del movimento dei Fratelli Musulmani, che è considerato una organizzazione internazionale. Di fatto in esso, quando si parla di identità del nuovo movimento, è ripreso quasi alla lettera lo slogan della Fratellanza: «Hamas — è detto all’art. 8 — ha Allah come scopo, il Profeta come capo, il Corano come costituzione, il Jihad come metodo, e la morte per la gloria di Allah come il più caro desiderio»[6]. Secondo lo statuto la lotta per la liberazione della Palestina è obbligo religioso per «ogni musulmano, in qualunque Paese egli viva» (art. 14), perché la Palestina è terra sacra, «terra islamica affidata alle generazioni dell’islàm fino al giudizio finale» (art. 11). Inoltre, recita lo stesso articolo, la Palestina è terra islamica dal fiume Giordano fino al mar Mediterraneo, e nessuno ha il diritto «di disporre o di cedere anche un singolo pezzo di essa»; chi lo farà ne risponderà davanti ad Allah nel giorno del giudizio. Sulla base di questo principio, Hamas rifiuta di partecipare a iniziative diplomatiche di pace o a conferenze internazionali che implichino la creazione o il riconoscimento di due Stati (uno ebraico, l’altro palestinese) sul sacro suolo dell’islàm. Per il futuro lo statuto prevede la creazione di una società islamica in Palestina facente parte della umma musulmana, finalmente restaurata sotto la guida di un califfo. Alcune parti dello statuto fanno riferimento a vicende storiche legate alla storia di Israele, palesemente false e prese a prestito dai Protocolli di Sion, testo ormai screditato in Occidente, ma considerato affidabile dagli islamisti[7].
Dal punto di vista organizzativo Hamas è divisa in due rami: uno politico, l’altro militare; quest’ultimo, sebbene goda di autonomia, è sottoposto alle scelte operate dall’organo politico. L’organizzazione armata iniziò le sue operazioni a partire dal 1988. Sino a quel momento il Governo israeliano e l’Occidente non avevano compreso la vera natura di Hamas e consideravano il suo braccio militare alla stregua di una polizia interna con scopi morali-educativi. Essi continuavano ad attribuire ai laici dell’Olp, in particolare ad al Fatah, il ruolo di nemico principale di Israele, sebbene Arafat nei suoi viaggi in Europa avesse avvertito i Governi della pericolosità di Hamas e suggerito di agire presto contro questa organizzazione islamista. Nessuno però, allora, prese sul serio tali affermazioni, che furono interpretate come una manovra intesa ad alleggerire la pressione internazionale sull’Olp. Soltanto dopo la «guerra dei coltelli», con la quale il braccio militare di Hamas tentò di eliminare tutti gli informatori palestinesi, considerati traditori ed empi, che da anni lavoravano per i servizi segreti israeliani di Tsahal, ci si rese conto della natura della nuova organizzazione islamista. Israele come reazione fece arrestare 260 militanti, tra i quali i capi dell’organizzazione, Yassin e Shehadeh.
Con la partecipazione di Hamas all’Intifada la lotta per la liberazione della Palestina compie un salto di qualità. La direzione della lotta non è più in mano agli shebab (che lanciano pietre), ma a capi carismatici, convinti della bontà della causa per cui combattono. Essi appartengono a una generazione che nei decenni precedenti è stata «indottrinata» dai religiosi della fratellanza e ora ottengono il sostegno non soltanto di una parte della popolazione, beneficata in vario modo nei centri di assistenza, ma anche dalla borghesia religiosa, dai commercianti e da molti professionisti. Da questo momento in avanti Hamas assume il controllo, in luogo del Jihad Islamico che non ha seguito popolare, della lotta armata contro l’«occupante sionista», in una posizione di antagonismo, anche se non di lotta, con i laici dell’Olp, considerati dagli occidentali i soli rappresentanti della causa della liberazione della Palestina. Dallo statuto di Hamas risulta chiara la distanza ideologica e strategica in ordine alla lotta di liberazione che esiste tra l’organizzazione islamista e l’Olp. Mentre questo porta avanti la propria lotta a partire da una prospettiva laica e secolarista, mutuando dall’Occidente l’armamentario ideologico dei partiti di stampo socialista e comunista, Hamas al contrario intende instaurare in Palestina uno Stato islamico, fondato sulla sharia. Per l’Olp la causa palestinese è una questione anzitutto politica e nazionale, per Hamas essa è soprattutto un fatto religioso e, quindi, non negoziabile. Anche la prospettiva politica concreta tra i due partiti risultò irrimediabilmente diversa.
L’Olp, sia pure tra alti e bassi, e con qualche ambiguità, accettò a partire dall’accordo di Algeri del 1988 (al quale non parteciparono né Hamas né il jihad) l’idea della coesistenza in Palestina di due Stati, uno ebraico e l’altro palestinese, secondo lo spirito della Risoluzione Onu del 1947. L’Olp accettò di costruire questo Stato, «con capitale Gerusalemme», in Cisgiordania e a Gaza e non nel territorio della Palestina storica, occupata ormai da Israele. Nella dichiarazione, inoltre, si parlava anche di ripudio del terrorismo in ogni sua forma, anche se veniva difeso il diritto dei palestinesi a lottare contro l’occupazione straniera. In tal modo l’Olp, accettando il punto di vista occidentale sulla soluzione della questione palestinese, ebbe il sostegno dei Governi e delle cancellerie occidentali e non solo di queste. Hamas, al contrario, denunciava l’Onu come il principale strumento del complotto ebraico internazionale e considerava peccaminoso accontentarsi, come aveva fatto l’Olp, di qualunque soluzione che non contemplasse l’eliminazione dello Stato ebraico e la costituzione di uno Stato islamico unitario dal Giordano fino al Mediterraneo. Tale prospettiva incontrava in quel momento il sostegno di buona parte della popolazione palestinese. Alcuni analisti hanno comunque posto in evidenza che le posizioni politiche di Hamas, pur tenendo fermi i princìpi sopra esposti, erano (già prima del 2006) in qualche modo improntati a un certo realismo politico. Lo stesso leader storico di Hamas, lo sceicco Yassin, fece ricorso in alcune occasioni alla categoria islamica di hudna, cioè tregua o armistizio, per giustificare un cessate il fuoco o favorire un colloquio o un’intesa fra le parti in lotta. Una hudna è soltanto un accordo per interrompere le ostilità, non un trattato di pace che comprenda anche concessioni reciproche; essa inoltre era limitata a un preciso periodo di tempo stabilito dai belligeranti. «Potremmo firmare un armistizio per dieci o vent’anni — affermò Yassin nel 1993 — a condizione che Israele abbandoni senza condizioni la Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est, ritorni ai confini del 1967 e lasci al popolo palestinese piena libertà di autodeterminarsi e decidere del suo futuro». In effetti, è stato notato, in tale richiesta è contenuto lo spirito degli accordi di Algeri firmati da Arafat, soltanto che una hudna non impegna le parti come un armistizio o un accordo internazionale, anche se va sottolineato che in un lasso temporale molto vasto molte cose nella pratica possono cambiare[8].
Tra processo di pace e Intifada
La crisi dell’Olp alla fine degli anni Ottanta fu dovuta non soltanto a fattori interni (dichiarazione di Algeri, voci di corruzione che coinvolsero i principali collaboratori di Arafat), ma anche a fatti esterni, come il crollo dell’impero sovietico, che era il principale alleato e referente dell’Olp in ambito internazionale, e le vicende legate alla prima guerra del Golfo. Mentre Hamas dopo l’invasione irachena del Kuwait scelse di assumere un atteggiamento defilato e di basso profilo, l’Olp, invece, si schierò in favore di Saddam Hussein contro gli Stati Uniti e i suoi alleati, compresi molti Stati arabi. Con la guerra del 1990 Arafat non solo perse i ricchi finanziamenti dei Paesi arabi del Golfo, ma il suo prestigio internazionale fu duramente compromesso e fu isolato da quegli Stati che fino ad allora lo avevano sostenuto.
Intanto nel 1991, alla rinnovata repressione israeliana, Hamas rispose con la fondazione dei «Battaglioni di ‘Izz al Din al Qassam», che rappresentò un vero salto di qualità nella strategia della lotta armata contro l’occupante. Essi all’inizio operarono soltanto a Gaza; dal 1992 sono presenti anche in Cisgiordania spostando così il centro di attenzione della lotta armata dagli odiati collaborazionisti palestinesi ai coloni ebrei che vivevano nei «territori», utilizzando come strumento di lotta l’autobomba. Questa divenne subito il simbolo per molti palestinesi della possibilità di continuare la lotta armata, nel momento in cui Arafat iniziava, dietro la spinta della comunità internazionale, a negoziare una soluzione del problema palestinese. Gli anni 1991-92 furono cruciali nei rapporti tra israeliani e palestinesi. La vera svolta si ebbe, però, con la vittoria del laburista Rabin alle elezioni israeliane; questi infatti era intenzionato a portare fino in fondo il negoziato secondo la formula «pace in cambio di terra». Le trattative, prima segrete, si svolsero a Oslo e si conclusero con una Dichiarazione di princìpi, che prevedeva il ritiro, secondo fasi diverse, di Israele dai territori; la costituzione di una Autorità Nazionale Palestinese che governasse su un territorio determinato (auto-amministrazione). Allo stesso tempo era però esclusa la proclamazione dell’indipendenza della Palestina prima che fosse concluso interamente il processo negoziale (previsto in 5 anni), che riguardava, fra l’altro, la sistemazione dei confini, la questione degli insediamenti e lo status di Gerusalemme. Si prevedeva, inoltre, lo svolgimento di libere elezioni politiche nei territori sottoposti all’amministrazione palestinese[9].
Gli accordi di pace, come è noto, furono osteggiati in Israele dalla destra religiosa e in Palestina soprattutto da Hamas, che assunse la direzione del «fronte del rifiuto». Gli islamisti, però, dovevano tener conto degli umori della popolazione, stanca della guerra e delle violenze e, inoltre, non voleva perdere l’opportunità di un lavoro redditizio in Israele, considerato che ogni sviluppo economico nei «territori» era stato bloccato dagli occupanti. Sul fronte militare Rabin diede prova di forza contrastando con determinazione gli islamisti. In seguito ad attentati che provocarono la morte di alcuni militari israeliani, fu organizzata una maxi retata con la quale furono arrestati 1.600 militanti di Hamas; 415 dirigenti palestinesi nel dicembre del 1992 furono deportati nel sud del Libano. Tale fatto, come vedremo, si rivelò poi come un vero e proprio boomerang nei confronti di Israele. Ciò infatti rese possibile contatti più stretti tra i fondamentalisti sunniti palestinesi e quelli sciiti libanesi del movimento Hezbollah, che a partire dagli inizi degli anni Ottanta avevano lanciato la nuova strategia del terrorismo suicida. L’indignazione popolare per la deportazione, scrive Massimo Introvigne, «offre il quadro politico ed emotivo all’interno del quale Hamas passa […] dagli attentati ad alto rischio per il terrorista che li compie a quelli che escludono in via di principio la sua sopravvivenza, i veri e propri attentati suicidi»[10]. Questi iniziano ad essere utilizzati come strategia di attacco a partire dall’aprile del 1994, dopo che un colono israeliano il 25 febbraio aprì il fuoco contro musulmani in preghiera a Hebron, uccidendone 29. Dopo tale fatto Hamas giurò che avrebbe vendicato ogni attacco condotto dagli israeliani contro civili palestinesi. Per Hamas inizia l’era dei martiri suicidi. Essi godettero subito del favore e della venerazione popolare, dando alla lotta di liberazione nuove valenze di carattere simbolico ed emozionale. Intorno alla figura del martire suicida (shahid) si sviluppò una ritualità di carattere sacro: mai come in questo momento l’elemento politico e quello religioso si compenetrarono e si potenziarono a vicenda[11].
Gli attacchi suicidi non riguardavano più soltanto i «territori», ma furono portati questa volta «dentro» lo Stato di Israele; ciò rappresentò un fatto di enorme importanza nello sviluppo della lotta tra israeliani e palestinesi. L’obiettivo di Hamas era di terrorizzare il nemico nel suo territorio. Gli attacchi suicidi contro autobus di linea o in altri luoghi della vita comune (discoteche, bar, ristoranti) creavano panico e paura tra la popolazione civile. Prima del 1994 le aggressioni di Hamas erano dirette soltanto contro «obiettivi militari legittimi». La decisione di includere anche i civili tra gli obiettivi, pur con la giustificazione di vendicare la morte di altri civili (palestinesi), è stata una scelta significativa per la strategia del movimento islamista. Secondo K. Hroub, «sfidando le violente rappresaglie israeliane, riassunte nella strategia delle “eliminazioni mirate”, volte a uccidere i leader del movimento, Hamas ha incrementato negli anni il ricorso a questo tipo di operazione. Si è reso conto che, a scapito di una perdita dei consensi sul piano internazionale […], questa strategia conferiva al movimento un’aura di forza e popolarità tra i palestinesi»[12], che vedono in Hamas un’organizzazione capace di opporsi con determinazione all’occupante. In questi anni, tale strumento di lotta è stato diverse volte sospeso da Hamas (concordando una tregua con i rappresentati dell’Olp), soprattutto per facilitare il «processo di pace» già avviato e ottenere dalla controparte concessioni favorevoli ai palestinesi, ma mai completamente abbandonato. Nel gennaio 1996 nei territori palestinesi si svolsero le prime elezioni politiche della sua storia, alle quali non parteciparono né Hamas né il Jihad in quanto considerate elezioni non libere, perché imposte dai contestati accordi di Oslo di quattro anni prima. Arafat, candidato unico, fu eletto presidente dell’Autorità Nazionale. I movimenti islamisti, da parte loro, continuarono la loro strategia di lotta, alla quale l’esercito israeliano e i servizi segreti rispondevano con determinazione, cercando soprattutto di eliminare i capi di tali organizzazioni «terroristiche».
La seconda Intifada scoppiò all’indomani degli incontri di Camp David, dove i colloqui tra israeliani e palestinesi — patrocinati dal presidente degli Stati Uniti Clinton — fallirono per l’intransigenza mostrata in quella occasione da Arafat sulla questione di Gerusalemme, sul ritorno dei profughi e su altre importanti questioni; in realtà il leader dell’Olp non si sentiva sufficientemente appoggiato nella sua azione e aveva timore che qualsiasi accordo fatto in quel momento con il nemico potesse scatenare tra i palestinesi una guerra civile. La seconda Intifada, scoppiata nel settembre del 2000, fu provocata dalla nota «passeggiata» sulla Spianata delle Moschee dell’allora leader del Likud, A. Sharon, il quale successivamente divenne capo del Governo israeliano, avendo il suo partito vinto le elezioni. Essa aveva l’intento di affermare in questo modo «stravagante» la sovranità di Israele su uno dei luoghi più sacri dell’islàm. Tale fatto fu percepito dai palestinesi come un atto apertamente provocatorio. Diversamente dalla prima, la seconda Intifada fu combattuta dai palestinesi non con le pietre, ma con le armi da fuoco e con gli attentati suicidi. Sullo stesso fronte si trovarono questa volta a combattere, seppure con motivazioni e metodi diversi, sia i miliziani di al Fatah sia quelli di Hamas. Da entrambe le parti la lotta fu portata avanti senza esclusione di colpi; agli attacchi suicidi dei «martiri» di Hamas, si opposero le cosiddette «eliminazioni mirate» dei capi delle organizzazioni «terroristiche» palestinesi, condotte dagli israeliani. Il 22 marzo 2004 fu ucciso (insieme ad altri nove palestinesi) da un razzo lanciato da un velivolo israeliano il fondatore e leader spirituale di Hamas, Yassin, mentre era in preghiera in una moschea di Gaza City.
Eppure negli anni precedenti egli aveva avuto un ruolo moderatore all’interno del movimento: era stato lui a suggerire l’idea di una hudna perché si raggiungesse tra le parti in lotta un accordo sul cessate il fuoco; era stato lui a scongiurare in diversi momenti lo scoppio di una guerra civile tra fondamentalisti religiosi e laici dell’Autorità Palestinese, con la quale, anzi, aveva stretto un «accordo di amicizia», impegnandosi a non combattersi a vicenda; anche se, soprattutto su pressione israeliana, l’Olp dovette in diverse occasioni agire con pugno di ferro contro le organizzazioni fondamentaliste. Per Israele, dopo lo scoppio della seconda Intifada, era arrivato ormai il momento di portare avanti la lotta contro Hamas con determinazione, cercando in tutti i modi di mettere fuori gioco i capi delle milizie fondamentaliste. Il raggiungimento di tale obiettivo era considerato dagli israeliani di primario interesse sia per garantire la sicurezza dei cittadini israeliani, sempre più impauriti dagli attacchi terroristici, sia per aiutare i moderati a riprendere i colloqui di pace, ormai interrotti.
La svolta del 2006
La grande svolta per Hamas avvenne nel gennaio del 2006, quando, inaspettatamente, esso vinse le elezioni per il rinnovo del Consiglio legislativo dell’Autorità Nazionale Palestinese, aggiudicandosi oltre il 60% dei seggi nel «parlamentino». Questa vittoria portava il movimento alla ribalta della scena internazionale: tale fatto fu vissuto con stupore e incredulità da parte dei Governi e delle cancellerie occidentali, che consideravano Hamas come una semplice organizzazione terroristica (di fatto già dal 1993 Israele aveva fatto inserire Hamas nella «lista nera» messa a punto dagli Stati Uniti e sostanzialmente accolta dagli alleati europei), mentre da al Fatah — il partito che per 40 anni aveva avuto la leadership del movimento di liberazione — fu avvertito come una completa disfatta della propria linea politica[13]. Per chi aveva seguito da vicino le vicende di Hamas, tale vittoria invece non fu una sorpresa, anzi essa fu considerata come inevitabile: di fatto Hamas mieteva a tempo opportuno ciò che in tanti anni di militanza dal basso aveva seminato attraverso la sua rete di moschee e le sue numerose opere assistenziali, e veniva premiata anche per il sostegno dato alla lotta armata per la liberazione della Palestina. I capi dell’organizzazione, inoltre, in quegli anni di preparazione si erano fatti la fama di «incorruttibili» e di uomini interamente dedicati alla causa del popolo palestinese: tutto questo garantì al movimento islamista l’appoggio sia degli strati meno abbienti della popolazione, sia della borghesia urbana.
Va sottolineato che non tutti coloro che hanno votato per Hamas devono essere considerati membri dell’organizzazione: metà dei sostenitori ha votato il partito islamista perché ne condivideva il programma politico e per gli obiettivi dichiarati, mentre l’altra metà ha voluto semplicemente esprimere un «voto di protesta» nei confronti del partito di Governo, sia per la corruzione di alcuni suoi membri, sia per il fallimento del processo di pace e la crescente e sempre più intensa brutalità dell’occupazione israeliana. Questa, non va dimenticato, è andata aumentando nella misura in cui intendeva rispondere alla logica degli attacchi suicidi portati nel cuore delle città israeliane e, negli ultimi tempi, al lancio dalla Striscia di Gaza di missili di corta gittata, nel territorio israeliano, creando nella popolazione civile insicurezza e paura. Il tema della sicurezza, infatti, per Israele è diventato negli ultimi tempi il problema più importante sotto il profilo sia politico sia strategico-militare per contenere l’avanzata di Hamas e degli altri movimenti islamisti, che dicono di avere come scopo la distruzione dello Stato israeliano.
Ma ci chiediamo se nella pratica Hamas sia realmente intenzionato a raggiungere tale scopo. Di fatto nelle dichiarazioni fatte da Hamas, dopo la sua vittoria politica, e indirizzate alla comunità internazionale non si fa più accenno alla distruzione dello Stato di Israele, sebbene non risulti che su questo punto il movimento abbia cambiato idea; ciò, però, sta a significare che le responsabilità di governo, anche se limitate alla sola Gaza, hanno fatto crescere nei dirigenti di Hamas una maggiore attenzione ai meccanismi della politica internazionale e alle necessità della realpolitik[14]. Un altro tema importante passato in seconda linea, e che pure era molto presente nella letteratura fondazionale del movimento, è quello della creazione dello Stato islamico e dell’applicazione della sharia. Ma se Hamas non ha l’obiettivo di fondare uno Stato islamico palestinese, allora a che cosa mira? Stando alle sue dichiarazioni formali, il compito del movimento islamista sarebbe quello della liberazione totale del territorio storico della Palestina. Ma è veramente così?
Uno studioso del problema palestinese, vicino alle posizioni di Hamas, a tale riguardo commenta: «Alla stessa stregua del sogno utopistico religioso di instaurare uno Stato islamico, questo programma di edificazione nazionale, ugualmente utopistico, tende ad essere menzionato sempre meno nei documenti e nelle dichiarazioni del movimento. Più il tempo passa, meno Hamas sembra interessato a obiettivi di lungo termine, concentrandosi invece su una strategia che persegua obiettivi immediati di medio termine. Durante il processo che ha portato alla presa di potere, dopo le elezioni del 2006, Hamas ha incentrato la propria propaganda pre e post-elettorale sul concetto esplicito di resistenza all’occupazione israeliana, accettando esplicitamente, se pur con riluttanza, il principio dei due Stati. Non è stato posto l’accento né sullo Stato ebraico, né sulla totale liberazione della Palestina. Gli obiettivi finali sono stati in questo modo rimpiazzati con obiettivi a medio termine, più impellenti e più realistici»[15]. Tale posizione, alla luce delle vicende più recenti, ci sembra piuttosto ottimistica e benevola nei confronti di Hamas, anche se contiene innegabili elementi di verità. Va infatti ricordato che, soprattutto negli ultimi tempi, la posizione di Hamas si è andata ulteriormente irrigidendo sotto il profilo politico-ideologico, facendo spesso appello, per tenersi stretto il proprio fronte di consenso, alle sue idee fondazionali. Essa negli ultimi anni ha dovuto combattere su due fronti diversi: quello interno, cioè contro il concorrente politico di sempre (al Fatah), che ne intralciava in tutti i modi il cammino, anche in ambito internazionale, e quello esterno, cioè contro Israele, il quale non le riconosceva lo status di legittimo rappresentante degli interessi palestinesi, poiché tale organizzazione era considerata terroristica.
In conclusione, riteniamo doveroso affermare che non sembra possibile cercare oggi una soluzione al problema palestinese, a cui sta lavorando il presidente Obama, escludendo dal tavolo delle trattative Hamas con tutto ciò che tale movimento rappresenta, o impegnarlo preliminarmente, come da più parti viene sostenuto, su posizioni che dovrà far proprie in un processo di crescita e di confronto, come è stato in passato per l’Olp di Arafat. In ogni caso, la tesi che impegna le parti a un riconoscimento reciproco prima di sedersi al tavolo delle trattative, da alcuni interpreti è ritenuta opinabile: infatti nel recente passato è stata più volte sconfessata, come è avvenuto nel dialogo inter-cipriota e in quello fra le due Coree. Non sembra neppure di ostacolo a un tavolo negoziale condiviso da tutte le parti il fatto che Hamas sia registrata come organizzazione terroristica. Va ricordato infatti che tale lista è stata compilata unilateralmente dagli Stati Uniti, sebbene il suo valore sia stato riconosciuto da molti Paesi occidentali. Essa infatti non ha un valore giuridico vincolante, ma soltanto politico e orientativo, suscettibile di essere modificato.
In ogni caso, la sicurezza di Israele e in particolare il suo diritto a non subire attacchi «terroristici» o suicidi sul proprio territorio nazionale è valore molto grande che merita il riconoscimento dovuto; allo stesso modo, però, anche i palestinesi hanno diritto a una loro patria e ad essere sostenuti dalla comunità internazionale in tale giusta aspirazione. Hamas, come si è detto, dovrà su questo punto fare un passo avanti coraggioso e chiarificatore.
[1] Il movimento dei Fratelli Musulmani fu fondato in Egitto nel 1928 dall’ideologo islamista H. al Banna. Esso fin dall’origine si caratterizzò come un movimento transnazionale per cui branche della fratellanza furono costituite in diversi Paesi musulmani. La branca palestinese fu fondata nel 1945 grazie all’opera dell’allora ventenne S. Ramadan, genero di al Banna e padre di due intellettuali islamici oggi molto noti, Hani’ e Tariq Ramadan. Cfr N. Introvigne, Hamas, fondamentalismo islamico e terrorismo suicida in Palestina, Torino, Elledici, 2003; F. Montessoro (ed.), Lo Stato islamico. Teoria e prassi nel mondo contemporaneo, Milano, Guerini e Associati, 2005; G. De Rosa, Islàm e Occidente. Un dialogo difficile ma necessario, Torino, Elledici, 2005.
[2] Cfr M. Tesseler, «Intifada 1987-1992», in Encyclopedia of Palestinians, New York, Factus on File, 2000, 182-190.
[3] R. Guolo, Il fondamentalismo islamico, Roma – Bari, Laterza, 2002, 150.
[4] Questo movimento radicale si inserisce nel progetto di una rivoluzione islamica globale (panislamismo); superando la divisione tra sunniti e sciiti ritiene, come al Qaeda, che sia compito dei veri credenti combattere in ogni parte del mondo i nemici dell’islàm. Esso, cioè, si prefigge di estendere il jihad oltre i confini delle aree geopolitiche interessate. Hamas, al contrario, è un movimento su base nazionale, con un programma di lotta diretto contro l’occupazione israeliana della Palestina in nome dei princìpi islamici.
[5] «La fratellanza — scrive Guolo — mette al servizio di una popolazione che vive in situazione di estremo disagio risorse spirituali ma anche sociali: in campo sanitario, culturale e ricreativo. La Fratellanza gestisce, oltre ad ambulatori e ospedali, una banca del sangue, asili, scuole, biblioteche, associazioni sportive. I servizi offerti permettono di entrare in contatto con centinaia di migliaia di persone, accumulando un capitale di stima che tornerà utile quando la fratellanza si darà un’organizzazione politica»: R. Guolo, Il fondamentalismo islamico, cit., 1.
[6] Le citazioni sono tratte da M. Introvigne, Hamas, fondamentalismo islamico e terrorismo suicida in Palestina, cit., 85-124. Nell’appendice di questo testo è contenuto lo statuto di Hamas.
[7] Cfr B. Lewis, Semiti ed antisemiti, Milano, Rizzoli, 2003, 232.
[8] Cfr M. Introvigne, Hamas, fondamentalismo islamico e terrorismo suicida in Palestina, cit., 42; P. Caridi, Hamas. Che cos’è e cosa vuole il movimento radicale palestinese, Milano, Feltrinelli, 90, 2009; A. Nusse, Muslim Palestine. The Ideology of Hamas, Amsterdam, Harwood Academic Publishers, 1998, 180.
[9] Nel settembre 1993 israeliani e palestinesi raggiunsero un accordo definitivo: questa volta Arafat riconosceva il diritto di Israele a esistere in pace e in sicurezza, accettando le Risoluzioni dell’Onu su tale materia; prometteva, inoltre, di far cessare l’Intifada iniziata nel 1987. L’accordo fu firmato a Washington davanti al presidente degli Stati Uniti, Clinton; Arafat ottenne anche la liberazione di Yassin. Nel settembre del 1995, come previsto, l’accordo detto di Oslo II, impose il ritiro dell’esercito israeliano dalle città palestinesi, con l’eccezione di Hebron, e l’elezione nei territori di un «parlamentino» e di un presidente. Cfr R. Guolo, Il fondamentalismo islamico, cit., 166 s.
[10] M. Introvigne, Hamas, fondamentalismo islamico e terrorismo suicida in Palestina, cit., 50.
[11] Cfr F. Khosrokhavar, I nuovi martiri di Allah, Milano, Bruno Mondadori, 2003, 128; G. Kepel, Jihad. Ascesa e declino, Roma, Carocci, 132, 2008.
[12] K. Hroub, Hamas, fondamentalismo islamico e terrorismo suicida in Palestina, Milano, Bruno Mondadori, 2006, 66.
[13] L’Unione Europea ha vincolato la prosecuzione del sostegno al nuovo Governo palestinese a tre condizioni. 1) Hamas deve riconoscere il diritto di Israele a esistere; 2) deve rinunciare alla lotta armata e alle azioni di terrorismo; 3) deve appoggiare chiaramente il processo di pace nel Vicino Oriente in base agli accordi di Oslo. Attualmente, a seguito di una serie di scontri con l’organizzazione rivale al Fatah (praticamente allontanata da Gaza), Hamas ha assunto il controllo della sola Striscia di Gaza, mentre la zona cisgiordana è tornata sotto il controllo di al Fatah, cioè di Abu Mazen. Quest’ultimo, come presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, è di fatto divenuto l’interlocutore ufficiale dei Paesi occidentali, pur non avendo vinto le consultazioni elettorali del 2006, alle quali però parteciparono soltanto gli abitanti dei «Territori» e non i milioni di profughi che vivono fuori della Palestina.
[14] Cfr P. Caridi, Hamas. Che cos’è e cosa vuole il movimento radicale palestinese, Milano, Feltrinelli, 2008, 235.
[15] K. Hroub, Hamas, fondamentalismo islamico e terrorismo suicida in Palestina, cit., 37.